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Niente basta, a colui al quale non basta quel che è sufficiente/10 Il pedal coin

Il pedal coin, storia di una idea promettente

Quel che segue è uno zibaldone di lavoro, da cui avevamo sviluppato nel tempo varie ipotesi operative, non riproducibili su un blog. Serve comunque, spero, ad introdurre e mostrare in cosa sarebbe consistito il pedal coin.

Purtroppo se qualcuno l’introdurrà, state pur certi che NON sarà in open source…

Molto semplicemente, dopo un paio di anni di divulgazione nei nostri circoli amicali, magari per convergenze parallele, magari perché vi sono pochi gradi di separazione fra due individui qualunque sul pianeta….è arrivato questo.

Con tanti cari saluti allo spazio per un futuro libero ed indipendente del concetto.

Unica consolazione: le idee, i memi, non ti appartengono davvero. una volta divulgate, vivono nella testa di chi le condivide.

( segue lo zibaldone, per chi ha voglia)

PEDAL COIN: UNA PROPOSTA OPERATIVA

INTRODUZIONE

Dopo la nascita dell’antesignana, Bitcoin, sono state create centinaia di monete virtuali, ciascuna con le proprie specificità ed i propri punti di forza, ciascuna in lotta per la sopravvivenza, alla ricerca di una nicchia di mercato.

Tutte si basano su due concetti fondamentali: il registro distribuito o distributed ledger e la catena di blocchi o blockchain come metodo di archiviazione condiviso.

Esistono due principali protocolli di funzionamento del “distributed ledger” con infinite e continuamente modificate varianti: il cd proof of work e il cd. “proof of stake”.

Questi protocolli, implementati in modo diffuso, costituiscono il segreto del successo di queste monete “virtuali”, perché, sostanzialmente, premiano gli utenti del sistema che forniscono la capacità di calcolo necessaria a svolgere i complessi procedimenti di calcolo che garantiscono transazioni sicure e la loro archiviazione condivisa nella rete ( cd distributed ledger).

Questo processo di calcolo a supporto di una particolare moneta si chiama “mining” e viene attuato secondo un particolare protocollo, che nella maggior parte dei casi e segnatamente nella più nota e diffusa di queste monete, il bitcoin, viene “premiato” con nuova moneta, allo svolgimento di un certo numero ( solitamente esponenzialmente crescente nel tempo) di calcoli connessi alle operazioni di validazione.

A causa della sua crescente complessità, che dipende duplicemente dal tempo, sia per la natura stessa del protocollo utilizzato sia perché il numero di transazioni aumenta all’aumentare della moneta in circolo e della sua diffusione, attualmente il mining è una attività che richiede enormi potenze di calcolo, elevati investimenti in tecnologia dedicata ed energia e costi crescenti anche in termini ambientali, per essere una attività remunerativa.

Proprio per questo, appositi panel costituiti dai fondatori della rete hanno più volte rivisto il protocollo di funzionamento, al fine di renderlo meno energy intensive, mantenendo lo schema di funzionamento, anche al fine di garantire la principale delle caratteristiche di queste monete, ovvero la loro natura di moente a credito ( vengono emesse solo a fronte di una attività e/o un investimento), tendenzialmente deflattive. Infatti il numero di monete totali è predefinito o mediante una unica emissione una volta per tutte o, come nel caso dei bitcoin, dalla crescente difficoltà di ottenere nuova moneta a fronte di un dato lavoro di calcolo eseguito.

Benché non sia lo scopo del presente lavoro fornire una analisi anche solo pallidamente esaustiva del concetto di moneta, si fa solo presente che la “virtualità” di queste monete è sostanzialmente simile a quelle delle monete ordinarie più diffuse, che sono anche esse, strettamente, virtuali

Sono infatti monete cosidette “fiat” ( dal fiat lux, di biblica memoria: sono un atto di imperio di una organizzazione nazionale o sovranazionale ( l’euro) che le fa “esistere”).

