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crisis 2008-2013 ritorno al futuro: che vi avevamo detto?

Niente basta, a colui al quale non basta quel che è sufficiente/10 Il pedal coin

Il pedal coin, storia di una idea promettente

Quel che segue è uno zibaldone di lavoro, da cui avevamo sviluppato nel tempo varie ipotesi operative, non riproducibili su un blog. Serve comunque, spero, ad introdurre e mostrare in cosa sarebbe consistito il pedal coin.

Purtroppo se qualcuno l’introdurrà, state pur certi che NON sarà in open source…

Molto semplicemente, dopo un paio di anni di divulgazione nei nostri circoli amicali, magari per convergenze parallele, magari perché vi sono pochi gradi di separazione fra due individui qualunque sul pianeta….è arrivato questo.

Con tanti cari saluti allo spazio per un futuro libero ed indipendente del concetto.

Unica consolazione: le idee, i memi, non ti appartengono davvero. una volta divulgate, vivono nella testa di chi le condivide.

( segue lo zibaldone, per chi ha voglia)

PEDAL COIN: UNA PROPOSTA OPERATIVA

INTRODUZIONE

Dopo la nascita dell’antesignana, Bitcoin, sono state create centinaia di monete virtuali, ciascuna con le proprie specificità ed i propri punti di forza, ciascuna in lotta per la sopravvivenza, alla ricerca di una nicchia di mercato.

Tutte si basano su due concetti fondamentali: il registro distribuito o distributed ledger e la catena di blocchi o blockchain come metodo di archiviazione condiviso.

Esistono due principali protocolli di funzionamento del “distributed ledger” con infinite e continuamente modificate varianti: il cd proof of work e il cd. “proof of stake”.

Questi protocolli, implementati in modo diffuso, costituiscono il segreto del successo di queste monete “virtuali”, perché, sostanzialmente, premiano gli utenti del sistema che forniscono la capacità di calcolo necessaria a svolgere i complessi procedimenti di calcolo che garantiscono transazioni sicure e la loro archiviazione condivisa nella rete ( cd distributed ledger).

Questo processo di calcolo a supporto di una particolare moneta si chiama “mining” e viene attuato secondo un particolare protocollo, che nella maggior parte dei casi e segnatamente nella più nota e diffusa di queste monete, il bitcoin, viene “premiato” con nuova moneta, allo svolgimento di un certo numero ( solitamente esponenzialmente crescente nel tempo) di calcoli connessi alle operazioni di validazione.

A causa della sua crescente complessità, che dipende duplicemente dal tempo, sia per la natura stessa del protocollo utilizzato sia perché il numero di transazioni aumenta all’aumentare della moneta in circolo e della sua diffusione, attualmente il mining è una attività che richiede enormi potenze di calcolo, elevati investimenti in tecnologia dedicata ed energia e costi crescenti anche in termini ambientali, per essere una attività remunerativa.

Proprio per questo, appositi panel costituiti dai fondatori della rete hanno più volte rivisto il protocollo di funzionamento, al fine di renderlo meno energy intensive, mantenendo lo schema di funzionamento, anche al fine di garantire la principale delle caratteristiche di queste monete, ovvero la loro natura di moente a credito ( vengono emesse solo a fronte di una attività e/o un investimento), tendenzialmente deflattive. Infatti il numero di monete totali è predefinito o mediante una unica emissione una volta per tutte o, come nel caso dei bitcoin, dalla crescente difficoltà di ottenere nuova moneta a fronte di un dato lavoro di calcolo eseguito.

Benché non sia lo scopo del presente lavoro fornire una analisi anche solo pallidamente esaustiva del concetto di moneta, si fa solo presente che la “virtualità” di queste monete è sostanzialmente simile a quelle delle monete ordinarie più diffuse, che sono anche esse, strettamente, virtuali

Sono infatti monete cosidette “fiat” ( dal fiat lux, di biblica memoria: sono un atto di imperio di una organizzazione nazionale o sovranazionale ( l’euro) che le fa “esistere”).

Da tempo, quindi, il denaro è un mezzo di scambio non connesso ad una singola e particolare entità fisica, potendo così essere prodotto nella quantità e con le modalità desiderate.

Il suo valore, dipende dal mercato, ovvero dalla utilità percepita dal suo possesso e quindi dall’interscambio con altre entità virtuali ( altre monete fiat) o reali ( beni e servizi, ad esempio il petrolio).

Per la loro natura “speculativa” le monete virtuali sono state prima ignorate e poi fieramente irrise, fino a che, circa tre anni fa si è assistito ad una esplosione del valore , iper esponenziale e speculativa, che ha visto un bitcoin passare da poche decine  a 1200 dollari, crollare a poco più di 100 dollari e rimbalzare poi fino a quasi ventimila dollari di valore, trascinando con se le principali monete.

Attualmente si assiste ad un forte ridimensionamento da quei valori stratosferici ed ad un opportuno ripensamento sia sui protocolli sia sulle potenzialità delle varie monete. Alla fine, come è logico che sia, delle centinaia esistenti, ne resteranno solo poche, ciascuna presumibilmente, andando a coprire una nicchia differente di diffusione e funzionamento.

Il pedal coin è una proposta operativa che intende creare una “” moneta” o, più correttamente un mezzo di scambio che sia basato:

  • Sul distributed edger
  • Su un metodo di funzionamento e consenso affine alla proof of work (POW) o proof of burn ( POB). Nel caso di una proof of Work andrà valutata la possibilità di un protocollo tipo mimble wimble3
  • Su una precisa attività fisica che sia verificabile tramite  una funzione di hash crittografico con HW di bordo
  • firma digitale
  • rete permissionless peer to peer ( p2p)
  • crittografia a chiave pubblica e privata.
  • Che generi benefici diretti ed immediati con la sua stessa esistenza
  • Che possa vedere la sua utilità sociale, economica ed ambientale riconosciuta dalla rete finanziaria tradizionale, ad esempio sotto forma di sgravi fiscali riconosciuti alla presentazione di tokens, in modo da rendere possibile, con vantaggio per ambedue i mondi, un punto di contatto.

L’attività che si intende porre alla base della sua esistenza è tanto semplice quanto intuitiva: il movimento in bicicletta, declinato su qualunque percorso e qualunque finalità. Ovviamente il concetto, una volta implementato, è passibile di essere allargato ad altre attività analogamente “virtuose”.

Rapida analisi dei benefici personali e collettivi attesi dall’uso di un velocipede

Prima di affrontare il tema complesso dei benefici diretti attesi, sembra più opportuno perché ragionevolmente prevalenti, affrontare quello dei benefici indiretti, derivanti, in sostanza, dalla sostituzione di spostamenti attuati con mezzi a motore con spostamenti attuati con velocipedi.

E’ comune consapevolezza che il costo per la collettività degli spostamenti che utilizzano mezzi endotermici o, più genericamente, a motore, è un multiplo di quello percepibile dal singolo cittadino.

Il cittadino infatti è conscio dei costi fissi ( bollo, assicurazione, rate di acquisto e/o deprezzamento) del veicolo che utilizza e di quelli variabili ( riparazioni, manutenzione, incidenti etc) mentre ben difficilmente può rendersi conto di quelli che vengono sostenuti dalla collettività.

Fra questi sono ben visibili quelli legati alla realizzazione ed al mantenimento delle infrastrutture trasportistiche necessarie, strade, viadotti, segnaletica, barriere di protezione; molto meno quelli legati agli aumentati rischi sanitari ( incidenti, malattie croniche legate all’inquinamento, degrado delle condizioni psicofisiche delle persone etc etc). Ancora meno immediatamente visibili sono quelli necessari a mantenere la complessa infrastruttura indispensabile per il rifornimento dei veicoli, il loro smaltimento la loro costruzione, i sussidi( spesso immensi) alle aziende del settore, agli autotrasporti etc etc.

Tali sussidi ai settori interessati sono spesso i maggiori, percentualmente, che lo Stato fornisce al sistema produttivo, ed i costi infrastrutturali accennati sono tra i principali che deve affrontare.

Senza, naturalmente, tener conto delle problematiche connesse  alle guerre, agli sbalzi del mercato petrolifero, etc etc. Senza contare, infine, l’immenso danno ambientale provocato, la devastazione di interi ecosistemi, il rischio sanitario che provoca decine di migliaia di morti all’anno.

Esiste una ampia, quasi infinita, messe di studi che hanno affrontato l’insieme di questi costi, palesi ed occulti, alcuni citati in bibliografia. Qui basterà ricordare uno degli studi più puntuale e recente, europeo, che ha stimato queste esternalità ( i costi che la comunità affronta per ogni km percorso in auto)  in 11 centesimi al km percorso, mentre ha stimato in 18 centesimi i benefici ( esternalità positive) derivanti da 1 km percorso in bicicletta ed in 37centesimi a piedi.

I costi complessivi affrontati in Europa per garantire il trasporto automobilistico sono stimati in 500 miliardi euro all’anno.

Se si tiene conto del basso tasso di riempimento delle auto, mediamente meno di due persone a veicolo, si può ritenere che i benefici costituiti dall’usare la bicicletta al posto dell’auto, immaginando di sostituire un’auto con due passeggeri con due persone in bicicletta, siano pari a circa 11/2+18*2=41,5 centesimi al km.

