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SI!! Sta succedendo proprio ora!!!

Euroscettici

euroscetticiGli euroscettici vanno di moda, ma chi sono?    Secondo la vulgata sarebbero un variegato assemblaggio di movimenti sia di destra che di sinistra, nemici su tutto tranne che sul fatto che bisogna ridurre il potere degli organismi comunitari.   Anzi, per parecchi di loro sarebbe meglio abolirli proprio.
Ma sono davvero loro gli euroscettici?

Per discutere l’argomento, conviene cominciare con un ripassino-lampo di storia patria:

 

Un po’ di storia

All’inizio del XX secolo le potenze europee avevano, complessivamente, il mondo in pugno.   Una solida alleanza fra Inghilterra, Francia e Germania avrebbe avuto la forza di tenere incantonati Stati Uniti, Russia e Giappone, nonché di risolvere tutti i problemi interni di povertà continuando a sfruttare spudoratamente il resto del mondo.
Certo, non era etico, ma non fu per uno scrupolo morale, bensì per un desiderio folle di predominio che gli europei decisero di suicidarsi scatenando la più terribile guerra mai vista fino ad allora.

Anche i vincitori ne uscirono molto peggio di come ci erano entrati ed il fiume di sangue fu così impressionante che ne  scaturì il progetto della “Paneuropa”.   Un progetto che ebbe un notevole successo iniziale, ma che fu presto soffocato dall’arrivo in Europa della Grande Depressione degli anni’30, nata in USA.   Il precipitare della situazione economica riportò al governo partiti nazionalisti che tentarono di arginare i danni dei propri paesi a scapito dei vicini.   Particolarmente feroci furono i francesi a danno dei tedeschi, cosa che aiutò non poco la carriera politica di Adolf Hitler.

Fu così che gli europei si gettarono in un secondo ed ancor più devastante suicidio collettivo; il più grandioso dell’intera storia.   Come andò lo sappiamo e, scavalcando forse 50 milioni di morti, giungiamo al 1945, con noi ridotti ad un cumulo di macerie, mentre USA ed URSS si spartivano il mondo e quel che restava di noi.

Fu in questo desolante paesaggio che Robert Schuman ebbe l’idea geniale di sostituire lo sfruttamento dei vinti con la collaborazione economica.   Un processo che nelle sue intenzioni doveva gradualmente sanare le ferite reciproche e creare quel clima di fiducia e fratellanza che era indispensabile per giungere alla creazione di quegli Stati Uniti d’Europa, tante volte vagheggiati e mai realizzati.

Funzionò e così giungemmo al 1989: collasso dell’Impero Sovietico.   Occasione per gli europei per un nuovo suicidio.
Con la Russia a pezzi e l’America troppo ebbra di vittoria per preoccuparsi di noi, abbiamo avuto una finestra di buoni 10 anni per fare due cose:
– Guidare l’economia in uno stato il più possibile stazionario;
– Creare una EU politicamente molto coesa ed integrata da subito, diluendo invece l’integrazione economica nei decenni a venire.
In altre parole, politica e difesa comuni; economie tendenti all’unificazione, ma con i tempi e le protezioni di cui ognuno aveva bisogno.

Ancor più importante: basare l’integrazione dei paesi dell’est sulla necessità di fare fronte comune alle immense difficoltà che non avrebbero tardato ad arrivare, anziché sulla prosopopea dell’arricchito che “educa al benessere” il suo vicino di casa povero.

Esattamente il contrario di quanto fecero i partiti al potere allora (ed ora).

euro-crisisLo stesso progetto della moneta unica, nacque come grimaldello per costringere le oligarchie nazionali a cedere effettiva sovranità ad un livello federale.    L’idea era, infatti, che poiché una moneta unica non potrà mai funzionare senza un governo unico, l’adesione all’Euro avrebbe poi costretto i vari “ras” ad accettare almeno un embrione di federazione.
Sbagliato.    Non ci hanno pensato due volte a mandare ai pesci il più importante esperimento politico del secolo per non rinunciare ad una fetta del loro potere.    Signora Merkel in testa al corteo.

Quel che non capisco è perché proprio lei ora si lamenti del fatto che il corteo cui ha dato l’avvio sta avendo tanto successo.

Comunque, non ci bastò: perseguendo un sogno neocoloniale assolutamente folle, assieme agli USA abbiamo promosso e spinto la globalizzazione economica planetaria.

Il sogno era affascinante: un Europa faro di civiltà che gestisce buona parte dell’economia mondiale (a proprio vantaggio), mentre le fabbriche, l’inquinamento, il proletariato urbano e tutte le altre cose sgradevoli connesse con lo sviluppo se le prendevano gli altri che, per di più, ce ne sarebbero stati grati.
E’ andata un po’ diversamente ed ora che la realtà bussa alle porte dei nostri sogni possiamo scegliere fra molte opzioni, ma ancora una volta riemergono gli spettri di un nazionalismo che, evidentemente, non ci è ancora costato abbastanza.    Sembra che stiamo nuovamente scegliendo di scannarci fra di noi, anche se sul piano economico e commerciale, anziché su quello militare, probabilmente perché non abbiamo più forze armate in grado di combattere se non come supporto a quelle USA.

 

Chi sono gli euroscettici?

Fenomeni complessi come questo hanno sempre cause altrettanto complesse, ma una di queste è facile da identificare: i partiti che controllano i governi nazionali controllano anche il Consiglio Europeo che è il vero organo decisionale comunitario.   E da 30 anni questi partiti sono impegnati in un gioco di prestigio: far funzionare un’economia integrata, ma senza integrare le politiche; anzi, spesso tirando a farsi l’un l’altro le scarpe.
Non funziona e non può funzionare, ma questa semplice constatazione non riesce a scalfire i processi decisionali interni agli stati che poi, tramite il Consiglio, si riverberano a livello comunitario.

Il paradosso sta tutto qui: gli stessi partiti che nel Parlamento europeo spingono per una sempre maggiore integrazione, nelle rispettive capitali locali e nel Consiglio Europeo remano invece contro, chi più chi meno.
Del resto è sempre così: le comunità sono più forti dei singoli e danno quindi dei vantaggi, ma per farle funzionare occorre che ognuno sia disponibile a far passare l’interesse collettivo avanti a quello individuale.   E questo non sembra che nessun governo abbia voglia di farlo.

Dunque, se proprio coloro che da sempre stanno seduti nelle “stanze dei bottoni” hanno estrema cura che certe cose non funzionino, è ovvio che non funzioneranno.    Ed è altrettanto ovvio che questo provocherà problemi, scontento e la precisa sensazione di essere presi in giro.   Sentimenti più che giustificati su cui estrema destra e sinistra hanno facile presa.

Io visualizzo la situazione in questi termini: siamo in mezzo ad un mare in tempesta e l’occhio del ciclone si avvicina.   La nostra barca è apparentemente robusta, ma chi la ha governata finora ha smontato gran parte delle strutture portanti per farci delle sovrastrutture inutili e pesanti che fanno beccheggiare pericolosamente lo scafo, mentre imbarchiamo acqua da diverse falle.   Gli ufficiali si picchiano intorno al timone, mentre i membri dell’equipaggio vagano con grosse canne in bocca e bottiglie di whisky mezze vuote in mano.   A questo punto un certo numero di passeggeri si ribella ed ha un’idea: affondiamo la barca ed andiamocene ognuno per conto suo, vedrete come sarà bello nuotare!

In conclusione, chi sono gli euroscettici?

Quelli che per 30 anni si sono rifiutati di fare davvero l’Europa, o quelli che in questi giorni si stanno costruendo delle carriere politiche sugli errori commessi da altri?

Comunque, almeno una cosa nessun euroscettico potrà negare: tutti i popoli d’Europa sono accomunati da almeno due cose: la smisurata superbia ed una spiccata tendenza al masochismo.