Da tempo, quindi, il denaro è un mezzo di scambio non connesso ad una singola e particolare entità fisica, potendo così essere prodotto nella quantità e con le modalità desiderate.

Il suo valore, dipende dal mercato, ovvero dalla utilità percepita dal suo possesso e quindi dall’interscambio con altre entità virtuali ( altre monete fiat) o reali ( beni e servizi, ad esempio il petrolio).

Per la loro natura “speculativa” le monete virtuali sono state prima ignorate e poi fieramente irrise, fino a che, circa tre anni fa si è assistito ad una esplosione del valore , iper esponenziale e speculativa, che ha visto un bitcoin passare da poche decine  a 1200 dollari, crollare a poco più di 100 dollari e rimbalzare poi fino a quasi ventimila dollari di valore, trascinando con se le principali monete.

Attualmente si assiste ad un forte ridimensionamento da quei valori stratosferici ed ad un opportuno ripensamento sia sui protocolli sia sulle potenzialità delle varie monete. Alla fine, come è logico che sia, delle centinaia esistenti, ne resteranno solo poche, ciascuna presumibilmente, andando a coprire una nicchia differente di diffusione e funzionamento.

Il pedal coin è una proposta operativa che intende creare una “” moneta” o, più correttamente un mezzo di scambio che sia basato:

  • Sul distributed edger
  • Su un metodo di funzionamento e consenso affine alla proof of work (POW) o proof of burn ( POB). Nel caso di una proof of Work andrà valutata la possibilità di un protocollo tipo mimble wimble3
  • Su una precisa attività fisica che sia verificabile tramite  una funzione di hash crittografico con HW di bordo
  • firma digitale
  • rete permissionless peer to peer ( p2p)
  • crittografia a chiave pubblica e privata.
  • Che generi benefici diretti ed immediati con la sua stessa esistenza
  • Che possa vedere la sua utilità sociale, economica ed ambientale riconosciuta dalla rete finanziaria tradizionale, ad esempio sotto forma di sgravi fiscali riconosciuti alla presentazione di tokens, in modo da rendere possibile, con vantaggio per ambedue i mondi, un punto di contatto.

L’attività che si intende porre alla base della sua esistenza è tanto semplice quanto intuitiva: il movimento in bicicletta, declinato su qualunque percorso e qualunque finalità. Ovviamente il concetto, una volta implementato, è passibile di essere allargato ad altre attività analogamente “virtuose”.

Rapida analisi dei benefici personali e collettivi attesi dall’uso di un velocipede

Prima di affrontare il tema complesso dei benefici diretti attesi, sembra più opportuno perché ragionevolmente prevalenti, affrontare quello dei benefici indiretti, derivanti, in sostanza, dalla sostituzione di spostamenti attuati con mezzi a motore con spostamenti attuati con velocipedi.

E’ comune consapevolezza che il costo per la collettività degli spostamenti che utilizzano mezzi endotermici o, più genericamente, a motore, è un multiplo di quello percepibile dal singolo cittadino.

Il cittadino infatti è conscio dei costi fissi ( bollo, assicurazione, rate di acquisto e/o deprezzamento) del veicolo che utilizza e di quelli variabili ( riparazioni, manutenzione, incidenti etc) mentre ben difficilmente può rendersi conto di quelli che vengono sostenuti dalla collettività.

Fra questi sono ben visibili quelli legati alla realizzazione ed al mantenimento delle infrastrutture trasportistiche necessarie, strade, viadotti, segnaletica, barriere di protezione; molto meno quelli legati agli aumentati rischi sanitari ( incidenti, malattie croniche legate all’inquinamento, degrado delle condizioni psicofisiche delle persone etc etc). Ancora meno immediatamente visibili sono quelli necessari a mantenere la complessa infrastruttura indispensabile per il rifornimento dei veicoli, il loro smaltimento la loro costruzione, i sussidi( spesso immensi) alle aziende del settore, agli autotrasporti etc etc.