Tutto questo serve a fornire una possibile base di calcolo per agganciare una moneta che viene generata se e solo se si pedala, spostandosi tra due punti geografici differenti, al mondo economico reale. Il pedal coin, in sostanza, si propone come una specie di “certificato bianco”a minimale ed accessibile a tutti, con un suo mercato ( la piattaforma stessa) un suo metodo di archiviazione, distribuzione, certificazione e generazione ( la blockchain, il distributed ledger e la proof of work) e un suo valore di partenza, determinato dalla utilità ambientale sociale ed economica che la sua stessa esistenza attesta. Tale valore, inizialmente per motivi politici/ambientali, ma ben presto per motivi concretamente economici e sociali, dovrebbe o potrebbe essere riconosciuto dagli Stati in cui viene implementato, ad esempio sotto forma di sgravi fiscali riconosciuti dalla presentazione di pedal coins, secondo un interscambio che sia dell’ordine di grandezza necessario a riconoscere almeno il 50% dei benefici attesi al presentatore di pedal coin. E’ bene chiarire che il presentatore dei pedal coins potrebbe NON essere colui che ha materialmente pedalato per i corrispondenti chilometri ma che tali pedalcoins esistono solo grazie al fatto che si è svolta QUELLA e non altre attività ( proof of work).

Implementazione

L’implementazione prevede un protocollo simile alle versioni più “leggere” del protocollo di funzionamento del distributed ledger e relativadi bitcoin. Tale protocollo leggero è necessario perché il calcolo si svolge sfruttando la potenza di calcolo disponibile sugli smartphones attuali.

Il processo di mining si avvia SE e solo se, il dispositivo è agganciato con procedura di crittazione a doppia chiave, ad un minidispositivo connesso alla bici ( può essere portato anche in tasca) che, dotato di piattaforma inerziale di derivazione dalle schede dei cellulari attuali, dia dati di posizione velocità e caratteristiche di movimento congruenti con quelli risultanti dal cellulare stesso.

In poche e più semplici parole, se il sw di mining non vede un movimento che è assimilabile al pedalare ed analogamente il dispositivo “di bordo” ( può essere un gadget che fornisce una buona luce frontale e contiene l’accellerometro ed il dispositivo di connessione bluetooth) non vede lo stesso movimento, con una tolleranza la più stretta possibile, il mining NON si attiva.

I PEDAL COINS VENGONO GENERATI, TASSATIVAMENTE, SE E SOLO SE SI PEDALA, SU UN PERCORSO DEFINITO E MISURABILE TRAMITE GPS. Ecco perché una modalità tipo la proof of burn, che prevede di “bruciare” una certa quantità, in percentuale, dei token generati, in cambio di tokens premiali potrebbe permettere di collegare questi ai km percorsi, grazie alla variabile tempo, a sua volta connessa alle transazioni eseguite ed alla disponibilità di rinunciare ad un dato numero di token. Una cosa comunque da approfondire e non banale, come appare ovvio.

Proof of work e pedal coin analisi alternative

Un modo compatto e necessariamente semplicistico di definire la complessa serie di calcoli numerici sottostante alla validazione dei blocchi, nota come proof of work, è che la proof of work  consente alla rete di non essere aggredibile da un hacker o un truffatore che voglia creare transazioni fittizie finalizzate o al collasso del sistema per sovraccarico ( DOS attack) o alla generazione di profitto per lui, tramite incameramento illegittimo dei tokens ( delle monete virtuali) circolanti. In pratica, poiché i nodi della rete sono tutti ugualmente qualificati a riconoscere e validare una certa transazione, un attacco che crei una motitudine di noi che validino una operazione truffaldina potrebbe creare un forking, cioè un ramo della rete che, pur fittizio, essendo basato su una operazione scorretta, riceverebbe la maggior parte degli assensi e quindi verrebbe riconosciuto valido. Proprio la potenza di calcolo necessaria a validare un blocco di transazioni, legata alle modalità di formazione e validazione dei blocchi attività che viene remunerata dalla generazione di nuova moneta,  permette di bloccare queste intrusioni malevole, per insufficiente capacità di calcolo. Se quindi il concetto alla base della proof of work, evitare intrusioni malevole volte a far collassare il distributed ledger o modificare a proprio vantaggio lo stesso, ottenendo un reddito illecito, è questo, ecco che il pedalcoin come concepito, appare in grado di ottenere lo stesso risultato sostituendo alla proof of work la proof of pedal. 

Infatti un nodo malevolo, per far validare una transazione scorretta, o tentare un attacco DOS, dovrebbe prima di tutto fornire una proof of pedal ovvero mostrare che sta pedalando e che i suoi dati sono congruenti con quelli del device. Ma, ovviamente, non è possibile generare istanze multiple perché si avrebbe bisogno di device multiple che siano a loro volta congruenti con nodi multipli ed attivi ( stiano pedalando) congruenti con essi.

Proprio perché è basata fisicamente, su una azione difficilmente duplicabile o falsificabile, la proof of pedal non appare forzabile se non con il consenso della maggioranza dei nodi, cosa che non appare possibile ne probabile ( le device hanno chiavi private che le rendono non modificabili o crackabili). Il pedal coin viene generato, quindi, a fronte di una attività, una proof of work, che dipende dai km percorsi secondo un algoritmo da verificare. Ogni nodo attivo, ovvero che sta pedalando contribuisce alla validazione DIRETTA ( senza calcolazioni complesse ulteriori, dato che la rete non è forzabile) dei blocchi e viene direttamente premiato in modo costante, in dipendenza dei km fatti. L’aggancio alla rete avviene dopo assenso da parte del device e si mantiene se e solo se i dati ricavati dal device sono congruenti con quelli dello smartphone o smartwatch del candidato nodo. Esiste un limite superiore di 50 km/gg ( possibile grazie al timestamping)  che potrebbe essere imposto sia per evitare forzature nelle attività sia perché vi sono prove che percorrenze elevate non siamo significativamente positive per la salute dell’atleta e quindi, in ultima analisi, per la collettività.

Poiché è essenziale che si mantenga una democraticità tra i nodi ( ogni partecipante alla rete riceve tokens in proporzione ai km fatti) si propone che i tokens generati dalla chiusura di un dato blocco siano generati in proporzione dei km totali percorsi nel tempo generato dalla creazione del penultimo blocco da tutti i nodi partecipanti alla validazione e siano distribuiti in uno di due possibili modi:

  1. in maniera equa fra tutti. Benché in questo modo chi percorre più km viene premiato meno di chi ne percorre di meno nello stesso tempo, si ritiene che il tempo intercorso sia sufficientemente breve da non creare pesanti distorsioni e comunque potrebbe essere stabilito un limite minimo e massimo alle velocità di validazione di un nodo ( ad esempio 10 e 35 km/h) dato che quel che si vuole incentivare, ricordiamocelo sempre è LO SPOSTAMENTO in bicicletta tra due punti e non l’attività fisica in quanto tale e si ritiene quindi che velocità troppo alte o troppo basse siano indizi di attività diverse da quelle che intendiamo promuovere.
  2. In maniera proporzionale ai km percorsi dal singolo nodo nel tempo intercorso. In questo modo si mantiene un incentivo maggiore per chi, in un dato tempo si muove più velocemente, cosa di per se non obbligatoriamente sempre e comunque positiva. Rimane però il vantaggio sia di una maggiore equità che di un legame stretto con il contributo dato dal singolo al benessere collettivo.

I sensori necessari sono già presenti dentro ogni cellulare ( l’accelerometro dei cellulari è già in grado di riconoscere, grazie a molti sw liberamente scaricabili, il tipo di attività fisica svolta, il nr. di passi o di pedalate etc etc) e sono anche facilmente reperibili in forma estremamente miniaturizzata, ed economica, basterà qui ricordare gli orologi ed i bracciali utilizzati per le attività fisiche da milioni di atleti e semplici praticanti amatori, nel mondo. Si presuppone probabile una implementazione della piattaforma HW di conferma, cd “device” a partire da arduino e sensoristica connessa, per un costo stimabile, a sensore, di circa 5-15 euro e di circa 30-50 euro del device ( verifica necessaria). Da notare che il device ha anche l’utilissima caratteristica di poter costituire un ottimo allarme in caso di furto e che potrebbe essere realizzato in un bundle con altre utilità, ad esempio una luce e diffusore sonoro, una radio fm.. etc etc

La presenza di un doppio sensore, il proprio cellulare e il device di bordo” con collegamento a doppia chiave, rende difficili le truffe.

Si ritiene comunque che il valore tendenzialmente basso e comunque pari al massimo ad una ventina di centesimi, di un km percorso, nella sua interfaccia con il mondo reale tramite i riconoscimento di sgravi fiscali ( il 50% o meno dei benefici collettivi attesi per l’attività) renda scarsamente interessante l’implementazione di sistemi in grado di ingannare sia il sw sia il sensore “di bordo” che andrebbe, in qualche modo, pensato come certificato o certificabile e dotato di una sua univoca identità, per quanto anonima.