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Domesticazione umana

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Il tema della ‘domesticazione umana’ era già stato introdotto in un mio precedente post, ma credo valga la pena di svilupparlo meglio perché consente di inquadrare nella giusta prospettiva fenomeni che risultano ‘inspiegabili’ con le chiavi di lettura attuali. Ancora ieri si ragionava di incidentalità stradale, dell’aggressività alla guida, dell’insufficienza nelle reazioni messe in atto nel corso degli anni (campagne informative inefficaci o totalmente sbagliate, mancato adeguamento della legislazione e via dicendo…), con diverse persone che sottolineavano l’incomprensibilità di certi accadimenti.

Per approcciare la questione va fatto un lungo passo indietro, fino al lunghissimo arco di tempo (dal 15.000 al 4.000 a.C.) nel corso del quale l’Homo Sapiens ha addomesticato altre specie animali e vegetali, selezionando le varietà più utili e sostanzialmente stravolgendo il genoma di una porzione importante della biosfera.

La domesticazione coinvolge aspetti diversi. Nelle piante quello che si ricerca da principio è la produttività. Le piante da frutto utilizzano gli animali per massimizzare la diffusione dei propri semi (i frutti vengono mangiati ed i semi ‘diffusi’ assieme alle feci su un areale più vasto, passando indenni attraverso i processi digestivi). L’umanità seleziona le varietà con i frutti più grossi e gradevoli, e ne crea coltivazioni intensive.

L’esito finale può essere disastroso per la specie domesticata. Nel grano originario, ad esempio, i semi si staccano spontaneamente dalla spiga cadendo a terra per la semina dell’anno successivo. Ma questo non è funzionale alle esigenze umane, cosicché nel tempo si sono selezionate varietà di grano nelle quali i semi non si staccano. Varietà che non avrebbero modo di sopravvivere nell’ambiente senza l’intervento umano.

Con gli animali si sono prodotte dinamiche analoghe. Gli animali, a differenza delle piante, devono adattarsi alla vita in cattività, cosa non scontata. Jared Diamond spiega che alcune specie non sopportano di venir rinchiuse in recinti, si scagliano contro le pareti tentando di fuggire fino a morirne. Altre specie si adattano alla prigionia ma non si riproducono in cattività, cosa che rende impraticabile l’allevamento.

L’animale che per primo fu domesticato fu il lupo, utilizzato dai nostri antenati come aiuto nella caccia ed in seguito sottoposto ad una infinita serie di selezioni arbitrarie fino a produrre tutte le varietà esistenti di specie canine, dall’alano al chihuahua passando per bassotti, levrieri, molossi e barboncini.

La nostra stessa specie non è passata del tutto indenne attraverso questa fiera delle mostruosità, nonostante gli adattamenti prodotti nel tempo siano di natura più psicologica che morfologica. L’umanità nasce come una specie di cacciatori-raccoglitori nomadi che, in seguito all’invenzione dell’agricoltura, diviene stanziale, comincia ad intervenire sull’ambiente circostante su larga scala, crea comunità numerose e dà infine vita agli aggregati chiamati città.

L’esistenza delle città dipende dall’accettazione della coesistenza fra centinaia, poi migliaia, di individui. Questo è il primo adattamento psicologico richiesto: la capacità di convivere in gruppi estremamente numerosi, di essere circondati costantemente da sconosciuti, di entrare in relazione con essi attraverso un linguaggio comune, convinzioni comuni, ideologie condivise. Le città nascono grazie al potere militare che sono in grado di esprimere nei confronti delle popolazioni circostanti e sono tenute unite da religioni ed ideologie.

Il faticoso adattamento alla vita collettiva, agli spazi chiusi, trova come contraltare una maggior sicurezza, la protezione di un esercito, l’abbondanza di cibo rispetto a quelli che restano a vivere isolati nelle campagne, a contatto con la natura. Gli individui che mal sopportano questa forzatura diventano viaggiatori, esploratori, mercanti, avventurieri, gli altri ingrossano le fila dei ‘residenti’, vivono vite sicure e tranquille e si riproducono a ritmi molto elevati.

Fabbrica
Questo processo ha condotto, nel corso dei millenni, ad una mutazione antropologica di una parte consistente (numericamente maggioritaria) della nostra specie. Veniamo allevati in cattività, abituati fin da subito a vivere circondati da barriere protettive (le mura di casa, della scuola, gli abitacoli dei veicoli con i quali ci spostiamo), fino a perdere, in tutto o in parte, la familiarità con l’ambiente naturale dal quale abbiamo avuto origine.

Questo sradicamento, questa alienazione, quest’esperienza di vite sempre più artificiali verso cui la modernità ci spinge, disarticola la nostra stessa cognizione del mondo. Se le civiltà del passato erano ancora in grado di collocare sé stesse all’interno di un sistema naturale, di percepire i cicli e le esigenze della vita sul pianeta, la nostra cultura se ne è allontanata a tal punto da renderne i segnali d’allarme indecifrabili.

Così, mentre catastrofi epocali avanzano di giorno in giorno, la desertificazione (solitamente di natura antropica) erode i continenti, l’atmosfera si surriscalda a causa delle tonnellate di gas serra rilasciate quotidianamente, gli oceani si acidificano, i ghiacciai millenari si sciolgono, le specie viventi selvatiche si estinguono in massa, l’umanità non riesce a vedere oltre i confini dei recinti nei quali si è spontaneamente rinchiusa, delle gabbie in cui si è abituata a vivere e che diventano via via più strette ed opprimenti.

Come gli allevamenti industriali hanno progressivamente sostituito i pascoli, così le città contemporanee hanno sostituito quelle antiche, incrementando l’isolamento individuale grazie anche al cambiamento degli stili di vita. Rispetto al passato abbiamo città e case più ingombre di oggetti e passiamo molto più tempo in compagnia di macchine da intrattenimento che non coi nostri simili.

Negli allevamenti industriali gli animali sono compressi in spazi ridotti, mutilati per impedire aggressioni reciproche, sovralimentati per farli aumentare rapidamente di peso prima della macellazione. Gli ‘allevamenti umani’ della società consumista non sono molto dissimili, anche se rispondono ad una logica leggermente diversa. ‘Dobbiamo produrre, dobbiamo consumare’: questo è il valore degli individui all’interno del meccanismo. Più produciamo, più consumiamo, più plusvalore i nostri governanti (politici, ma sempre più spesso economici) riescono a ‘mungere’ per sé.

Lo stress urbano, l’aggressività, la violenza, sono figlie della cattività, del vivere gomito a gomito con migliaia di sconosciuti, della compressione delle nostre esigenze di spazio, silenzio, solitudine e libertà. Esigenze di cui siamo stati privati per un arco di tempo talmente lungo da non renderci più in grado neppure di riconoscerle, o dargli un nome. Un vivere quotidiano talmente opprimente da non lasciarci le capacità mentali per guardare oltre, per vedere un pianeta in lento e progressivo disfacimento. Men che meno le energie per invertire la rotta.

Allevamento intensivo

Catastrofe egiziana e cazzeggiare europeo

La visita di Hollande in Egitto.

Hollande e al sisiAlcuni giorni fa il presidente francese, François Hollande, si è recato in visita ufficiale in Egitto e, per l’occasione, sono stati firmati una serie di contratti.   La notizia ha sollevato un certo scandalo fasullo in Italia.   “Cattivi francesi che fanno affari profittando che l’Italia ha delle grane con l’Egitto per via di Regeni”.   Pietosa messinscena, dal momento che noi italiani non abbiamo esitato un attimo a consegnare due dei nostri soldati all’India.   Che neanche li processa e quindi li tiene (lo tiene, perché uno poi se l’è potuta svignare) in ostaggio a tempo indeterminato.   E questo per salvare un contratto da 12 elicotteri che poi (giustamente) è saltato lo stesso.