Tali sussidi ai settori interessati sono spesso i maggiori, percentualmente, che lo Stato fornisce al sistema produttivo, ed i costi infrastrutturali accennati sono tra i principali che deve affrontare.

Senza, naturalmente, tener conto delle problematiche connesse  alle guerre, agli sbalzi del mercato petrolifero, etc etc. Senza contare, infine, l’immenso danno ambientale provocato, la devastazione di interi ecosistemi, il rischio sanitario che provoca decine di migliaia di morti all’anno.

Esiste una ampia, quasi infinita, messe di studi che hanno affrontato l’insieme di questi costi, palesi ed occulti, alcuni citati in bibliografia. Qui basterà ricordare uno degli studi più puntuale e recente, europeo, che ha stimato queste esternalità ( i costi che la comunità affronta per ogni km percorso in auto)  in 11 centesimi al km percorso, mentre ha stimato in 18 centesimi i benefici ( esternalità positive) derivanti da 1 km percorso in bicicletta ed in 37centesimi a piedi.

I costi complessivi affrontati in Europa per garantire il trasporto automobilistico sono stimati in 500 miliardi euro all’anno.

Se si tiene conto del basso tasso di riempimento delle auto, mediamente meno di due persone a veicolo, si può ritenere che i benefici costituiti dall’usare la bicicletta al posto dell’auto, immaginando di sostituire un’auto con due passeggeri con due persone in bicicletta, siano pari a circa 11/2+18*2=41,5 centesimi al km.

Tutto questo serve a fornire una possibile base di calcolo per agganciare una moneta che viene generata se e solo se si pedala, spostandosi tra due punti geografici differenti, al mondo economico reale. Il pedal coin, in sostanza, si propone come una specie di “certificato bianco”a minimale ed accessibile a tutti, con un suo mercato ( la piattaforma stessa) un suo metodo di archiviazione, distribuzione, certificazione e generazione ( la blockchain, il distributed ledger e la proof of work) e un suo valore di partenza, determinato dalla utilità ambientale sociale ed economica che la sua stessa esistenza attesta. Tale valore, inizialmente per motivi politici/ambientali, ma ben presto per motivi concretamente economici e sociali, dovrebbe o potrebbe essere riconosciuto dagli Stati in cui viene implementato, ad esempio sotto forma di sgravi fiscali riconosciuti dalla presentazione di pedal coins, secondo un interscambio che sia dell’ordine di grandezza necessario a riconoscere almeno il 50% dei benefici attesi al presentatore di pedal coin. E’ bene chiarire che il presentatore dei pedal coins potrebbe NON essere colui che ha materialmente pedalato per i corrispondenti chilometri ma che tali pedalcoins esistono solo grazie al fatto che si è svolta QUELLA e non altre attività ( proof of work).

Implementazione

L’implementazione prevede un protocollo simile alle versioni più “leggere” del protocollo di funzionamento del distributed ledger e relativadi bitcoin. Tale protocollo leggero è necessario perché il calcolo si svolge sfruttando la potenza di calcolo disponibile sugli smartphones attuali.

Il processo di mining si avvia SE e solo se, il dispositivo è agganciato con procedura di crittazione a doppia chiave, ad un minidispositivo connesso alla bici ( può essere portato anche in tasca) che, dotato di piattaforma inerziale di derivazione dalle schede dei cellulari attuali, dia dati di posizione velocità e caratteristiche di movimento congruenti con quelli risultanti dal cellulare stesso.

In poche e più semplici parole, se il sw di mining non vede un movimento che è assimilabile al pedalare ed analogamente il dispositivo “di bordo” ( può essere un gadget che fornisce una buona luce frontale e contiene l’accellerometro ed il dispositivo di connessione bluetooth) non vede lo stesso movimento, con una tolleranza la più stretta possibile, il mining NON si attiva.