Da notare che il device può essere venduto con un riconoscimento parziale di un tot di pedal coin, che in qualche modo costituirebbe sia un modo di finanziare lo sviluppo dell’idea sia un modo per restituire utilità sotto forma di tokens a chi partecipa alla offerta iniziale di pedal coins. Si propone un intercambio credibile, ma comunque non troppo elevato, dato che i pedal coin saranno connessi ai km percorsi con valori in termini di ondo reali, bassi. ( 10 O 20 CENTESIMI A PEDAL COIN). Si vuole inoltre incentivare la creazione di valore mediante attività e non i rentier, che comprano device e non li usano.

Ad esempio 100 pedal coin, per un device da 50 euro.

O 200 per un device da 100 euro.

resta da chiarire:

  • Licenza per difendere l’idea. Propongo creative commons: chi vende sensori certificati e ci guadagna deve pagare le royalties previsti dalla legge. Chi li realizza senza fini di lucro ( ad esempio, un istituzione pubblica) e li distribuisce liberamente, no.
  • Il protocollo proof of work che sia leggero e compatibile con la potenza di calcolo disponibile e, nel contempo sia fisicamente agganciato ( tot al km, in qualche modo e non tot al minuto, per evitare che qualcuno vada in bici a passo di lumaca e faccia mining come un atleta in allenamento)è corretta la visone che vede la proof of pedal sufficiente?
  • Costi e modi di realizzare e certificare il sensore “on board”.
  • Lancio dell’idea, media coverage, endorsment politico e sistemico etc etc.

Bibliografia/riferimenti

I certificati verdi ed il loro fallimento https://www.theguardian.com/environment/2009/mar/10/lovelock-meacher-slam-carbon-trading

Stabilità ed affidabilità del Nakamoto consensus: https://eprint.iacr.org/2019/943.pdf

The Social Cost of Automobility, Cycling and Walking in the European Union

StefanGösslingabcAndyChoidKaelyDekkereDanielMetzlerf

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0921800918308097?via%3Dihub

The True Costs of Automobility: External Costs of Cars Overview on existing estimates in EU-27

TU Dresden Chair of Transport Ecology Prof. Dr. Ing. Udo J. Becker Thilo Becker Julia Gerlach

https://stopclimatechange.net/fileadmin/content/documents/move-green/The_true_costs_of_cars_EN.pdf

3 https://www.binance.vision/it/blockchain/what-is-mimblewimble

Mimblewimble cambia il modello tradizionale delle transazioni blockchain. In una blockchain MW, non ci sono indirizzi identificabili o riutilizzabili, quindi tutte le transazioni appaiono ad un estraneo come dati casuali. I dati della transazione sono visibili soltanto ai rispettivi partecipanti. Quindi, un blocco Mimblewimble appare come una grande transazione invece di una combinazione di tante. Questo significa che i blocchi possono essere verificati e confermati, ma non forniscono alcuna informazione in merito a ciascuna transazione. Non è possibile collegare gli input individuali ai rispettivi output. Mimblewimble utilizza una funzione chiamata cut-through, in grado di ridurre i dati all’interno dei blocchi rimuovendo le informazioni sulle transazioni superflue. Quindi, invece di registrare ogni input e output (dai genitori di Alice a lei, e da Alice a Bob), il blocco registrerà solo una coppia input-output (dai genitori di Alice a Bob). In breve: Permette a una blockchain di avere una cronologia più compatta, più facile e veloce da scaricare, sincronizzare e verificare.

Inquadramento generale sui DL, blockchains e proof of work https://www.blockchain4innovation.it/esperti/blockchain-perche-e-cosi-importante/

Diario doloroso di un assimilato

Il duro lavoro dell’assimilato

Diario doloroso di un assimilato (reloaded)
Oggi ho appena scoperto che non basta essere assimilati, per scamparla.
Sono andato a rivedermi l’origine del famoso ( ehm almeno tra noi gente bislacca) principio di PeterIn una data gerarchia ogni membro tende a raggiungere il proprio livello di incompetenza.
Come FORSE sapete, questo primo e famoso principio si accompagna a tre un poco meno famosi, ma strettamente connessi:

 

1) In una data gerarchia ogni singola posizione tende ad essere occupata da un individuo inadeguato al lavoro che deve svolgere;
 
2) Con il tempo ogni posizione lavorativa tende ad essere occupata da un impiegato incompetente per i compiti che deve svolgere;
3) In una data gerarchia il lavoro tende ad essere svolto prevalentemente da coloro che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza.
Ho sempre pensato che questo sia in realtà un BEST case, perché postula, ad esempio, l’esistenza di un sistema meritocratico.
Mediamente parlando le cose vanno peggio di cosi.
Ma c’è qualcosa di piu’ interessante: poiché ovviamente i compiti o almeno le competenze necessarie per svolgerli decentemente sono sempre piu’ complessi, via via che si sale i gradini, anche nel migliore dei casi, IN UNA GERARCHIA I POSTI DI VERTICE SONO STATISTICAMENTE COPERTI DA INDIVIDUI INCOMPETENTI.
anche perché “le aziende tendono a promuovere sistematicamente i loro dipendenti meno competenti a posizioni dirigenziali, allo scopo di limitare i danni che possono combinare”.
Si tratta del “Principio di Dilbert” del grande cartoonist Scott Adams.
Che questo sia sostanzialmente vero, l’abbiamo sotto gli occhi tutti o almeno di chi li tiene aperti.
Ma c’è di più: Il sistema NEL SUO COMPLESSO è destinato al collasso.
Infatti il quarto e meno noto principio di Peter recita:
«Ogni cosa che funziona per un particolare compito verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà.»
Notate che è un principio più generale che COMPRENDE gli altri tre.
Soprattutto notate come si leghi a quel che ha scritto Tainter sui sistemi complessi o comunque ai casi NOTI di collasso di sistemi complessi.
Le cose stanno proprio cosi. Ad ogni livello del sistema, QUALUNQUE sia il sistema preso in considerazione, umano o naturale, ad ogni livello COMPLESSO formato da sistemi di sistemi ed ovviamente anche al livello massimo, al sistema dei sistemi dei sistemi chiamato Terra.
 
Stiamo adoperando la nostra società per compiti sempre più difficili e non funziona più. In più chi è ai vertici non è in grado di gestire la cosa, essendo incompetente.
Stiamo adoperando IL NOSTRO PIANETA allo stesso modo.
Come si può scappare dal collasso?
O con la decrescita ( fare cose piu’ semplici, in minori quantità).
O con la sostituzione dei vertici ( mettere persone più brave che non hanno ancora raggiunto il loro livello di incompetenza).
O con tutti e due.
Abbiamo poco tempo, direi la terza che ho detto.
Ma, per la legge di Peter, questa evenienza è estremamente remota.
Colui che arriverà a poter decidere cosa fare, NON SAPRA’ FARLO.
Se ci pensate, diecimila anni di civiltà ci danno proprio questa risposta: i casi di competenti al comando è cosi rara che questi pochi sono GLI UNICI che fanno avanzare le cose.
Per davvero: quelli di Peter sono dei postulati .
Come quelli euclidei.

Nei secoli fedele ( reloaded)

 

nei secoli fedele

Più di dieci anni fa scrissi un post che esprimeva un concetto su cui avevo riflettuto, a quei tempi in sparuta quanto qualificata compagnia:

Era tecnicamente ed economicamente possibile ed anzi sarebbe stato doveroso, prolungare via via la garanzia europea sui prodotti, portandola, in prospettiva, a durare a vita, ovvero, quanto il prodotto stesso.

Ovviamente, dovendo garantire un prodotto per tanto tempo, i produttori avrebbero dovuto rinunciare al concetto di obsolescenza programmata e puntare semplicemente alla massima affidabilità possibile.

In questo modo si sarebbe fatto un gran bene all’ambiente, ovviamente, ma si sarebbe data anche una bella mano alla competitività dei prodotti europei contro quelli di bassa qualità in arrivo dall’estremo oriente. Alla peggio, si sarebbe dato una mano all’occupazione creando una filiera della riparazione. In pratica si sarebbero resi meno competitivi i prodotti fatti a buon mercato dall’altra parte dell’oceano , perché questi prodotti avrebbero dovuti o essere fatti meglio, MOLTO meglio di quelli nostrani, a causa dei problemi logistici di approvvigionamento dei pezzi di ricambi. In ogni caso, sarebbe stato un passo importante verso il raggiungimento di una economia circolare, un passo ineludibile verso la sostenibilità.

Sono passati dieci anni e ci sono state diverse iniziative legislative.

Ad esempio sono stati depositati diversi disegni di legge durante la scorsa legislatura ( ed anche qualcuna di quelle precedenti). OVVIAMENTE giacciono, più o meno, dimenticati.

In Francia, addirittura, si è arrivati ad istituire una nuova fattispecie di reato penale

La verità è che questo genere di iniziative può avvenire solo in sede CEE perché solo li è possibile coordinare i vari paesi e rendere, in pratica fattibile un percorso verso l’allungamento della durata della vita dei prodotti.

Sono stato felice che Dario, un parlamentare europeo e caro amico, abbia portato e con successo , questo tema sui tavoli dove si decide il futuro dei cittadini dell’Unione.

Se riuscirà nella sua battaglia, sarà un bene per tutti ed a quelli come il sottoscritto, resterà la soddisfazione di aver acceso la miccia, di aver lanciato il sasso, insomma, di aver ispirato l’inizio di un cambiamento benefico della nostra società ( oltre che del nostro modo di pensare).