Dunque, sgombriamo il campo dalla nostra ipocrisia e concentriamoci su quella altrui, tanto per imparare qualcosa.

Durante i discorsi ufficiali, Hollande non ha resistito alla tentazione di fare il maestrino, ricordando al dittatore egiziano che “Il rispetto dei diritti umani è un punto di forza e non di debolezza”.    Al Sisi, gli ha risposto per le rime, dicendo che, evidentemente, gli europei non si rendono neanche conto di cosa succederebbe se esplodesse l’Egitto.

Al di là della schermaglia diplomatica, cosa ci insegna questo fatterello?

Hollande ha detto una cosa perfettamente vera.   Tanto più che per accollarsi le spese e gli obblighi di uno stato la gente ha diritto di avere qualcosa in cambio.   E, tanto per cominciare, da sempre questo qualcosa è l’essere difesi, nei limiti del possibile.
Ma Hollande non è quel presidente che tiene il suo paese in stato di emergenza da mesi e a tempo ancora indeterminato?   Che voleva far passare una riforma costituzionale che gli avrebbe attribuito poteri quasi dittatoriali e che sta mettendo in galera molti più ambientalisti e sindacalisti che Jihadisti?   Quando si dice da che pulpito la predica!

D’altro canto è vero che quella di Al Sisi è una dittatura militare a tutti gli effetti e che quel che è accaduto a Regeni è probabilmente abbastanza frequente che accada agli egiziani.   Anzi, più goffi si fanno i depistaggi degli egiziani, più aumenta il legittimo sospetto che dietro questo crimine ci sia implicato qualche personaggio importante del regime.

D’altronde ricordiamoci che l’alternativa alla dittatura militare è una dittatura islamista non più tenera di quella attuale e, per di più, ben disposta verso forme di “pulizia religiosa” anziché etnica.   Ne abbiamo visto l’assaggio durante la breve presidenza Morsi.

Ma c’è anche la possibilità di una ben peggiore catastrofe egiziana, che è quella a cui ha fatto esplicito riferimento il generale: la disintegrazione dello stato e la guerra civile.   Ed in questo Al Sisi ha detto una sacrosanta verità.
Se accadesse una cosa del genere, l’intero medio oriente salterebbe in aria come un petardo e la massa dei fuggiaschi verso l’Europa non sarebbe più di milioni di persone all’anno (come oggi) bensì di decine di milioni.   Ci troveremmo costretti a decidere molto in fretta se sparare a vista sui barconi e lungo le frontiere, o se essere letteralmente sommersi da una massa di disperati in fuga.

Dunque quello che ha detto Al Sisi è sostanzialmente questo: “Guarda amico che tu hai bisogno di me.   Se io mollo scoppia un casino che né tu, né nessuno dei tuoi amichetti sarebbe neanche lontanamente in grado di fronteggiare.”   Ed ha perfettamente ragione.

Questo ci insegna una prima cosa importante: chi non è capace di gestire i fatti propri li rimette ad altri, ma così affida ad altri la propria sicurezza, finanche la propria esistenza.   Nella fattispecie, si mette nelle mani di personaggi del tipo di Al Sisi e di Erdogan (o Gheddafi, di recente memoria).   Personaggi che non solo sono dei dittatori o degli aspiranti tali, ma che neppure esitano ad alzare il prezzo; non solo in euro, ma anche in sostegno politico e militare.

La catastrofe egiziana.

Quanto potrà durare questa situazione?   Probabilmente non molto.

catastrofe egiziana demografiaLa popolazione egiziana è passata da in 50 anni da 28 a oltre 90 milioni di persone, e continua a crescere ad un tasso superiore al 2%.   Il che significa raddoppio (180 milioni) nel giro di 30 anni.    Nel 2011, quando sono scoppiate le “primavere” erano 82 milioni, nel 2015 (quattro anni dopo) erano già 92!

Il 75% della popolazione ha meno di 25 anni, il che significa che, anche se la natalità crollasse bruscamente, la popolazione continuerebbe a crescere per almeno altri 50 anni (salvo catastrofi).   Inoltre, l’egiziano medio, malgrado sia poverissimo e spesso disoccupato, ha un’impronta ecologica che supera del 200% la disponibilità del paese.   Significa che per vivere come oggi, gli ci vorrebbero 4 paesi invece di uno.   E l’impronta ecologica è un indice notoriamente molto ottimista.

L’estrazione di petrolio ha “piccato” una quindicina di anni fa ed è in calo molto rapido, quindi le importazioni dovranno comunque aumentare molto rapidamente.   Il clima sta peggiorando e la produzione agricola cala, sostituita dalle importazioni, soprattutto dall’Ucraina, paese che qualche problema ce lo ha anche lui.

Il mare si sta mangiando il delta del Nilo, la cui portata sta diminuendo sia per ragioni climatiche, sia per il disboscamento a monte.   Ma soprattutto per le derivazioni d’acqua per irrigazione in Sudan, Sudan del sud ed Etiopia, tanto che già vi sono varie minacce di guerra pendenti.  Una per ogni diga in progetto.

Dunque la catastrofe si sarà con assoluta certezza.   Non possiamo sapere quando, ma sappiamo che fra non molto ci saranno decine di milioni di persone in fuga, con ottime ragioni per farlo.   Cosa pensiamo di fare?
Sostenere il governo, quale che sia e qualunque cosa faccia anche ai nostri cittadini, è un metodo per rimandare il disastro e guadagnare tempo.   Ma la catastrofe egiziana non potrà essere evitata, qualunque cosa facciamo.

Abbiamo una strategia qualunque o pensiamo di continuare a trastullarci fra ignavia ed ipocrisia?

Abbiamo perso; un’altra volta.

pandaCome da pronostico, un terzo scarso degli aventi diritto è andato a votare ed il referendum non è passato.   Sorpresi?   Quante volte abbiamo già visto questo film?   Non credo che nessuno fra quelli che si sono attivati per il “SI” credesse davvero di poter vincere.

Ora è la fase dei commenti e, tra chi brinda e chi si arrampica sugli specchi, vorrei proporre alcune riflessioni personali.

Innanzitutto direi che bisogna distinguere i due fiaschi che il 17 si sono assemblati: il fiasco dell’istituto referendario ed il fiasco del movimento ambientalista.

referendum 17 aprile 2016Per quanto riguarda il primo, c’è poco da dire se non “Grazie Pannella”.   Fu infatti il leader radicale che, oramai tanto tempo fa, tentò di scardinare la macchina del potere partitico subissando il governo con una massa di referendum che, sperava, avrebbe obnubilato le capacità di reazione dei partiti.   Invece accadde il contrario.   Da un lato, fu messa a punto una tecnica estremamente efficace per boicottare i referendum, come abbiamo visto anche nei mesi scorsi.   Dall’altro, la maggior parte della gente si è stufata di troppe domande, troppo frequenti e troppo tecniche.   Risultato, il più democratico degli istituti è morto ammazzato dal suo più ardente paladino.   Si sapeva anche la settimana scorsa.   Amen.

Il secondo punto è più complicato, a cominciare dal fatto che questo referendum è nato nell’ambito di una lotta per il potere interna al PD ed alla macchina statale.   Tuttavia aveva delle implicazioni ambientali ed il movimento ci si è buttato.   Ha perso, ma quello che mi interessa qui è che non abbiamo perso ieri: abbiamo perso sempre.    Un movimento che 50 anni fa sembrava capace di cambiare l’agenda politico-economica globale si sta disintegrando senza aver ottenuto praticamente nulla.