I PEDAL COINS VENGONO GENERATI, TASSATIVAMENTE, SE E SOLO SE SI PEDALA, SU UN PERCORSO DEFINITO E MISURABILE TRAMITE GPS. Ecco perché una modalità tipo la proof of burn, che prevede di “bruciare” una certa quantità, in percentuale, dei token generati, in cambio di tokens premiali potrebbe permettere di collegare questi ai km percorsi, grazie alla variabile tempo, a sua volta connessa alle transazioni eseguite ed alla disponibilità di rinunciare ad un dato numero di token. Una cosa comunque da approfondire e non banale, come appare ovvio.

Proof of work e pedal coin analisi alternative

Un modo compatto e necessariamente semplicistico di definire la complessa serie di calcoli numerici sottostante alla validazione dei blocchi, nota come proof of work, è che la proof of work  consente alla rete di non essere aggredibile da un hacker o un truffatore che voglia creare transazioni fittizie finalizzate o al collasso del sistema per sovraccarico ( DOS attack) o alla generazione di profitto per lui, tramite incameramento illegittimo dei tokens ( delle monete virtuali) circolanti. In pratica, poiché i nodi della rete sono tutti ugualmente qualificati a riconoscere e validare una certa transazione, un attacco che crei una motitudine di noi che validino una operazione truffaldina potrebbe creare un forking, cioè un ramo della rete che, pur fittizio, essendo basato su una operazione scorretta, riceverebbe la maggior parte degli assensi e quindi verrebbe riconosciuto valido. Proprio la potenza di calcolo necessaria a validare un blocco di transazioni, legata alle modalità di formazione e validazione dei blocchi attività che viene remunerata dalla generazione di nuova moneta,  permette di bloccare queste intrusioni malevole, per insufficiente capacità di calcolo. Se quindi il concetto alla base della proof of work, evitare intrusioni malevole volte a far collassare il distributed ledger o modificare a proprio vantaggio lo stesso, ottenendo un reddito illecito, è questo, ecco che il pedalcoin come concepito, appare in grado di ottenere lo stesso risultato sostituendo alla proof of work la proof of pedal. 

Infatti un nodo malevolo, per far validare una transazione scorretta, o tentare un attacco DOS, dovrebbe prima di tutto fornire una proof of pedal ovvero mostrare che sta pedalando e che i suoi dati sono congruenti con quelli del device. Ma, ovviamente, non è possibile generare istanze multiple perché si avrebbe bisogno di device multiple che siano a loro volta congruenti con nodi multipli ed attivi ( stiano pedalando) congruenti con essi.

Proprio perché è basata fisicamente, su una azione difficilmente duplicabile o falsificabile, la proof of pedal non appare forzabile se non con il consenso della maggioranza dei nodi, cosa che non appare possibile ne probabile ( le device hanno chiavi private che le rendono non modificabili o crackabili). Il pedal coin viene generato, quindi, a fronte di una attività, una proof of work, che dipende dai km percorsi secondo un algoritmo da verificare. Ogni nodo attivo, ovvero che sta pedalando contribuisce alla validazione DIRETTA ( senza calcolazioni complesse ulteriori, dato che la rete non è forzabile) dei blocchi e viene direttamente premiato in modo costante, in dipendenza dei km fatti. L’aggancio alla rete avviene dopo assenso da parte del device e si mantiene se e solo se i dati ricavati dal device sono congruenti con quelli dello smartphone o smartwatch del candidato nodo. Esiste un limite superiore di 50 km/gg ( possibile grazie al timestamping)  che potrebbe essere imposto sia per evitare forzature nelle attività sia perché vi sono prove che percorrenze elevate non siamo significativamente positive per la salute dell’atleta e quindi, in ultima analisi, per la collettività.