Benché non sia stata la prima volta che ne scrivevo, avendo espresso e teorizzato la cosa per diversi anni su vari forum negli anni precedenti, ecco il mio post su Crisis, di dieci anni fa. Non ha perso niente della sua attualità, mi pare, anche se forse qualche link non funzionerà più, dopo tanto tempo.

Potrete comunque verificare da soli, con una ricerca su internet,  che già QUI ED ORA ( come del resto già dieci anni fa) esistono centinaia di prodotti garantiti a vita.

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18 Febbraio 2008

Nei secoli fedele

Debora, un paio di giorni fa, ha stigmatizzato una pubblicità che considerava deleteria una durata media di 13 anni per una lavatrice e spingeva a comprarne una nuova ( la loro, ovviamente) perchè…sexy.

Ha assolutamente ragione.

Una delle prime cose che DOBBIAMO cambiare è questa perniciosa forma di consumismo che ci spinge a cambiare cose che vanno ancora benissimo.

Non è sempre andata cosi: Il cassettone del nonno, la madia, la vecchia bicicletta del babbo, sono tutte cose che duravano alle volte piu del loro proprietario e venivano tramandate a figli e nipoti.

Una cosa su cui non si riflette abbastanza è che si possono realizzare elettrodomestici, telefonini, mobili e complementi di arredo che durino (quasi) per sempre e che siano garantiti a vita.

Si potrebbero fare, costerebbero probabilmente il doppio o forse il triplo degli analoghi prodotti usa e getta da cui siamo sommersi e ci permetterebbero di risparmiare una quantità incredibile di energia e materie prime.

Inutile dire il cambiamento EPOCALE negli usi e costumi, che libererebbe finalmente le persone dall’acquisto compulsivo e frenetico, che ci passano come una necessità assolutaper mantenere il benessere della nostra società.

In realtà non è vero che il famigerato prodotto interno lordo sarebbe danneggiato da prodotti che abbiano una garanzia “a vita” dato che la maggiore durata sarebbe compensata dal maggior costo.

Ovviamente questo permetterebbe di mantenere una quota di produzione di beni di consumo anche qui in Italia, dando una bella bottarella al globalismo e salvaguardando l’occupazione.

Il bello è che esistono già prodotti garantiti QUASI a vita.

Intanto i pannelli fotovoltaici garantiti di solito per 25 anni.

e poi altri prodotti di elettronica come dvd, schede audio o video, memorie allo stato solido etc.

Ma vi sono esempi piu’ curiosi ed interessanti:

Ad esempio stand espositivi,  mute da sub,  pentolevernici per autocapi di abbigliamento ed attrezzatura per alpinismopneumaticimarmitteantifurti , insegne luminosepavimenti in laminato e per finire, incredibile a dirlo, i nuovi modelli della Chrysler.

Intendiamoci una garanzia a vita non significa automaticamente una durata pluridecennale del prodotto garantito ma piuttosto una disponibilità di chi vende a farsi carico dei problemi di obsolescenza futuri.

In ogni caso, rispetto ai miseri due anni garantiti per legge, è certo un bel passo avanti, segno che qualcosa nella mentalità dei “consumatori” comincia a cambiare.

Per quanto possa valere, sono sicuro che molte persone sono stufe di cambiare lavatrice o frigorifero per uno piu’ SEXY e vorrebbero invece tenersi il piu’ a lungo possibile quelli che hanno, se funzionassero ancora bene ed economicamente.

C’e’ posto, ne sono sicuro, per una lavatrice, un frigorifero, una cucina, con garanzia cinquantennale e ho qualche ragionevole certezza che sarebbe possibile realizzarla.

Anche da qui passa la strada per la sostenibilità.

Nel frattempo se vogliamo una VERA garanzia a vita..beh esiste già e fortunatamente non si tratta di un elettrodomestico. Arf. Arf.

 

E se Alitalia diventasse una cooperativa?

 

tratto da: https://www.bastardidentro.it/immagini-e-vignette-divertenti/bando-alitalia-35026Notizia di ieri: il piccolo scandalo nato dall’uso forse improprio, forse solo improvvido di un terminal dell’Aeroporto e di un aereo da parte di due noti VIPS nostrani con contorno di polemiche politiche.

Qui su Crisis, ci interessa altro, ovviamente.

Più di dieci anni fa, uno dei primi articoli che scrissi per Crisis parlava di Alitalia. Dopo aver fatto un rapido riassunto della situazione snocciolai due o tre numeri che mi avevano colpito ( con i riferimenti necessari a verificarli, ovviamente). Due cose a quei tempi mi parvero clamorose:

  1. che NESSUNO avesse fatto caso al trascurabile errore commesso dall’AD in carica, che si era dimenticato di liquidare l’ultima rata del leasing di tre aerei da oltre 100 milioni di euro l’uno, così cedendoli, di fatto, alla compagnia di Leasing stessa.
  2.  che l’Alitalia avesse, ai tempi, oltre 180 aerei. Ad un valore ( sul mercato dell’usato che ai tempi stimai in circa 9-10 miliardi), il vero patrimonio dell’azienda era negli aerei. Poi si aggiungeva un aeroporto e centinaia di piloti addestrati. Diciamo almeno una quindicina di miliardi complessivi, che Airfrance intendeva comprarsi ad un decimo del valore, con la scusa che la compagnia perdeva oltre un milione al giorno. Poi attivarono i famosi patrioti, usi a salvare aziende italiane, ovviamente con i soldi delle aziende salvate. Per l’elevato rischio di querela, non ne parlerò. Anche perché, ai tempi, molti scrissero che era un accordo PEGGIORATIVO rispetto a quanto offerto da Air France  e che propro tanto tanto patrioti non erano.

Comunque sia, vendendosi un aereo ogni tanto, c’era da campare e tirare avanti, anche perdendo 1 milione al giorno, per anni.

Infatti, al netto di tutta la fumisteria, così è andata. Liquidando i pezzi migliori, cedendo piloti, Hubs, immobili, rotte etc etc. OVVIAMENTE; al di la delle chiacchiere, senza nessun miglioramento nei conti, ne in percentuale ne in termini assoluti ( del resto con una flotta che diminuiva era difficile fare fatturati maggiori).

Oggi dopo dieci anni di gestione privatistica, Alitalia ha quasi CENTO (100) aerei meno.

Una flotta dimezzata.

Ed hai conti ugualmente in rosso.

Ad onor del vero sono quasi peggiorati. Ha infatti circa 200 milioni di perdite/anno ( oltretutto in miglioramento rispetto agli precedenti) rispetto ai circa 500 milioni/anno del 2008, annus horribilis.

Con una flotta doppia però, molti rami secchi da tagliare, un numero di dipendenti ridondante, una grossa zavorra debitoria, etc etc . Mi pare evidente che non andremo da nessuna parte. Così continuando, la cmpagnia, sempre perdendo soldi, continuerà ad evaporare, fino a vendere anche gli ultimi aerei. Poi andrà in liquidazione, magari anche questa volta dimenticandosi di pagare le ultime rate del leasing degli ultimi nuovissimi aerei, chissà. COn tanti auguri e saluti ai dimpendenti, competenze, personale qualificato etc etc.

Quel che proposi allora, era di tentare qualcosa di diverso, inusitato e mai tentato prima. Ovviamente SE teorizzato sarebbe stato subito bollato di irrealizzabile da parte di chi si guadagna il pane con ponderose analisi che sono costantemente a favore di figuri che, in ultima analisi e con costanza degna di miglior causa,  sostituiscono pessime gestioni privatistiche a pessime gestioni pubblicistiche.

Quindi, PROPRIO PER QUESTO, da tentare. Cedere la compagnia di bandiera ad una cooperativa dei dipendenti che si impegnasse a non cederla a terzi per almeno cinque anni, facendola restare italiana, continua a sembrarmi, con i dovuti approfondimenti, l’opzione migliore. Ovviamente ad un simbolico euro, con lo Stato azionista con il 49 ma con la golden share. Ovvero il diritto di veto.

QUANDO LA CURA E’ PEGGIORE DEL MALE, BISOGNA RIPENSARE ALLA CURA

Di seguito il post di dieci anni fa. Per i links, andatevi a leggervi l’originale.

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QUANDO LA CURA E’ PEGGIORE DEL MALE, BISOGNA RIPENSARE ALLA CURA

DI PIETRO CAMBI

Crisis

QUANDO LA CURA E’ PEGGIORE DEL MALE, BISOGNA RIPENSARE ALLA CURA

Innanzitutto: Noi, noi tutti italiani, siamo i proprietari di Alitalia, ricordiamocelo.

Qualcuno, da noi delegato, dopo aver sfasciato tutto per benino, in ordinata alternanza con qualcun altro, ora la vuole svendere.

In questi giorni vi hanno spiegato per benino quanto è messa male questa povera compagnia, quanto è stato amministrata in modo disgraziato, quanto i suoi dipendenti, pur avendo non poco contribuito allo sconquasso con le loro richieste sindacali sempre sistematicamente correlate con le feste e le vacanze, siano inguaiati etc etc.

Ma veniamo ai fatti.

Stiamo, tanto per cambiare a numeri semplici, comprensibili. Insomma ai classici conticini della lavandaia (da oggi di Via dell’Oche e non più di Borgunto).