Un dato questo inoppugnabile alla luce dei fatti: rispetto al 1970, la situazione ambientale del mondo è peggiorata in modo terrificante.   E’ vero, il panda non si è ancora estinto, anzi è in lieve ripresa.   Ma attenzione: ciò non è accaduto in forza di norme ed interventi del governo o di una presa di coscienza popolare.   Bensì come “sottoprodotto” del boom economico ed edilizio cinese che ha drenato verso le grandi città decine di milioni di contadini e montanari.   Questo ha dato temporaneo respiro ai boschi dove vivono i panda, ma intanto è raddoppiato l’inquinamento mondiale e con ogni probabilità abbiamo oramai superato il punto di rottura climatico.   Un po’ quello che è accaduto in Europa negli anni ’50 e ’60, più in grande ed in un contesto globale ben peggiore.

indicatori di crisi

E mentre quasi tutti gli indicatori mondiali di qualità ambientale peggiorano in maniera esponenziale (andate a leggere questo link), perfino sul piano culturale l’ambientalismo ha perso buona parte della la sua forza propositiva.   Ad oggi, in Italia ed in Europa esiste una piccola e radicata nicchia di persone preoccupata per l’ambiente, ma le associazioni storiche stanno scomparendo, quelle nuove non decollano ed alle riunioni si vedono sempre le stesse teste, sempre più bianche.   E mentre sui teleschermi assistiamo alla telecronaca in diretta del collasso della nostra civiltà, continuiamo a ripetere come dei mantra parole ormai prive di senso, come “sostenibilità” ed “efficienza”.   Né servono a molto quei pochi che, viceversa, accettano il ruolo di “foglia di fico” del sistema economico, sempre senza preoccuparsi minimamente di come questo si interfacci con la realtà.

Non è un caso se tutti i testi fondamentali per l’ambientalismo sono vecchi di 50 anni: “Silent Spring” 1962, “The Population Bomb” 1968, “The Entropy Law and Economic Process” 1971, “Limits to Growth” 1972.
Dopo è stato scritto molto e molto a proposito, ma i termini fondamentali della questione erano chiari allora ben più di ora.
Le opzioni possibili invece sono cambiate perché il tempo è passato e molte delle cose che non sono state fatte in passato non potranno essere fatte in futuro.

D’altronde, sull’altro fronte le cose vanno perfino peggio.   Se nel 1970 le principali industrie europee finanziavano lo studio che portò ai “Limiti dello sviluppo”, oggi il panorama economico è dominato da individui che si occupano di grattare il fondo del barile.   Oppure da ingenui che davvero credono che eliminando i pochi brandelli di tutele ambientali e sociali ancora esistenti si possa rilanciare una crescita economica che per noi è finita da anni e per il mondo (probabilmente) sta finendo proprio adesso.   Amen (un’altra volta).

Dunque la domanda che mi pongo è questa:   Ha ancora senso che esista un movimento ambientalista?   Se si, quali gli scopi che si dovrebbe prefiggere?

Non è una domanda nata oggi dalla sconfitta di ieri.   E’ una domanda nata 10 anni or sono dalla sconfitta di 50 anni consecutivi in cui non è stato possibile modificare di un millimetro la traiettoria suicida della civiltà umana.   Oggi semplicemente la ripropongo, perché ancora non ho trovato una risposta.

post-apocalypse-300x200La aspetto, non ho fretta.

Trappole 3: L’ efficienza

 

di Jacopo Simonetta

efficienzaCi fu un tempo non molto remoto in cui  “Fattore 4” era per me un testo di riferimento.   Per chi non lo conosce, è un libro scritto da tre dei più illustri studiosi in materia di sostenibilità.   Niente di meno che Amory B. Lovins, L. Hunter Lovins, Ernst U. von Weizsäcker.   Persone che hanno diretto istituzioni del calibro del Wuppertal Institut e del Rocky Mountain Institute.   Il massimo, insomma.

In estrema sintesi, la tesi sostenuta ed ampiamente documentata nel libro è che già con le tecnologie commercialmente disponibili negli anni ’90 era possibile quadruplicare la produzione di beni e servizi senza incrementare il prelievo di risorse e la produzione di scorie.   Oppure mantenere i livelli di produzione, riducendo del 75% i consumi ed i rifiuti.   Tombola!

Cosa di meglio?   A cominciare dal fatto che l’ambientalista cessava finalmente di presentarsi come una sorta di monaco verde che annunciava l’apocalisse se tutti non si fossero pentiti e dati ad un’esistenza di privazioni.   Al contrario, poteva trattare con sufficienza i retrogradi ed i reazionari, incapaci di vedere il sorgere di un’alba tecno-radiosa dietro le moribonde fuliggini di un’economia fossile in agonia.

Molto appagante, ma non ha funzionato.   E, col senno di poi,  la cosa drammatica è che neanche avrebbe potuto funzionare.   Possibile che persone di tale competenza si siano sbagliate così di grosso?   No, però si.

Un primo punto è che, storicamente, l’aumento dell’efficienza produttiva ha sempre comportato un aumento dei consumi.   Un fenomeno tipicamente contro-intuitivo su cui esiste un’ampia letteratura a cominciare dal 1865.   Magari ci torneremo un’altra volta.

Quello che qui vorrei mettere in risalto è invece che l’aumento dell’efficienza, se non controbilanciato da altri fattori limitanti, tende inevitabilmente a distruggere le basi ecologiche della sopravvivenza.
In una cultura compenetrata dal culto dell’efficienza questa è probabilmente una nozione difficile da accettare.   Vediamo quindi di capirla con l’aiuto di qualche esempio semplice.

Immaginiamo di sfruttare una risorsa rinnovabile, per esempio un banco di pesca.   Pescare rende e così investo per pescare di più.   Ma via via che pesco, la densità e la taglia dei pesci diminuiscono, mentre i miei costi in termini di lavoro, carburante, tempo eccetera, aumentano, finché non mi conviene più e rallento.   Diminuendo la pressione, i pesci si riproducono meglio e crescono di più, cosicché torna ad essere vantaggioso pescare.
Si crea così un approssimativo equilibrio in cui il tasso di sfruttamento tende ad adeguarsi al tasso di rinnovamento della risorsa.   Ma che succede se qualcuno trova il modo per individuare più in fretta i banchi di pesci?   Oppure costruisce dei motori navali che spingono di più consumando di meno?
Succede che i costi diminuiscono e diventa quindi interessante sfruttare la risorsa anche a densità e dimensioni medie che prima non erano convenienti.   Ma se una risorsa rinnovabile viene sfruttata ad un tasso superiore a quello con cui si rinnova diventa, di fatto, una risorsa non-rinnovabile a tutti gli effetti pratici.   All’incirca come il petrolio od il rame, con il suo picco ed il suo dirupo di Seneca.  eccesso di pescaCioè esattamente quello che è accaduto ai principali banchi di pesca del mondo.

 

Facciamo un altro esempio.    Un albero impiega dai 15 ai 20 anni per raggiungere una taglia utilizzabile per farne legna da ardere.   Dai 50 ai 100 per poterne fare tavole e carpenteria corrente.   Dagli 80 ai 300 per diventare utilizzabile come legname pregiato.   Per questo certe opere, come le cattedrali gotiche e le flotte della prima era coloniale sono state possibili solo distruggendo foreste vecchie di molti secoli.

Man mano che la frequenza dei tagli aumenta, alcune specie spariscono e la taglia media diminuisce, rendendo meno conveniente lo sfruttamento.   Ma se si inventano modi più efficienti di tagliare e trasportare i tronchi, oppure se la pressione economica e/o demografica aumenta, lo sfruttamento continua comunque.   Ed è così che, in molte zone, nel giro di un paio di secoli siamo passati dalla produzione di legnami pregiati a quella di legname da carpenteria, poi da ardere ed infine alla carbonella.
Nessuno amava i carbonai perché dopo il loro passaggio la “miniera di legname” era esaurita e restavano solo sassi fra i quali le capre cercavano qualche filo d’erba.    Gran parte dei deserti e dei sub-deserti del nord-Africa e del sud-Europa hanno avuto questa origine.