Poiché è essenziale che si mantenga una democraticità tra i nodi ( ogni partecipante alla rete riceve tokens in proporzione ai km fatti) si propone che i tokens generati dalla chiusura di un dato blocco siano generati in proporzione dei km totali percorsi nel tempo generato dalla creazione del penultimo blocco da tutti i nodi partecipanti alla validazione e siano distribuiti in uno di due possibili modi:

  1. in maniera equa fra tutti. Benché in questo modo chi percorre più km viene premiato meno di chi ne percorre di meno nello stesso tempo, si ritiene che il tempo intercorso sia sufficientemente breve da non creare pesanti distorsioni e comunque potrebbe essere stabilito un limite minimo e massimo alle velocità di validazione di un nodo ( ad esempio 10 e 35 km/h) dato che quel che si vuole incentivare, ricordiamocelo sempre è LO SPOSTAMENTO in bicicletta tra due punti e non l’attività fisica in quanto tale e si ritiene quindi che velocità troppo alte o troppo basse siano indizi di attività diverse da quelle che intendiamo promuovere.
  2. In maniera proporzionale ai km percorsi dal singolo nodo nel tempo intercorso. In questo modo si mantiene un incentivo maggiore per chi, in un dato tempo si muove più velocemente, cosa di per se non obbligatoriamente sempre e comunque positiva. Rimane però il vantaggio sia di una maggiore equità che di un legame stretto con il contributo dato dal singolo al benessere collettivo.

I sensori necessari sono già presenti dentro ogni cellulare ( l’accelerometro dei cellulari è già in grado di riconoscere, grazie a molti sw liberamente scaricabili, il tipo di attività fisica svolta, il nr. di passi o di pedalate etc etc) e sono anche facilmente reperibili in forma estremamente miniaturizzata, ed economica, basterà qui ricordare gli orologi ed i bracciali utilizzati per le attività fisiche da milioni di atleti e semplici praticanti amatori, nel mondo. Si presuppone probabile una implementazione della piattaforma HW di conferma, cd “device” a partire da arduino e sensoristica connessa, per un costo stimabile, a sensore, di circa 5-15 euro e di circa 30-50 euro del device ( verifica necessaria). Da notare che il device ha anche l’utilissima caratteristica di poter costituire un ottimo allarme in caso di furto e che potrebbe essere realizzato in un bundle con altre utilità, ad esempio una luce e diffusore sonoro, una radio fm.. etc etc

La presenza di un doppio sensore, il proprio cellulare e il device di bordo” con collegamento a doppia chiave, rende difficili le truffe.

Si ritiene comunque che il valore tendenzialmente basso e comunque pari al massimo ad una ventina di centesimi, di un km percorso, nella sua interfaccia con il mondo reale tramite i riconoscimento di sgravi fiscali ( il 50% o meno dei benefici collettivi attesi per l’attività) renda scarsamente interessante l’implementazione di sistemi in grado di ingannare sia il sw sia il sensore “di bordo” che andrebbe, in qualche modo, pensato come certificato o certificabile e dotato di una sua univoca identità, per quanto anonima.

Da notare che il device può essere venduto con un riconoscimento parziale di un tot di pedal coin, che in qualche modo costituirebbe sia un modo di finanziare lo sviluppo dell’idea sia un modo per restituire utilità sotto forma di tokens a chi partecipa alla offerta iniziale di pedal coins. Si propone un intercambio credibile, ma comunque non troppo elevato, dato che i pedal coin saranno connessi ai km percorsi con valori in termini di ondo reali, bassi. ( 10 O 20 CENTESIMI A PEDAL COIN). Si vuole inoltre incentivare la creazione di valore mediante attività e non i rentier, che comprano device e non li usano.

Ad esempio 100 pedal coin, per un device da 50 euro.