La compagnia ha circa 1.26 miliardi di debiti e 300 milioni di disponibilità (dati di fine gennaio 2008).

Era a quota 1,08 miliardi circa un anno fa (con circa 630 milioni di euro ancora disponibili per l’ordinaria amministrazione).

Quindi, senza stare a sfrucugliare troppo, in un anno scarso sono stati bruciati quasi 500 milioni di euro.

Si capisce che non vi sia la fila per acquisire un otre bucato come questo.

Ma l’offerta di Air France, è un dato di fatto, è addirittura imbarazzante: 138 milioni di euro e poi circa 700-800 milioni di euro da ottenere con un aumento di capitale e poi altrettanti garantiti dallo Stato (cioè sarà lo Stato italiano, ovvero noi, che risponderà in caso di problemi nella restituzione) e per finire alcune migliaia di esuberi (tra i quali alcune centinaia di piloti, che costano, sono costati (a noi “azionisti” di Alitalia) milioni di euro per la formazione e che finiranno sul mercato).

Ma quanto vale l’Alitalia?

Un centosessantesimo della Airfrance?

Quante sono le proprietà della compagnia, quanto valgono?

Vorrei trascurare, per il momento, il pur enorme valore di Malpensa e relativi enormi immobili e terreni (realizzati con i NOSTRI SOLDI ricordiamocelo).

Vorrei tralasciare le rotte aeree e gli altri diritti di traffico (roba da esperti).

Rimaniamo al patrimonio base. L’Alitalia ha, anzi direi aveva, 185 aerei .

Dico aveva perché, nel marasma di questi ultimi giorni, non sono stati buoni a pagare la quota di riscatto alla fine del leasing per tre aerei.

Tre boeing 767 , pagati interamente, CON I NOSTRI SOLDI, e regalati alle compagnie di leasing. Persi. Regalati, ripeto, in quanto pagati fino all’ultima rata.

Ma quanto costa un Boeing 767 usato …ma tenuto bene? (L’Alitalia fa tutta la manutenzione che deve quando deve e come deve, anzi spende anche troppo).

Se ve lo eravate mai chiesto ecco qui: almeno 44 milioni di euro per un 767 quasi decrepito di 15 anni di età.

Gli aerei, ben piu’ giovani, dell Alitalia valevano almeno qualcosa di piu’.

Mettiamo un 1% in più, tanto per dire.

Farebbero 48 milioni ad aereo.

Ovvero 144 milioni di euro, buttati via cosi, per distrazione, incapacità di trovare un filo di cash.

Ovvero qualcosa di più di quanto mette sul piatto Airfrance.

E gli altri 182 aerei? Valgono nulla?

Anche i nuovissimi 10 B 777  (non hanno due anni) del costo unitario di oltre 240 milioni di euro?

Per quanto mi riguarda mi par semplice.

CHIUNQUE DI NOI può comprare l’Alitalia: gli basta vendere un po’ di aerei appena comprata la compagnia, chiedere un finanziamento, GARANTITO DALLO STATO (se io non pago pagate voialtri popolo bue)e vedere di ramazzare qualche altro milione  via aumento di capitale. I piloti possono essere messi fuori anche, semplicemente, passandoli “in leasing” ad altre compagnie (la loro formazione, come detto, costa milioni di euro e richiede anche decenni, per i piloti di Jumbo et similia)

A spannometro, anche solo vendendo a prezzi di mercato gli aerei più decrepiti della flotta e mettendo via via in congedo i piloti e il personale per raggiunti limiti di età, anche senza migliorare i disastrati conti della società, si potrebbero coprire i buchi per i prossimi venti anni.

Forse finirà prima il petrolio.

Più o meno quello che ho accennato è quello che farebbe il liquidatore in caso di fallimento: venderebbe per fare liquidità e ripianare i conti. A me pare una soluzione migliore e di gran lunga di quanto è stato finora messo sul piatto. Provocherebbe sconquassi minori, non comporterebbe licenziamenti immediati, non metterebbe, per l’ennesima volta, la mano in tasca a noi proprietari.

Potrebbe anche succedere, chissà, magari, che il personale si metta una mano in tasca, 12.000 euro a testa basterebbero, E SI COMPRI LA PROPRIA COMPAGNIA DIVENTANDO IL DATORE DI LAVORO DI SE STESSO.

Scommettiamo che i conti comincerebbero a tornare di nuovo?

Qualcuno che lo dicesse, oltre a noialtri grulli?

 

 

 

Pietro Cambi

https://comedonchisciotte.org/i-conti-della-lavandaia-e-lalitalia/

Link originale:

http://crisis.blogosfere.it/2008/03/i-conti-della-lavandaia-e-lalitalia-w-il-liquidatore.html

1.04.08

La competenza ai tempi della Crisi

 

Il neonato governo giallo verde è ufficialmente nato ieri e già tutti i media si baloccano con il nuovo giocattolo facendo a gara a chi trova l’incompetente più grande, la boiata più grossa.

Il che va benissimo ed è anche sano, se l’avessero fatto anche per i 4 governi che l’hanno preceduto. La competenza, in effetti, è un argomento perfettamente Cassandresco.

Ecco quindi Il mio personale contributo. D’annata, ovviamente, perché così fanno le Cassandre.

ah, a pensarci bene, è ancora leggermente ottimista. Perché il principio di Dunning https://it.m.wikipedia.org/wiki/Effetto_Dunning-KrugerKruger dice che l’incompetente sarà l’ultimo che si accorgerà della sua incompetenza.

Un corollario, citato, dice che per rientrare nella casistica basta…”respirare”.

Diario doloroso di un assimilato:
Oggi ho appena scoperto che non basta essere assimilati, per scamparla.
Sono andato a rivedermi l’origine del famoso ( ehm almeno tra noi gente bislacca) principio di Peter: In una data gerarchia ogni membro tende a raggiungere il proprio livello di incompetenza.
Come FORSE sapete, questo primo e famoso principio si accompagna a tre un poco meno famosi, ma strettamente connessi:

1) In una data gerarchia ogni singola posizione tende ad essere occupata da un individuo inadeguato al lavoro che deve svolgere;

2) Con il tempo ogni posizione lavorativa tende ad essere occupata da un impiegato incompetente per i compiti che deve svolgere;
3) In una data gerarchia il lavoro tende ad essere svolto prevalentemente da coloro che non hanno ancora raggiunto il propro livello di incompetenza.
Ho sempre pensato che questo sia in realtà un BEST case, perchè postula, ad esempio, l’esistenza di un sistema meritocratico.
Mediamente parlando le cose vanno peggio di cosi.
Ma c’è qualcosa di piu’ interessante: poichè ovviamente i compiti o almeno le competenze necessarie per svolgerli decentemente sono sempre piu’ complessi, via via che si sale i gradini, anche nel migliore dei casi, IN UNA GERACHIA I POSTI DI VERTICE SONO STATISTICAMENTE COPERTI DA INDIVIDUI INCOMPETENTI.
Che questo sia sostanzialmente vero, l’abbiamo sotto gli occhi tutti, almeno di chi li tiene aperti.
Ma c’è di più: Il sistema NEL SUO COMPLESSO è destinato al collasso.
Infatti il quarto e meno noto principio di Peter recita:
«Ogni cosa che funziona per un particolare compito verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà.»
Notate che è un principio più generale che COMPRENDE gli altri tre.
Soprattutto notate come si lega a quel che ha scritto Tainter sui sistemi complessi o comunque ai casi NOTI di collasso di sistemi complessi.
Le cose stanno proprio cosi. Ad ogni livello del sistema, QUALUNQUE sia il sistema preso in considerazione, umano o naturale, ad ogni livello COMPLESSO formato da sistemi di sistemi ed ovviamente anche al livello massimo, al sistema dei sistemi dei sistemi chiamato Terra.

Stiamo adoperando la nostra società per compiti sempre più difficili e non funziona più. In più chi è ai vertici non è in grado di gestire la cosa, essendo incompetente.
Stiamo adoperando IL NOSTRO PIANETA allo stesso modo.
Come si può scappare dal collasso?
O con la decrescita ( fare cose piu’ semplici, in minori quantità).
O con la sostituzione dei vertici ( mettere persone più brave che non hanno ancora raggiunto il loro livello di incompetenza).
O con tutti e due.
Abbiamo poco tempo, direi la terza che ho detto.
Ma, per la legge di Peter, questa evenienza è estremamente remota.
Colui che arriverà a poter decidere cosa fare, NON SAPRA’ FARLO.
Se ci pensate, diecimila anni di civiltà ci danno proprio questa risposta: i casi di competenti al comando è cosi rara che questi pochi sono GLI UNICI che fanno avanzare le cose.
Per davvero: quelli di Peter sono dei postulati .
Come quelli euclidei.

crisis what crisis? 2012

Stagnazione all’italiana.

Nei giorni scorsi è apparso un ennesimo articolo sulla crisi economica italiana.   Ho scelto questo come spunto per una riflessione perché è stato pubblicato su “Econopoly”, una rubrica del Sole 24ore. Dunque su di un giornale che certamente non condivide i miei presupposti ecologici e fisici, ma che indubbiamente è molto competente sugli argomenti economici e finanziari.  Insomma, un giornale da cui mi separa un baratro a livello per-analitico, ma da cui c’è sempre da imparare.