Finché il lavoro è stato fatto con le scuri, il fenomeno è stato necessariamente confinato ad aree relativamente limitate.   disboscamentoL’introduzione di motoseghe, camion e trattori ha permesso il disboscamento in pochi decenni di ben oltre la metà della superficie boscata ancora esistente.   I mezzi attualmente in uso sono in grado di tagliare, sfrascare ed accatastare alberi secolari nel giro di minuti.

Lo stesso è accaduto o sta accadendo a praticamente tutte le risorse teoricamente rinnovabili, dall’acqua, al suolo, alla biodiversità.

Dunque l’efficienza è male?   Ma non ci avevano spiegato a scuola che l’evoluzione è una costante tendenza ad aumentare l’efficienza nello sfruttamento delle risorse?

La risposta alla seconda domanda è: si, ma in un ecosistema tutti gli elementi che lo costituiscono coevolvono, interagendo in continuazione fra loro, e tutti con tempi di adattamento analoghi.   Quello che si verifica è quindi che il miglioramento nella capacità del parassita di attaccare l’ospite si sviluppa circa di pari passo con la capacità dell’ospite di resistere.   Lo stesso avviene fra prede e predatori, eccetera.  Ovviamente è un gioco in cui molti si fanno male e muoiono, ma l’ecosistema permane e si adatta.

Nel nostro caso, c’è un elemento, noi, che evolve con tempi che sono di parecchi ordini di grandezza più brevi di quelli della maggior parte degli altri elementi, ma non tutti.   Ne consegue che l’ecosistema viene completamente stravolto e rimaniamo solo noi, i nostri simbionti (perché siamo noi a garantirgli condizioni idonee) ed alcuni dei nostri parassiti (che sono ancora più svelti di noi).

La risposta alla prima domanda è: dipende.   Se subentrano altri fattori che limitano lo sfruttamento della risorsa come tabù religiosi, tasse o leggi che limitano il prelievo, oppure vengono scoperte risorse alternative più economiche, l’aumento dell’efficienza può non avere effetti negativi.   Ma rimane sempre un gioco pericoloso perché l’aumento dell’efficienza tende comunque a trasformare le risorse da rinnovabili a non rinnovabili.

Teoricamente le risorse potrebbero essere salvaguardate ed in alcuni casi è anche possibile recuperare in parte del danno fatto.   Ma nella realtà dei fatti ogni aumento di efficienza nello sfruttamento di una risorsa si traduce sempre in un degrado della medesima, eventualmente fino alla sua completa distruzione.

Amen.

In riva al fiume della vita

Ormai da molti anni sono seduto sulla riva del fiume.  Attendo di veder passare il cadavere del mio nemico. È un cadavere enorme, il cadavere della “civiltà dell’automobile“, ci vorranno intere generazioni prima che ne sia completato il transito, ma già se ne vedono affiorare sulla superficie le prime parti, ed è quasi un buon segno.

La “civiltà dell’automobile” ha rappresentato per molti decenni l’apoteosi della tendenza umana all’auto-inscatolamento, producendo una devastazione senza precedenti del pianeta, di cui pagheranno le conseguenze le generazioni future. L’uomo “in scatola”, sigillato ed incapace di avere un contatto sano col mondo che lo circonda, è la paradossale involuzione terminale della nostra specie conseguente all’invenzione del motore a scoppio. L’uomo “in scatola” vive la propria esistenza perennemente confinato, dentro case, uffici, automobili. I suoi contatti con l’esterno sono ridotti al minimo indispensabile e spesso operati in contesti anch’essi completamente artificiali.

Non venendo mai realmente a contatto con il mondo in cui vive, l’uomo “in scatola” si disinteressa totalmente di tutto ciò che si colloca al di fuori dei propri “contenitori”, ed il suo unico interesse risiede nel potersi spostare, in scatola, da una scatola all’altra. Tutto quello che c’è in mezzo, tolte le strade carrozzabili, gode dello stesso identico status di una discarica. Su questo ragionavo stamattina quando, dimentico di ogni buonsenso, mi sono accodato al mio amico Sergio alla ricerca di un collegamento “ciclabile” tra la periferia sud di Roma e quella di Ciampino. Zone che ormai da anni attraverso solo per caso, cercando di distogliere lo sguardo, di dimenticare. Dimenticare, ma è impossibile, i ricordi di vent’anni fa, quando giovane neo-appassionato di bicicletta seguivo ciclisti più esperti tra le mille stradine serpeggianti fra i vigneti dei Castelli Romani, all’epoca ancora idilliache e relativamente deserte.

Oggi, al contrario, i vigneti sono scomparsi sotto colate di cemento, eserciti di villette a schiera, sobborghi e seconde case “nel verde” (?), e quelle stesse stradine, allargate ed ormai oppresse da ogni lato da muraglioni di cemento armato, sono intasate da un traffico veicolare forsennato e privo di senso, guidato dalla logica incomprensibile della perenne fuga “in scatola” da una scatola all’altra. Come topi in un labirinto, perennemente in corsa con la convinzione di poter uscire dal labirinto stesso, ma incapaci di renderci conto che i confini del labirinto sono solo nelle nostre teste, marchiati a fuoco dalle logiche di gruppo e dai rituali collettivi. Così sprechiamo ore a girare nei centri commerciali per acquistare oggetti di cui potremmo fare tranquillamente a meno, dopo aver perso ore in macchina per raggiungerli, e prima di spenderne altre per inscatolarci di nuovo nelle nostre case. Non sappiamo più correre, non sappiamo più camminare, non sappiamo più fermarci, non sappiamo più guardare al mondo e vederlo realmente. E il mondo, disprezzato, ignorato, abbandonato, ci è diventato ostile e ci si rivolta contro.

Tutto questo un giorno finirà. Dovrà finire, o finiremo noi. I segnali sono chiaramente visibili a chi abbia occhi per vedere, e voglia di tenerli aperti. E quando questo delirio finirà ci si renderà conto che sarebbe stato meglio tenersi le vigne, che non costruire i nuovi sobborghi, che la terra coltivabile andava salvaguardata, e non cementificata, che i chilometri e chilometri di superstrade e svincoli non servono più a nulla, e nemmeno il terreno che occupano potrà più essere coltivato. Dopo la caduta dell’impero romano la popolazione di Roma si ridusse dal milione di abitanti di epoca imperiale a diecimila, quindicimila persone nel medioevo… con abbondanza di terre coltivabili a breve distanza. Un domani, se il crollo dell’impero delle scatole sarà brutale e drammatico tanto quanto la cecità dei suoi esegeti lascia temere, le grandi città potrebbero rimanere totalmente abbandonate per secoli.

Io siedo sulla riva del fiume. La sagoma del cadavere, nascosta sulla distanza dalla foschia, sembra immensa. Quando finalmente passerà, la sua visione potrebbe risultare insostenibile.

Fiume
Robert Frank – St. Louis, man sitting by River


(un saluto a lettori e lettrici del blog da Marco Pierfranceschi, aka “Mammifero Bipede“, da poco arruolato nel team. Seguo con attenzione le tematiche relative ai trasporti, alla mobilità leggera ed alla vivibilità
urbana . Questo post risale al gennaio 2009. Nei sette anni da allora trascorsi la “civiltà dell’automobile” è stata oggetto di ogni forma di accanimento terapeutico che ne potesse prolungare l’agonia)

La Turchia al salvataggio dell’ISIS ed altri disastri ( seconda parte)

Siria, 12 Marzo 2016
Siria, 12 Marzo 2016

Proviamo a fare un rapidissimo e brutale ( spero non troppo erroneo) riassunto:

la situazione parrebbe la seguente:

La Turchia:

non vuole una enclave curda e non vuole Assad o i suoi successori. A parole ma SOLO a parole non vorrebbe nemmeno l’Isis ma in realtà ci fa affari e continua a farceli. In pratica avendo mantenuto finora le frontiere aperte ai traffici ne ha garantito prima il successo egemone e poi la sopravvivenza, cosi’ diventando moralmente corresponsabile della morte di centinaia di migliaia di persone. Il progetto per la nascita di un protettorato turco sulla Siria è andato decisamente buca ed anzi ha creato le premesse per la nascita di uno stato curdo alle sue frontiere, proprio il contrario di quel che voleva ottenere. Ora, in verità, non sembrano sapere come uscirne. anzi, vedasi il caso dell’aereo russo e degli attentati sospetti ad Ankara, sono proprio alla disperazione.