O 200 per un device da 100 euro.

resta da chiarire:

  • Licenza per difendere l’idea. Propongo creative commons: chi vende sensori certificati e ci guadagna deve pagare le royalties previsti dalla legge. Chi li realizza senza fini di lucro ( ad esempio, un istituzione pubblica) e li distribuisce liberamente, no.
  • Il protocollo proof of work che sia leggero e compatibile con la potenza di calcolo disponibile e, nel contempo sia fisicamente agganciato ( tot al km, in qualche modo e non tot al minuto, per evitare che qualcuno vada in bici a passo di lumaca e faccia mining come un atleta in allenamento)è corretta la visone che vede la proof of pedal sufficiente?
  • Costi e modi di realizzare e certificare il sensore “on board”.
  • Lancio dell’idea, media coverage, endorsment politico e sistemico etc etc.

Bibliografia/riferimenti

I certificati verdi ed il loro fallimento https://www.theguardian.com/environment/2009/mar/10/lovelock-meacher-slam-carbon-trading

Stabilità ed affidabilità del Nakamoto consensus: https://eprint.iacr.org/2019/943.pdf

The Social Cost of Automobility, Cycling and Walking in the European Union

StefanGösslingabcAndyChoidKaelyDekkereDanielMetzlerf

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0921800918308097?via%3Dihub

The True Costs of Automobility: External Costs of Cars Overview on existing estimates in EU-27

TU Dresden Chair of Transport Ecology Prof. Dr. Ing. Udo J. Becker Thilo Becker Julia Gerlach

https://stopclimatechange.net/fileadmin/content/documents/move-green/The_true_costs_of_cars_EN.pdf

3 https://www.binance.vision/it/blockchain/what-is-mimblewimble

Mimblewimble cambia il modello tradizionale delle transazioni blockchain. In una blockchain MW, non ci sono indirizzi identificabili o riutilizzabili, quindi tutte le transazioni appaiono ad un estraneo come dati casuali. I dati della transazione sono visibili soltanto ai rispettivi partecipanti. Quindi, un blocco Mimblewimble appare come una grande transazione invece di una combinazione di tante. Questo significa che i blocchi possono essere verificati e confermati, ma non forniscono alcuna informazione in merito a ciascuna transazione. Non è possibile collegare gli input individuali ai rispettivi output. Mimblewimble utilizza una funzione chiamata cut-through, in grado di ridurre i dati all’interno dei blocchi rimuovendo le informazioni sulle transazioni superflue. Quindi, invece di registrare ogni input e output (dai genitori di Alice a lei, e da Alice a Bob), il blocco registrerà solo una coppia input-output (dai genitori di Alice a Bob). In breve: Permette a una blockchain di avere una cronologia più compatta, più facile e veloce da scaricare, sincronizzare e verificare.

Inquadramento generale sui DL, blockchains e proof of work https://www.blockchain4innovation.it/esperti/blockchain-perche-e-cosi-importante/

Strategie dissipative

strategie-dissipative
L’enorme debito che ho nei confronti del pensiero di Charles Darwin consiste nell’acquisita consapevolezza che le trasformazioni si verificano sotto la spinta di necessità, non del caso. Le specie viventi, e parimenti le società, non evolvono se non in risposta ad un cambiamento profondo nelle condizioni di contorno. Se tale cambiamento non avviene le specie, le società, restano immobili.

L’umanità ha attraversato senza trasformazioni significative gli ultimi centomila anni, conducendo un’esistenza di cacciatori-raccoglitori, diffondendosi sulla maggior parte delle terre emerse del pianeta e dando vita a forme primitive di organizzazione sociale. Le principali trasformazioni si sono avute negli ultimi diecimila anni, in seguito alla domesticazione di forme animali e vegetali.

L’invenzione di allevamento ed agricoltura ci ha proiettati fuori dall’equilibrio instaurato con l’ambiente naturale, producendo una cascata di trasformazioni ed innovazioni: la regimentazione idrica, l’invenzione dell’aratro e delle prime macchine, la lavorazione di legno e metalli, l’aumentata disponibilità di energia (cibo, quindi lavoro umano ed animale) per comunità organizzate su larga scala.