In sintesi, l’autore dell’articolo, Alessandro Magnoli Bocchi, prospetta tre scenari possibili per il prossimo decennio:

“Scenario 1 (probabilità: 75 %) – Status quo e accettazione di fatto della leadership tedesca. In pratica, continuare sull’andazzo degli ultimi 10 anni.

Scenario 2 (15 %) – Riforma dell’Unione Europea e attuazione di riforme incisive in Italia.  Un mix di investimenti pubblici, semplificazioni burocratiche, riforme politiche, liberalizzazione economiche che dovrebbero “rilanciare la crescita”.

Scenario 3 (10 %) – Uscita dall’euro. Bancarotta, ristrutturazione del debito e poi chissà?

Purtroppo, mi trovo sostanzialmente d’accordo sul fatto che questi sono i tre scenari possibili, ma aggiungerei che i primi due condurrebbero con ogni probabilità al terzo.   Dunque, in tempi magari un poco più lunghi, la bancarotta sembrerebbe una specie di fato ineluttabile.   La causa principale di si foschi presagi sarebbe, secondo l’autore, il ritardo e l’inerzia nel portare avanti sostanziali riforme liberali al sistema.

Senza nulla voler togliere all’effettivamente asfissiante inefficienza di tanta parte del nostro sistema, siamo sicuri che non ci sia dell’altro?
Volendo dare una risposta che non sarà letta, vorrei far notare a dr. Magnoli Bocchi che la crisi economica, sia pure in modo molto diverso da caso a caso, sta gradualmente interessando tutti i paesi del mondo.   Perfino la Cina che, sotto molti aspetti, svolge oggi il ruolo di “faro ideale” per la nostra classe dirigente. Un po’ come in passato lo furono l’URSS per i comunisti e gli USA per i liberali.   A mio avviso ciò significa che, al di la delle situazioni contingenti ad ogni realtà nazionale e locale, sono all’opera fattori globali afferenti, purtroppo, alla tragica realtà dei “Limiti allo Sviluppo” nei suoi vari aspetti.

Ciònondimeno, è vero che l’economia tedesca si sta dimostrando più dinamica e resiliente di quelle degli altri paesi UE e, soprattutto di quella italiana.   Un dato di fatto che meriterebbe un approfondimento.   Fra i numerosi aspetti della questione, vorrei qui attirare l’attenzione su di un argomento mai preso in considerazione quando si parla di “competitività” internazionale e, viceversa, critico; oltre che irreparabile.

La sindrome del posacenere.

Un mio vecchio amico una volta mi disse: “Vedi l’urbanistica è come un posacenere.   Se tutte le cicche sono dentro un piattino di vetro, la stanza è pulita e funzionale.  Se le stesse cicche le spargo dappertutto, l’avrò resa uno schifo impraticabile.”

Chi si voglia prendere la briga di osservare su Google le foto satellitari delle periferie urbane, scoprirà una cosa sorprendente.   In alcuni paesi, ad esempio la Germania, le città sono state complessivamente costruite con un certo ordine e criterio.   Ad esempio separando la campagna, le aree industriali, quelle commerciali e quelle residenziali.   A titolo d’esempio, qui vediamo Friburgo (220.000 abitanti).

Friburgo (Germania) e dintorni
Friburgo (Germania) e dintorni

Esattamente l’opposto di quello che abbiamo fatto in Italia e, in misura ancora maggiore, in tanta parte della Spagna e della Grecia.   Per essere furbi, abbiamo fatto praticamente tutto dappertutto, creando suburbi vasti come intere provincie, dove si mescolano e si accavallano villette e capannoni, piazzali e condomini, magazzini e centri commerciali.   Mentre sul “retro della città” agonizzano i frammenti di quella che avrebbe potuto essere campagna; gradualmente invasi da baracche, depositi più o meno abusivi, piazzali e tutto l’armamentario del degrado sub-urbano.   Sempre a titolo di esempio, qui vediamo Prato (190.000 abitanti che consumano forse il quadruplo della superficie rispetto a Friburgo).

Prato e dintorni.
Prato e dintorni.

Certo, costruire in questo modo ha permesso ai privati di abbattere i costi di costruzione e di urbanizzazione, tanto delle casette, quanto dei capannoni e dei piazzali industriali.   Ma ora, esaurito questo effimero vantaggio, ci troviamo con una situazione ingestibile ed irreparabile.   Molto semplicemente, avere costruito così le nostre città ha delle conseguenze che si possono riassumere così:

  • Maggiori costi e minore efficienza di tutti i servizi di rete (elettricità, acqua, gas, fognature, trasporti pubblici, ecc.) al punto che spesso non sono neppure realizzabili (tipicamente le fognature e la depurazione).
  • Maggiori costi di gestione della rete idrica e maggiore rischio idrogeologico.
  • Maggiori costi e tempi di trasporto.  Sulle medesime strade si incolonnano tir, automobili, apette e ciclisti, assieme ad autobus e pedoni.   Il pericolo è costante, l’efficienza minima.
  • Maggiori costi di intervento per qualunque opera di manutenzione, integrazione o ammodernamento, sia delle reti, che di impianti, case, ecc.   Al punto che spesso si rinuncia a farli (tipicamente: aree verdi urbane, piste ciclabili, parcheggi scambiatori, ecc.).
  • Necessità di uso dell’auto privata e del camion, con le conseguenze del caso.
  • A parità di altri fattori, maggiori tassi di tutti i tipi di inquinamento e conseguenti costi diretti ed indiretti.
  • Elevato disturbo ed intralcio reciproco fra le diverse attività che si accatastano a casaccio nello stesso posto.
  • Degrado paesaggistico ed impraticabilità turistica di zone che, magari, contengono oggetti di del pregio storico od artistico delle ville lucchesi o di quelle venete.
  • Massima distruzione di suolo, soprattutto agricolo e perlopiù di eccellente qualità.   In questo modo infatti, non solo le aree artificializzate vengono rese irreversibilmente sterili, ma anche ben più vaste superfici che diventano inutilizzabili a causa della frammentazione e della difficoltà di accesso.
  • Isolamento delle residue aree agricole e naturali che perdono così buona parte della loro biodiversità e resilienza.

Nel complesso, non sarei in grado di quantificare il danno, ma in un contesto in cui i margini di guadagno sono sempre più sottili e la competizione sempre più esacerbata, credo che questo genere di costi, moltiplicati per un intero paese, abbiamo un peso rilevante.  Perché dunque nessuno ne parla?

Credo sia per due ragioni principali: La prima è che oramai non c’è più niente da fare.  Non possiamo immaginare di demolire e rifare i due terzi dell’edificato nazionale.

La seconda è che la responsabilità ricade sull’intera popolazione.  Dal privato cittadino che ha voluto farsi la villetta dove aveva ereditato un pezzetto di terra; all’industriale che per i suoi capannoni ha comprato terreno agricolo per poi farsi cambiare la destinazione d’uso.   Fino al tizio che trova comodo accumulare i suoi rifiuti in un cantuccio dietro la città, invece di conferirli secondo norma.   Passando per il palazzinaro che spara le sue villette a schiera dove il terreno costa meno, ciò dove è più lontano dai servizi essenziali.

Insomma, fino agli anni ’60 il “laissez faire, laissez passer” ha funzionato.  Abbiamo fatto le stesse cose dei tedeschi e dei francesi, con costi minori.  Si sa che gli italiani sono furbi!   Ma col passare del tempo, abbiamo dovuto cominciare a fare i conti con l’oste e scoprire che chi aveva speso di più per costruire meglio si trovava poi ad avere dei costi di gestione ridotti ed una maggiore produttività.

Oh perbacco! Ma non è che per caso sul Sole 24ore si parla spesso di inefficienza e scarsa produttività?

 

 

 

 

 

 

Crisis e Renzi? Storia lunga….

www.deborabilli.it/

…Non perché lo conosca personalmente, sia chiaro, benché l’abbia incontrato più di una volta, per motivi istituzionali o, più semplicemente, perché andava a mangiare dal mitico Lino, dietro casa mia…

Mi sa che avete idea di come la pensi OGGI, sul nostro esimio.

Per sapere come la pensassi in tempi non sospetti, sette anni fa, ecco qui un post del 2009,  ripescato da Debora ( che ringrazio).