La Russia:

lo sappiamo, è intervenuta per salvare Assad o meglio, presumibilmente, un governo laico in mano ai suoi successori, qualunque siano. Questo essendo dal suo punto di vista  sia una politica storica, ultradecennale sia un compromesso accettabile. In questo contesto bombarda, senza fare sofismi, tutti quelli che gli si oppongono, moderati, semimoderati, estremisti, neri, blu e verdi che siano. Ivi compresi i contrabbandieri di armi e petrolio attraverso il confine turco, non è improbabile che l’abbattimento del jet russo fosse una ritorsione per la distruzione di centinaia di autobotti ( e, presumo dei loro autisti) al confine turco, pochissimi giorni prima) ed è alleata dei Curdi, sia pure per via di un comune nemico. A loro uno stato curdo non sembra particolarmente indigesto ed anzi, visto che terrebbe sotto stress sia la Turchia che l’Iraq, è visto, immagino, come qualcosa di fondamentalmente utile.

Gli USA: all’inizio, mentre Assad massacrava il suo popolo, era sembrato una buona idea appoggiare la rivolta, anche perché la Siria di Assad, padre e poi figlio era sempre stata una minaccia permanente per Israele per oltre mezzo secolo. In ogni caso si sono “distratti” un attimo e si sono ritrovati l’Isis che, evaporato l’esercito Iracheno costosissimamente addestrato ed armato da loro ( e da noi) era arrivato alle porte di Bagdad. Per oltre un anno limitatisi a tamponare il collasso dell’Iraq, si sono decisi ad intervenire solo per il rischio di genocidio a Kobane, sull’onda dell’opinione pubblica. Visto che questo intervento faceva decisamente POCO piacere alla Turchia ci sono andati relativamente calmini ( anche perché distruggere depositi e linee di rifornimento dell’ISIS significava e significa fare morti turchi in abbondanza, come abbiamo visto).

Il guaio è che pareva un pochino strano riconsegnare il paese in mano a Assad o ad un suo successore. QUINDI, come al SOLITO si sono autoconvinti che vi fossero dei gruppi di ribelli moderati, desiderosi di cacciare Assad e di instaurare la VERA DEMOCRAZIA in Siria e li hanno armati ed istruiti. COME AL SOLITO questi gruppi si sono rilevati tutt’altro che mammolette moderate e nel migliore dei casi hanno rivenduto le armi all’Isis e nel peggiore sono direttamente passati, armi e bagagli nelle sue fila. Ora non sanno come uscirne:  visto che la Russia sta annientando TUTTI i ribelli tranne i curdi è piuttosto evidente che, per arrivare ad un governo stabile bisogna trattare con lei e scaricare la cosiddetta opposizione democratica. I curdi si può far finta di non vederli e si può far finta di non vedere Erdogan che ha cominciato a bombardarli ma alla fine se ne dovrà tener conto ed anche qui , visto che si sta mettendo l’YPG al bando come organizzazione terroristica, pare difficile non dover fare un triplo giro di walzer mediatico sperando di avere a che fare con una opinione pubblica con la memoria di un platelminto e l’intelligenza di un dodicenne. In effetti, visti i precedenti, ci sono buone possibilità che alla fine vada tutto bene. Si troverà un accordo che salvi la faccia ed anche altre parti del corpo al Presidente Turco, che eviti il genocidio curdo e che riporti tutto sotto un governo centrale stabile (democratico quanto è possibile in quella sventurata terra, cioè zero). L’alternativa, attaccare turilla con la Russia per difendere le manie di grandezza di Erdogan pare poco probabile. Alla fine si troverà, come si dice, la quadra; tutti contenti, una breve prece per i morti e gli sfollati, una reprimenda ai greci che non li accolgono a casa loro ma vorrebbero fargli girare un poco l’Europa. ed a casa tutti contenti a votare il prossimo Presidente.

E l’EUROPA?

Beh , di fronte alla strage ed ai macchiavelismi l’Europa…freme di sdegno, si indigna si addolora, si incaxxa,  ma poi, in ultima analisi, chiude il becco e si guarda bene dal criticare qualcuno ( a parte i Russi, ovviamente) SOPRATUTTO chiude le frontiere cercando di obbligare noi e Grecia a tenerci qualche centinaio di migliaio di sventurati, con la scusa degli infiltrati islamici a migliaia anche se quelli identificati  fino ad ora sono stati poche decine.

Tanto vale, a quanto pare, il famoso principio di solidarietà e sussidiarietà tanto sventolato. Tanto valgono i principi fondanti della Comunità.

Cosa resta da dire? Niente se che questi giochini sarebbero ridicoli se non fossero mortalmente tragici.

Ci sarebbero anche due parole in merito alla ipotesi chiave, tutta da dimostrare, ovviamente, da cui è nato questo post: che i recenti e sanguinosi attentati attribuiti a terroristi curdi in Turchia NON siano stati compiuti dal Pkk o dall’YPG. Il motivo di base pare evidente: proprio ora che hanno una enclave indipendente e la concreta opportunità di realizzare il sogno di uno stato curdo o la possibilità dell’autogoverno sembra proprio folle vanificare tutto facendosi mettere sulla lista dei cattivi internazionali. CUI PRODEST? Dicevano i romani. A chi giovano questi attentati? Al governo turco, per poter fermare l’avanzata curda e, ovviamente all’ISIS. Se si volesse cercare un colpevole, al netto di improbabili retate di attivisti curdi, si dovrebbe cercare in quella direzione.

E in termini generali da gufi?

Beh i gufi come noi di Crisis hanno letto, tra le varie, il Cigno nero e “sanno” che, quando si entra nel campo non lineare ( e niente è meno lineare della situazione che si è creata in Siria) le probabilità che succeda qualcosa di totalmente inaspettato ed imprevisto sono MOLTO più alte di quanto si creda.

La Turchia al salvataggio di Daesh ed altri disastri

Siria, 12 Marzo 2016
Siria, 12 Marzo 2016

Il buon Leo Longanesi era solito dire che la Storia non si ripete ma fa la rima. Non so a voi ma a me, inguaribile gufo (e rosicone) la tragedia Siriana ricorda, in qualche modo, la guerra civile Spagnola.

Non certo per il gioco delle forze e delle ideologie in campo ma piuttosto per il fatto che una tragica guerra civile diventa il pretesto per un test delle tecnologie delle rispettive forze e debolezze e della solidità di blocchi contrapposti. A quei tempi ovviamente, patto d’acciaio contro Russia ( con osservatori USA ed inglesi) oggi Russia e Nato.

Sembrano insomma le prove generali di un bel conflitto mondiale, tanto per cominciare bene il nuovo millennio. Certamente in parecchi stanno scrocchiando le nocche e flettendo i bicipiti, in attesa dell’occasione buona per menare le mani sul serio.

Ma proviamo ad entrare nel merito, per quello che un peon fiorentino può capire di questo sanguinoso e tragico garbuglio.

La cosa che a me pare tremenda è che, in ultima analisi, appare sempre più evidente come questa tragedia sia stata fomentata, favorita e poi foraggiata e finanziata oltre che dai soliti “misteriosi” fiancheggiatori arabi, da uno stato  a parole moderato e laico. La Turchia, forse speranzosa di poter mettere le mani, in qualche modo, su una Siria disintegrata ( e sui suoi pozzi di petrolio) o più semplicemente di creare un protettorato in grado di tenere a freno le mire indipendentiste curde.