Questo surplus di risorse ed energia ha prodotto, come conseguenza, i grandi imperi ed i grandi monumenti del passato. Gli imperatori dell’antichità sapevano bene di dover gestire il consumo di queste risorse, altrimenti l’avrebbe fatto qualcun altro al posto loro, e la soluzione al surplus fu l’erezione di monumenti alla propria grandezza, che le popolazioni percepivano come monumenti all’intera civiltà di cui essi stessi facevano parte.

In questa prospettiva è l’aumento di risorse disponibili, la momentanea ricchezza, ad innescare le trasformazioni sociali, a dar vita agli aggregati umani, alle città, ai regni, agli imperi. Ed è la cattiva gestione di questa estemporanea ricchezza, o il suo inevitabile esaurimento spontaneo, a causarne il collasso.

La crisi di una forma di approvvigionamento energetico produce, come diretta conseguenza, la ricerca di una fonte alternativa. Per millenni la forma di lavoro più utilizzata è stata quella muscolare, umana ed animale, che richiedeva come fonte energetica il cibo. A questa forma di forza lavoro si sono via via affiancate altre modalità, meccaniche, in grado di sfruttare disponibilità energetiche diverse da quelle alimentari.

La movimentazione di pesanti macine si è realizzata sfruttando l’energia potenziale dell’acqua in caduta, per mezzo di mulini idraulici. In qualche caso al posto dell’acqua si è usato il vento, già impiegato come propellente per viaggiare sull’acqua per mezzo di vele. Queste applicazioni erano però strettamente legate ai luoghi dove gli impianti risultavano originariamente localizzati.

La progressiva sostituzione nei macchinari delle parti in legno con equivalenti in metallo ha infine condotto alla possibilità di sfruttare una nuova forza lavoro: la pressione del vapore, e condotto all’epoca d’oro di una nuova fonte energetica: il carbone. Le macchine a vapore innescarono la rivoluzione industriale, rendendo disponibili quantità d’energia pro-capite prima di allora impensabili.

Riassumendo: una tribù di cacciatori-raccoglitori ha a disposizione solo la forza lavoro delle singole persone, e questa viene impiegata integralmente per la sopravvivenza e la fabbricazione di semplici utensili. Una città stato agricola ha parte della popolazione occupata nella produzione di cibo, in questo modo producendo un surplus di cibo in grado di alimentare altra popolazione impiegabile in attività accessorie (artigiani, artisti, sacerdoti, scienziati, militari).

Una civiltà industriale in grado di sfruttare fonti energetiche fossili ha una percentuale minima della popolazione impiegata nella produzione di cibo, ed una percentuale ben maggiore impiegata nella produzione di beni. La quantità di beni producibile comporta la necessità di una ulteriore trasformazione culturale e sociale.

Poiché, come già accennato prima, risulta sul breve termine premiato il soggetto in grado di realizzare il massimo consumo di risorse, qualunque civiltà deve sviluppare strategie dissipative in grado di massimizzare i propri consumi. Da un lato per avere un margine di creatività per sviluppare nuove idee e tecnologie, dall’altro per impedire che le stesse risorse siano rese disponibili alle civiltà antagoniste.

Strategie dissipative che hanno prodotto l’opulenza della civiltà egizia prima e romana dopo. Che hanno visto una crisi temporanea nel medioevo dalla quale si è poi usciti con la rivoluzione industriale. L’enorme disponibilità energetica pro-capite resa disponibile dallo sfruttamento petrolifero si è infine tradotta in un modello culturale e sociale improntato al consumo sfrenato.

Come i grandi monumenti del passato, le città imperiali dell’antichità, furono il prodotto di una trasformazione epocale nella disponibilità di risorse, innescata dall’invenzione dell’agricoltura e dalla metallurgia, così l’automobile privata ed il consumismo sono state la risposta ad una disponibilità di energia pro-capite mai verificatasi prima su così larga scala nella storia dell’umanità.