16 febbraio 2009

Le primarie del PD per le elezioni a sindaco di Firenze sono state vinte da Matteo Renzi, 34 anni, attuale Presidente della Provincia di Firenze, uno dei più giovani esponenti politici locali e italiani. In fondo dovremmo essere contenti, perchè vince un giovane, perchè è un tipo fattivo, perchè finalmente si parla di sostenibilità, di sociale, etc etc. Premesso che i politici vanno visti alla prova dei fatti, è tuttavia disarmante che un giovane, probabilmente di freschi studi abbia idee cosi confuse in campi essenziali come quelli della sostenibilità ed in particolar modo sia ancora convinto che sia una buona idea realizzare NUOVI inceneritori per non ridursi ad un “sudiciume come è successo a Napoli”. Potete verificare da soli. in una intervista rilasciata recentemente, quale sia a grandi linee il Renzi-pensiero. Certo: la buona volontà non manca, si parla di recupero di spazi verdi, dell’interessante progetto di recupero e restauro delle fatiscenti pescaie dell’Arno a fini idroelettrici, del risparmio energetico, si danno incentivi infomrazioni e chiarimenti tramite uno sportello apposito della Provincia, ma insieme si mescola un populismo minaccioso nei confronti di chi ha cercato e cerca di far presente che gli inceneritori NON sono una buona idea e altri discorsi che non promettono molto di buono a chi, sulla base di fatti e dati scientificamente raccolti e presentati, cerca di spiegare che il consenso popolare di area vasta non è e non può essere l’unico metro di giudizio nelle scelte strategiche sul territorio e che le evidenze scientifiche vanno rispettate e considerate. Probabilmente siamo incontentabili, noialtri aspisti, probabilmente mi sarebbe piaciuto che prendesse una decisa posizione nei confronti della mobilità alternativa, probabilmente da un giovane che si dice attento alle politiche ambientali si pretende istintivamente di più che da una vecchia volpe della politica. Sarà tutto questo ma non riesco a togliermi il dubbio che il candidato sindaco del PD abbia scelto, d’istinto, di cavalcare un’onda che cresce nella società senza farsi carico di andare troppo al di là delle iniziative di più sicuro successo e presa politica.16 Piuttosto che niente meglio piuttosto, come si suol dire. Rispetto a quel che passa il convento, a Firenze dovremmo essere soddisfatti. In ogni caso mi sento di far presente al potenziale futuro sindaco che dovrebbe tenere conto che certe affermazioni, alla lunga, potrebbero ritorcersi contro di lui; non c’e’ bisogno di dire che la politica, da lungo tempo ha ben appreso l’arte del recupero e del riciclo; schierarsi con decisione a favore degli inceneritori potrebbe metterlo in una situazione difficile, qualora la realtà si incarichi di riportarlo, alla dura necessità di un accordo con le popolazioni che si devono sciroppare nuove emissioni inquinanti vicino alle proprie case, anche se queste costituiscono una minoranza della popolazione. Le bugie hanno le gambe corte: gli inceneritori inquinano, punto e basta. Non credo che chiedere aiuto al governo centrale o precipitare la città in una emergenza come quella di Napoli, dichiarando di NON volercela precipitare, sia una buona idea. In questo caso il nuovo che avanza, inteso come quello di cui non si sa che fare, insomma, quello avanzato, lungi dall’essere riciclato, potrebbe fare la fine da lui proposta per i rifiuti non differenziati.

Abbiamo perso; un’altra volta.

pandaCome da pronostico, un terzo scarso degli aventi diritto è andato a votare ed il referendum non è passato.   Sorpresi?   Quante volte abbiamo già visto questo film?   Non credo che nessuno fra quelli che si sono attivati per il “SI” credesse davvero di poter vincere.

Ora è la fase dei commenti e, tra chi brinda e chi si arrampica sugli specchi, vorrei proporre alcune riflessioni personali.

Innanzitutto direi che bisogna distinguere i due fiaschi che il 17 si sono assemblati: il fiasco dell’istituto referendario ed il fiasco del movimento ambientalista.

referendum 17 aprile 2016Per quanto riguarda il primo, c’è poco da dire se non “Grazie Pannella”.   Fu infatti il leader radicale che, oramai tanto tempo fa, tentò di scardinare la macchina del potere partitico subissando il governo con una massa di referendum che, sperava, avrebbe obnubilato le capacità di reazione dei partiti.   Invece accadde il contrario.   Da un lato, fu messa a punto una tecnica estremamente efficace per boicottare i referendum, come abbiamo visto anche nei mesi scorsi.   Dall’altro, la maggior parte della gente si è stufata di troppe domande, troppo frequenti e troppo tecniche.   Risultato, il più democratico degli istituti è morto ammazzato dal suo più ardente paladino.   Si sapeva anche la settimana scorsa.   Amen.

Il secondo punto è più complicato, a cominciare dal fatto che questo referendum è nato nell’ambito di una lotta per il potere interna al PD ed alla macchina statale.   Tuttavia aveva delle implicazioni ambientali ed il movimento ci si è buttato.   Ha perso, ma quello che mi interessa qui è che non abbiamo perso ieri: abbiamo perso sempre.    Un movimento che 50 anni fa sembrava capace di cambiare l’agenda politico-economica globale si sta disintegrando senza aver ottenuto praticamente nulla.

Un dato questo inoppugnabile alla luce dei fatti: rispetto al 1970, la situazione ambientale del mondo è peggiorata in modo terrificante.   E’ vero, il panda non si è ancora estinto, anzi è in lieve ripresa.   Ma attenzione: ciò non è accaduto in forza di norme ed interventi del governo o di una presa di coscienza popolare.   Bensì come “sottoprodotto” del boom economico ed edilizio cinese che ha drenato verso le grandi città decine di milioni di contadini e montanari.   Questo ha dato temporaneo respiro ai boschi dove vivono i panda, ma intanto è raddoppiato l’inquinamento mondiale e con ogni probabilità abbiamo oramai superato il punto di rottura climatico.   Un po’ quello che è accaduto in Europa negli anni ’50 e ’60, più in grande ed in un contesto globale ben peggiore.

indicatori di crisi

E mentre quasi tutti gli indicatori mondiali di qualità ambientale peggiorano in maniera esponenziale (andate a leggere questo link), perfino sul piano culturale l’ambientalismo ha perso buona parte della la sua forza propositiva.   Ad oggi, in Italia ed in Europa esiste una piccola e radicata nicchia di persone preoccupata per l’ambiente, ma le associazioni storiche stanno scomparendo, quelle nuove non decollano ed alle riunioni si vedono sempre le stesse teste, sempre più bianche.   E mentre sui teleschermi assistiamo alla telecronaca in diretta del collasso della nostra civiltà, continuiamo a ripetere come dei mantra parole ormai prive di senso, come “sostenibilità” ed “efficienza”.   Né servono a molto quei pochi che, viceversa, accettano il ruolo di “foglia di fico” del sistema economico, sempre senza preoccuparsi minimamente di come questo si interfacci con la realtà.

Non è un caso se tutti i testi fondamentali per l’ambientalismo sono vecchi di 50 anni: “Silent Spring” 1962, “The Population Bomb” 1968, “The Entropy Law and Economic Process” 1971, “Limits to Growth” 1972.
Dopo è stato scritto molto e molto a proposito, ma i termini fondamentali della questione erano chiari allora ben più di ora.
Le opzioni possibili invece sono cambiate perché il tempo è passato e molte delle cose che non sono state fatte in passato non potranno essere fatte in futuro.

D’altronde, sull’altro fronte le cose vanno perfino peggio.   Se nel 1970 le principali industrie europee finanziavano lo studio che portò ai “Limiti dello sviluppo”, oggi il panorama economico è dominato da individui che si occupano di grattare il fondo del barile.   Oppure da ingenui che davvero credono che eliminando i pochi brandelli di tutele ambientali e sociali ancora esistenti si possa rilanciare una crescita economica che per noi è finita da anni e per il mondo (probabilmente) sta finendo proprio adesso.   Amen (un’altra volta).

Dunque la domanda che mi pongo è questa:   Ha ancora senso che esista un movimento ambientalista?   Se si, quali gli scopi che si dovrebbe prefiggere?

Non è una domanda nata oggi dalla sconfitta di ieri.   E’ una domanda nata 10 anni or sono dalla sconfitta di 50 anni consecutivi in cui non è stato possibile modificare di un millimetro la traiettoria suicida della civiltà umana.   Oggi semplicemente la ripropongo, perché ancora non ho trovato una risposta.

post-apocalypse-300x200La aspetto, non ho fretta.

Il fallimento dell’architettura moderna (reloaded)