Per oltre un anno, di fronte al rischio evidente di un genocidio, basterà ricordare Kobane, la Turchia se ne è stata buona. Anche troppo: ricorderete i soldati turchi che assistevano alla battaglia che si svolgeva a poche centinaia di metri di distanza, senza muovere un dito.

MAPPA-SIRIA-ISIS-GIUGNO-2015-JUNE-2015
Siria Maggio 2015

Poi, con l’inizio dei bombardamenti USA e russi, la marea si è invertita ed i curdi hanno prima scacciato l’Isis dalle terre con popolazione in maggioranza curda e poi via via anche da quasi tutta la fascia di confine con la Turchia ( potete fare il confronto da soli fra la situazione nel Maggio del 2015 ed ora).

Anziché aiutarli a completare l’opera, così ponendo fine alla strage, dato che l’Isis, senza sbocchi verso il mare sarebbe rimasta senza rifornimenti di armi e munizioni e quindi sarebbe stata rapidamente spazzata via, la Turchia ha deciso di passare all’ azione.

Per fermare i curdi, non l’Isis. In mezzo a prove sempre più concrete di un diretto coinvolgimento nella compravendita di petrolio contro armi,

cisterne distrutte in un attacco russo
cisterne distrutte in un attacco russo

con il califfato, con voci di un coinvolgimento diretto nei traffici della famiglia di Erdogan, alla ricerca disperata, addirittura, di un casus belli ( si veda l’abbattimento dell’aereo russo) che potesse obbligare la Nato a schierarsi dalla sua parte, posta alle strette ha riesumato, è ovviamente solo una ipotesi, i classici metodi da “false flag” per giustificare l’inizio dei bombardamenti contro… l’YPG.

Visto che era difficile inventarsi un incidente alla frontiera ci sono voluti un paio di attentati per coinvolgere l’opinione pubblica interna ( che aveva comunque poco bisogno di essere convinta) ed internazionale che l’YPG è una organizzazione terrorista, che come tale va fermata e, nel caso bombardata sul territorio siriano, in modo da impedirgli ulteriori conquiste ( che sarebbero ai danni dell’ISIS, bene chiarire di nuovo).

Certo questo fa MOLTO comodo all’ISIS-DAESH.

Anzi: per ora ne garantisce la sopravvivenza.

Certo: questo rende sempre più vergognoso il silenzio ipocrita dell’occidente.

( continua)

 

Rivoluzione pigra: keep calm e gufa

Post già pubblicato col titolo: “Davvero vuoi la rivoluzione ? Elogio del Luddismo pigro” su Effetto risorse il 11 marzo 2016

Una delle tante leggende metropolitane che circolano è che ci voglia una rivoluzione per rovesciare un sistema corrotto ed inefficiente.

Sbagliato.

In molto grossolana approssimazione le rivoluzioni storiche si possono dividere in due grandi categorie: quelle che hanno vinto e quelle che hanno perso.

Cominciamo dalle seconde.   Cosa hanno in comune sommosse avvenute in luoghi e tempi lontanissimi?   Due cose: la prima è che la gente si ribella quando non ne può più.    La seconda è che, alla fine,  la gente esausta accetta condizioni molto peggiori di quelle da cui era partita.

Le rivoluzioni che vincono, si dividono ancora in due categorie: quelle che ottengono qualcosa e quelle che stravolgono il sistema.   Le rivolte che portano a riforme, di fatto sono una dinamica interna al sistema stesso che, in questo modo, corregge alcuni errori e riesce a tirare avanti ancora.
Lo abbiamo visto, per esempio, con la lotta per il voto alle donne.

Le rivolte che stravolgono il sistema quasi sempre ne insediano un altro peggiore.    Ne hanno fatto l’esperimento i francesi che hanno ghigliottinato Luigi XVI per trovarsi nelle mani prima di un manipolo di terroristi ben peggiori dall’attuale ISIL; e poi per 20 anni in quelle di un dittatore megalomane.
Lo hanno sperimentato i russi che si sono sbarazzati del regime zarista per cuccarsi Stalin.    E si potrebbe andare avanti.

Gli esempi di rivoluzioni che hanno instaurato sistemi completamente diversi dal precedente e (almeno temporaneamente) migliori sono stati veramente pochi.   Per esempio la “Rivoluzione Meiji”, condotta dall’Imperatore in persona; roba da giapponesi.   Oppure la “non guerra di indipendenza indiana” che ha ottenuto l’indipendenza dall’Inghilterra proprio perché non è stata combattuta.

Dunque vogliamo rovesciare o vogliamo salvare il sistema?   Ognuno ci pensi bene perché cercare di correggerne le macroscopiche nefandezze non fa altro che aumentarne l’efficienza e , quindi, la durata.

Lo abbiamo ben visto noi stessi.    Uno dei fattori che ha favorito il capitalismo nel suo storico scontro col comunismo sono state le opposizioni ambientaliste e socialiste in occidente.   Sono loro, infatti, che hanno spuntato migliori condizioni per i lavoratori ed un minimo di tutela per l’ambiente, fattori risultati strategici per migliorare le generali condizioni di vita, dunque aumentare i consumi e consentire la crescita economica che c’è stata.

Dall’altro lato della cortina di ferro, il governo perseguiva sostanzialmente gli stessi scopi di sviluppo e di potenza dei governi occidentali, ma chi dava fastidio vinceva un viaggio premio di sola andata.    Il risultato è che il sistema, privo di una sostanziale opposizione, si è avvitato su sé stesso, finendo schiacciato sotto la propria inefficienza.

Stesso film, su scala ancor più vasta, è andato in onda dopo il parziale collasso sovietico.   Annichilite o marginalizzate le opposizioni (perlopiù con le buone, per carità), il sistema capitalista si è sviluppato liberamente, portando alle estreme conseguenze i propri presupposti.   E si è avvitato sempre più su se stesso.

Detto in termini tecnici: l’autodistruzione è il destino di qualunque sistema lasciato in balia delle proprie retrazioni positive.   In altri termini, sono i fattori limitanti che garantiscono la durata dei sistemi, proprio perché ne ostacolano la crescita.

Detto in parole povere, una società dove quelli che contano la pensano tutti alla stessa maniera non può che finire male.

E dunque che fare?    La rivoluzione !

Cosa succederebbe se perdessimo?   Che un sacco di gente avrebbe una dose supplementare di sofferenza non necessaria, in aggiunta a quella inevitabile che già non sarà poca.

E che succederebbe se vincessimo?   Che passerebbero delle riforme come il razionamento dell’energia e dell’acqua, la ridistribuzione dei redditi eccetera.   Tutti correttivi in grado di far durare il sistema per altri 50 anni.

Dunque, se davvero vuoi spaccare tutto, aderisci al “Luddismo Pigro”.   Il principio basilare è semplice: chi va in giro a spaccare robe prima o poi troverà qualcuno che spacca lui.   Se invece lasci che tutto fili esattamente come ora, il sistema non mancherà di disintegrarsi da solo il più rapidamente possibile.

E’ a quel punto che inizierà il gioco vero, che non sarà più puntellare una versione più o meno corretta del progressismo, ma costruire da zero qualcosa di completamente diverso.    Sarà un gioco molto duro, ma anche molto interessante che si farà col poco che sarà rimasto.   E che cosa è veramente indispensabile?

Biodiversità, fertilità, acqua e cultura; le civiltà si costruiscono con questo.

Dunque, invece di spaccare vetrine e bruciare macchine, bisogna cercare di guadagnare tempo e salvare il più possibile di queste quattro cose dalla mega-macchina tritatutto.

Ad esempio, riuscire posticipare la costruzione di una nuova strada sull’ultima striscia di bosco del tuo comune può essere utile.   Magari fra tre o quattro anni non ci saranno più i soldi per farlo.   Oppure restaurare un oggetto artistico od un monumento.    Prima o poi andranno comunque distrutti, ma più a lungo durano e più potranno ispirare gli artisti del futuro.

Biodiversità, fertilità, acqua e cultura sono le sole quattro eredità che contano.   

Invece di fare casino, cerchiamo di lasciarne il più possibile dietro di noi.

Bad bank 4 dummies ovvero Credits 4 zombies: il punto di vista della lavandaia di Via dell’Oche

good and bad bank humourLa notizia che, in questi giorni, più fa fremere di un maldissimulato orgasmo i nostri finanzieri&prenditori tutti è la ( potenziale, per ora) nascita edi una “bad bank” nazionale, destinata a farsi carico di TUTTI i crediti “non performanti” e/o “deteriorati” degli istituti di credito nazionali.

Quanti sono questi “crediti deteriorati”?

Circa 200 miliardi di euro. Su un totale di circa 1000 miliardi, ovvero il 20%.

La cosa che più colpisce è questo numero, di per se raccapricciante: il 20% di crediti inesigibili segnala, DI PER SE, senza ulteriori dettagli una banca pronta per l’estrema unzione. Non ci credete? Ecco un link a caso, che attesta, ve ne fosse bisogno, che al 30% una banca è pronta, da un pezzo, per l’inumazione certificata con implosione ed inabissamento dei risparmi di decine di migliaia di tapini come me, la lavandaia e voi.

Ai tempi in cui , lontano 2009, scrivevo della situazione dei mutui italici, con una sofferenza media del 7% si poteva ancora sperare che a questi livelli la situazione fosse in qualche modo gestibile.

Ma il 20% no, proprio no. Il sistema è decotto, kaput. Fubar.

E se vi dicessi che, considerando anche i prestiti incagliati ( cioè quelli per i quali sono state saltate più di due rate)si arriva a 360 miliardi?

Beh qui parliamo di Zombies. Esseri non morti che si aggirano per spolpare i viventi residui e trasformarli come loro.

Noi e la lavandaia abbiamo bisogno di termini semplici, per poter comprendere. Una banca deve poter coprire, con i tassi applicati ai suoi prestiti ed affidi, il rischio insolvenza, incagli etc etc, le spese di funzionamento, il modestissimo tasso attivo ( passivo per lei) dei conti correnti dei sempre più tapini correntisti etc etc. A parte il fatto che questi tassi sono recentemente precipitati, è chiaro che già sofferenze per il 7% sono un grosso anzi GROSSO guaio. E’ vero che una parte, in qualche modo, si risolve a loro parziale favore ( pignoramenti, aste giudiziarie etc etc). Ma, più o meno lo possiamo intuire, SE va bene, la metà di questi crediti in sofferenza è persa per sempre.

Bene. QUINDI il fatto è, per quel che capiamo noi tapini e la lavandaia, che il 20% di sofferenze segnala non una situazione critica ma un rischio MORTALE per il sistema creditizio. un rischio che, costi quel che costi, deve essere ridotto. Ecco quindi la salvifica bad bank.

Come funzionano DI SOLITO queste cose? Beh, in sintesi DOVREBBE funzionare come i famigerati istituti di recupero crediti: a mo’ di avvoltoi, calano sulle carogne in putrefazione dei crediti inesigibili e vedono di tirarci fuori un pco di ciccia. Fuor di metafora, comprano a prezzi stracciati i suddetti crediti dai precedenti creditori e diventano il peggiori incubo dei tapinissimi debitori.

SE la bad bank, quindi, fosse qualcosa del genere farebbe uno sporco ma necessario lavoro, un lavoro socialmente ingrato ma economicamente spietatamente necessario. Il problema è che ormai il sistema finanziario sta prendendo il sopravvento, in termini di forza politica su TUTTI gli altri attori della vita nazionale, sociale, economica, mediatica etc etc etc. QUINDI la bad bank che si sta configurando sarà diversa, MOLTO diversa da questo. In buona sostanza se va MOLTO bene, la erigenda bad bank comprerà con un MODESTO sconto prestabilito i suddetti crediti deteriorati, qualcosa che già nell Aprile 2015 il ns ministro al benessere bancario valutava intorno al 50%. Possibilmente meno.

E’ uno sconto modesto, molto modesto.

TROPPO modesto.

Ma TROPPO TROPPO TROPPO.

Gli stessi istituti di credito nazionali prevedono , di quei 200 miliardi, di poter recuperare circa il 40%. Ovvero le garanzie immobiliari, fideiussioni, garanzie di terzi etc etc che normalmente sono la precondizione di un prestito/mutuo etc etc etc. Che la cosa sia ottimista lo dimostra il fatto che, normalmente, i suddetti avvoltoi spuntano prezzi MOLTO più bassi per le carogne di cui si nutrono. intorno al 20%, come riporta questo articolo.

QUINDI il governo per non incorrere nelle ire e nelle accuse CEE di aiuti di Stato al sistema creditizio ( accuse che in una Europa dominata dalla Germania fanno per lo meno sorridere, tra una lacrima e l’altra) deve dimostrare che un prezzo di circa il50-55% è congruo.

Ci riusciranno? ne dubito. Immaginiamoci, per un attimo, di si. Che succederà poi? Succederà quel che deve succedere. Con un costo di circa 100 miliardi di euro Cassa depositi e prestiti, unico istituto importante ancora in mani pubbliche, comprerà il marciume in giro alleggerendo la zavorra degli istituti/banche italiche che dovranno comunque erodere il patrimonio e mettere a bilancio tutti insieme perdite monumentali ( il che spiega il crollo verticale dei titoli bancari di questi giorni). Poi vedrà cosa può sbloccare, cosa può recuperare liquidando i beni a garanzia etc etc. Siccome la Lavandaia, con tutto che alle volte deve lavare panni veramente lerci, è una inguaribile ottimista, facciamo una ipotesi edificante: la bad bank avrà performance uguali a quelli di una banca normale. Improbabile, no? Se è una bad bank non può essere buona e nemmeno passabile, mi pare ovvio.

In QUESTO caso, in cui il brutto anatroccolo diventi un cigno passabile, dovrà mettere in conto perdite per circa il 20% dei suoi crediti, 20 miliardi. E CON QUALI CAPITALI coprirà questi 20 miliardi di buco, visto che nasce dal nulla? Beh, avete dubbi? con il fondo di garanzia PUBBLICO creato ad hoc.

Ecco. A questo punto la lavandaia, capito cosa comporta questo, una suprema ocra lacrime&sangue, smette di lavare, prende la ramazza e comincia a rotearla sulla testa in cerca di qualche testa di legno da riequilibrare.

Noi che invece abbiamo studiato oltre la skuola dell’obbbbligo potremmo consolarci con “vabbe’ se salta il sistema bancario siamo fubar peggio che la Grecia”.

Vero. Salvare il sistema creditizio è necessario, per salvare i correntisti, prima di tutto, perché come vedremo in un prossimo articolo il famoso fondo di garanzia interbancario che DOVREBBE garantire i correntisti sotto i 100.000 euro non garantisce ( quasi) nulla. QUINDI, secondo logica, visto che si tratta di salvare con i soldi pubblici istituti privati con un regalo di circa 60 miliardi ( differenza tra il valore di mercato del marciume ed il prezzo trattato dal governo) i cittadini dovrebbero diventare soci delle banche stesse, per un equivalente sui capitali sociali degli istituti italici, circa 400 miliardi . Ovvero circa 60/400, il 15%.

Avete qualche dubbio che questo non verrà nemmeno lontanamente proposto o discusso? Io no e la lavandaia nemmeno.