casa-sulla-cascataTra le varie crisi e fallimenti che ci circondano, nel generale dissesto di un po’ tutta la nostra società, mi sembra singolarmente evidente, per oggettiva visibilità, il clamoroso fallimento dell’architettura contemporanea, in particolare in Italia ma ovviamente estendibile a tutto il resto del mondo, con mille e mille sfumature. Senza stare a sfrucugliare tanto, i grandi padri dell’architettura moderna, ad esempio Frank LLoyd Wright e  Le Courbusier due fra i fondatori dell’architettura razionalista, speravano che un approccio appunto razionale all’architettura avrebbe permesso di superare quello che sentivano come vuoto accademismo ed estetismo (degli edifici classici); analizzando i BISOGNI e gli scopi di persone ed edifici, speravano di poter dare il via ad una architettura funzionale, esteticamente soddisfacente, economica e a dimensione umana. Benche’,a mio modesto avviso, specialmente nelle discutibili pretese di realizzare “unità di abitazione” serializzate, di Le Courbusier ci siano già i germi del successivo disastro(«Occorre creare lo spirito della produzione in serie, lo spirito di costruire case in serie, lo spirito di concepire case in serie») almeno si cercava di riferire alla misura dell’uomo gli edifici (cfr il modulor sempre di Le Courbusier), si concepiva un inserimento nell’ambiente (lacasa sulla cascata di Wright, la foto di questo post), si consideravano valori importanti quelli della coibentazione, dell’isolamento, dell’equilibrio formale ed addirittura del ritmo musicale delle parti. Il punto è che i geni sono rari e certe mode sono pericolose. Il cemento armato e la realizzazione di edifici visti come macchine per abitare  è dilagato degeneratamente in tutto il mondo come una pandemia urbanistica, producendo le orrende città che abbiamo sotto gli occhi. Il fallimento totale, assoluto ,irredimibile dell’architettura moderna, a parte (a parte??) gli enormi problemi di durata ed energetici che la maggior parte degli edifici dovranno affrontare è sotto gli occhi di tutti. Evidente, universale, nella sua disperatante disumanizzazione delle funzioni fondamentali dell’abitare che i padri fondatori credevano di garantire efficacemente, diffusamente ed economicamente. Consideriamo solo il lato estetico. Osservate, poniamo, cento edifici, anche presi casualmente in una qualunque parte del mondo, che abbiano piu’ di 60 anni. La maggior parte non sarà certamente un capolavoro. Ma nell’insieme solo pochi appariranno BRUTTI. Una certa unità stilistica, semplicità dei materiali e finitura, qualità della realizzazione ed equilibrio di forme, colori e dimensioni ci porterà a ritenerli, per lo piu’, non spiacevoli quando, specialmente qui in Italia, non decisamente gradevoli, desiderabili, in una parola: umani. Ora prendete, sempre in modo casuale cento edifici moderni, con meno di 60 anni. Quanti fra essi ci appariranno men che brutti, squallidi, banali, insignificanti o addirittura mostruosi e disperatamente inumani? Non dico ovviamente che non esistano realizzazioni spettacolari anche nell’architettura moderna. Il punto è che sono rare, troppo rare, in un mare di disperante squallore come le ere precedenti non hanno mai conosciuto. Non è un caso che questo sia successo, ovviamente, e il motivo principale nasce daimateriali utilizzati che hanno portato a certe scelte naturalmente, per meri motivi economici. Su questo si è sommato una certa concezione di modernismo, ancora tragicamente in atto, che tende a vedere gli edifici come OGGETTI  o eventualmente come MACCHINE per abitare, lavorare, produrre, etc. Invece, santi numi, lo sappiamo benissimo, sono qualcosa di piu’. Per un Cro-Magnon uscito solo ieri l’altro in termini evolutivi, dalla sua caverna, la casa è la TANA. Un posto che dà o dovrebbe dare, calore, sicurezza, protezione, rifugio. La mediocrità, ammettiamolo, domina nelle cose umane. Dovremmo allora, nella consapevolezza che i geni sono rari, fare in modo che certi valori semplici, comprensibili, condivisibili, siano rapidamente ed efficacemente implementati in tutti i mille e mille piani regolatori, a partire dai materiali. Materiali tradizionali e tecniche tradizionali ad esempio impongono scelte che portano, con poche altre regole alla realizzazione di edifici di dimensioni, stili e materiali compatibili con la storia del territorio. I pochi casi in Italia dove si sono applicate regole semplici ma forti, di rispetto dell’edificato precedente, (alcune zone montane e marine, prevalentemente) se non hanno evitato la speculazione edilizia, hanno almeno evitato gli orrori ad essa associati nelle grandi città. Insomma: dal modulor di Le Corbusier

modulor

si è arrivati a Corviale,

corvialecon un processo logico che mi piacerebbe vedere denunciato, compreso, studiato e rigorosamente disapplicato nel futuro. Credo sia arrivato il momento del piccone risanatore e questa, infine, potrebbe anche non essere una cattiva notizia.

Pietro, Crisis What Crisis, 15 Dicembre 2008

Come era verde la mia Crisis

Quattro anni e nove mesi fa.

Tratto dal vecchio sito di Crisis What Crisis 1.0

Backlash Economy alla prova: tocca all’Irlanda. Tra un mese il default?

Di

Eravamo stati facili profeti.

Non c’e’ due senza tre.

( non ci sono più le mezze stagioni, tantovalagattalalardochecilascialozampino, unarondinenonfaprimavera, potete aggiungere voi quante frasi fatte volete, per la gioia di Debora)
Dopo l’Islanda, tocca all’Irlanda.
Le voci di una probabile insolvenza di un suo importante istituto bancario PRIVATO stanno portando ad una stima del rischio default dell’Irlanda elevatissima, con l’inevitabile contorno di differenziale stellari dei tassi di interesse dei bonds e debiti/deficit pubblici “skyrocketing” ovvero che schizzano alle stelle come razzi.
Tra un mese ci potrebbe addirittura essere una dichiarazione di insolvenza da parte del loro ministro delle finanze.
A questo punto ci sono pochi dubbi che ci troviamo di nuovo di fronte ad un test della shock economy, ovvero, per farla breve: come procacciarsi del cibo in momenti di carestia? Tritare un paese, spezzandogli le osse a mazzate finanziarie, per succhiarsi il tenero, se pur sanguinolento, midollo.
Quel che succederà, a questo punto siamo bravi tutti a fare previsioni, è già scritto.
1) uno o più prestigiosi istituti finanziari lanciano un grido di allarme che suona come un ultimatum al governo: o ci aiutate o andiamo alla malora trascinando nel gorgo i risparmi privati del paese. Non sto facendo previsioni: è quel che è appena successo.
2) i politici si spaventano per la prematura fine della loro luminosa e democratica carriera e cercano di metterci, disperatamente, una pezza.
3) le dissestate finanze del paese, anche a causa del ben pilotato crollo verticale della fiducia degli investitori internazionali, non sono in grado di garantire fondi sufficienti senza chiedere finanziamenti al neonato fondo di solidarietà europeo e/o al Fondo Monetario internazionale. Sarà quello che constateremo tra un mese o prima.
4) Le due succitate “dame di carità” per garantire il loro aiuto richiedono draconiane misure allo Stato (non all’istituto finanziario che ha provocato il dissesto, notate bene) che in praticano implicano la fine dello stato sociale ( o di quello che ne resta) con il dirottamento dei denari dei contribuenti nel buco senza fondo cosi generato. Il flusso di capitali REALI, cosi ottenuto, fornisce nuova linfa e capacità finanziarie per continuare il giochino ai danni di un altro paese ( possibilmente porcino, ‘che è piu’ saporito). Anche qui sto descrivendo qualcosa che è già successo, solo quest’anno ed in Europa almeno altre due volte, in Grecia ed Islanda ( ci sarebbe anche il caso dell’Ungheria, veramente).
5) il risultato netto: impoverire una popolazione per decenni a venire senza contropartita, dato che i risparmi momentaneamente salvati dalla scomparsa causa default bancario finiscono o per essere spesi per sussidiare i servizi che ora non sono piu’ garantiti dallo stato o per sopravvivere, semplicemente, nella situazione di depressione economica e sociale risultante. Chiedete ad un amico greco per i dettagli o guardate la nostra situazione in Italia per una versione demo di questo approccio.
6) Il tutto crea un insostenibile stress sociale che può finire in due o tre modi:
a)tafferugli e serrate varie, repressione poliziesca tutto sommato blanda e ritorno ad una depressa “normalità”. E’ quello che è successo, per ora, in Grecia e che succederebbe, con ottime probabilità, anche nel nostro paese. Il paese entra in depressione permanente con la prospettiva di una riesplosione del problema in grande stile, una volta esaurite le risorse e dispiegato nella sua interezza l’impatto della situazione.
b) come sopra ma con accenti di vera guerriglia urbana, militarizzazione della società ( coprifuoco etc etc) e seria possibilità di collasso del sistema politico ( aka: rivoluzione)
c) come sopra ma con la classe politica che, di fronte alla propria non puramente politica fine, lucidamente affronta il problema, calcola costi e benefici e decide, con lucidità e freddezza, di lasciare che gli istituti di credito vadano alla malora, cosi salvando l’economia reale, sia pur a prezzo di uno stallo degli investimenti ( non ci sono piu’ capitali e risparmi su cui far leva e dall’esterno ne arriveranno con difficoltà).
Nel processo mutui ed altri oneri finanziari vengono ricartolarizzati ad un costo molto basso e per percentuali frazionarie dell’importo originario.
Gli imprenditori e le famiglie con il mutuo sul groppone possono mantere un minimo di capacità di spesa e contare ancora sull’apparato sociale statale, bello o brutto che sia.
7) Comunque vada la mazzata riporta, dopo decenni di illusioni, i cittadini di fronte alla realtà, ovvero che non si può costruire il futuro senza pensare alla sostenibilità degli investimenti e delle risorse coinvolte. Contemporaneamente si riportano gli investitori e gli economisti “cartacei” a fare i conti con la realtà.
Il tutto si configura, come ormai sapete, come un vero e proprio colpo di coda, backlash, dato dalla società reale di un paese in risposta al sistema economico internazionale che avrebbe grandemente preferito poter cartolizzare sul groppone della gente della Grecia/Islanda/irlanda/…. il collasso delle loro economie cartacee con contorno di fallimentari esercizi di finanza virtuale.
Ci vuole un popolo tosto, abituato a guardare la vita negli occhi e governanti onesti, coraggiosi ed altrettanto tosti.
Vedremo se gli irlandesi sono fatti davvero come ce li immaginiamo nei nostri stereotipi. Grandi, grossi, coraggiosi, onesti e sinceri, fino alla brutalità.
Vada come vada:
Backlash economy. Backlash economy e backlash economy.
Altra strada, per evitare il collasso sociale, con il minimo possibile di distruzione del futuro di una nazione, ormai ne sono persuaso, non c’e’.