Nella trasformazione culturale che ha accompagnato tale transizione è risultata funzionale l’invenzione di una nuova ‘idea del mondo’ caratterizzata dalla proiezione delle trasformazioni in atto nel vicino e lontano futuro dell’avventura umana. A distanza di diversi decenni potremmo chiederci come stia andando in realtà. La risposta è molto diversa dalle aspettative nel tempo maturate.

Tutta una serie di concause convergono nel produrre una progressiva riduzione della disponibilità energetica pro-capite. In primis la sovrappopolazione, conseguenza inevitabile dell’aumentata disponibilità di risorse, sta aumentando il denominatore dell’equazione più rapidamente di quanto aumenti il numeratore. Detta in maniera più spicciola, se in un arco di tempo la quantità di energia disponibile aumenta del 50% e la popolazione del 100%, alla fine ognuno avrà a disposizione meno energia, anche se il totale prodotto è superiore a prima.

Il secondo problema è che gran parte dell’apparente aumento di produzione energetica è annullato dalla riduzione dell’EROEI. Se anche la produzione mondiale di petrolio aumenta leggermente da un anno all’altro, quello che si riduce è il conto energetico netto, perché man mano che i pozzi si esauriscono l’estrazione di petrolio diventa via via più costosa.

Il terzo problema è che, ad oggi, non sono state individuate fonti energetiche, fossili o rinnovabili, con un bilancio energetico paragonabile a quello del petrolio all’inizio del ventesimo secolo (un valore di EROEI pari ad 1:100, ovvero 100 barili di petrolio estratti al costo di un solo barile). Possiamo mettere in opera centrali solari ed eoliche, ma non arriveremo mai più alla disponibilità energetica pro-capite degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

Il quarto problema è che, al pari delle fonti fossili, anche la disponibilità di materie prime si va riducendo, le miniere sovrasfruttate rendono meno, le terre fertili si impoveriscono e degradano, i costi energetici di produzione aumentano. Queste quattro concause, come i quattro cavalieri dell’apocalisse, rendono ineluttabile un ripensamento delle aspettative globali riguardo alla disponibilità di ricchezza individuale.

La crisi attuale è solo l’avvisaglia di un declino generalizzato nella disponibilità di energia, materie prime e cibo che dovremo fronteggiare nei decenni a venire. Pretendere di affrontarla con gli strumenti culturali del positivismo illuminista, o con l’ideologia della ‘crescita indefinita’, che obnubila ogni analisi di natura economica è, a mio avviso, di una scelleratezza criminale.

Io e il nucleare (ricordando Chernobyl)

(quella che segue è la storia lunga e personale di come il sogno nucleare partorito dagli anni ’50 si sia dapprima intrecciato alla mia vita, quindi lentamente trasformato in un incubo… ho cercato di evitare il solito post tutto dati ed informazioni, chi desideri approfondimenti li troverà nei link inseriti nel testo)

All’inizio degli anni ’70 ero uno spigliato, precoce e solitario bimbetto. Avevo iniziato a leggere intorno ai tre anni e non mi ci era voluto molto per bruciare le tappe fumettistiche più classiche. Al mondo Disney (Topolino) era seguita la fase western (Tex) e a sette anni (!) ero ormai pronto a catapultarmi nello sfolgorante mondo dei supereroi (Superman, L’Uomo Ragno ed innumerevoli altri).

In questi mondi di fantasia accadeva che dei tizi a caso venissero investiti dagli effetti delle radiazioni, e che queste radiazioni producessero abilità strabilianti: super forza, la capacità di volare, di camminare sui muri, invisibilità e molto altro ancora. “Queste radiazioni devono essere la cosa più figa dell’Universo!” pensò quel me stesso infante. Fu così che crescendo decisi di capirne di più.

L’arco didattico della scuola dell’obbligo non mi aiutò molto, in compenso a quattordici anni ero già un accanito lettore di narrativa fantascientifica, da cui traevo nozioni confuse e difficilmente verificabili. Nel tempo che Mondadori impiegava a mandare in edicola un nuovo volumetto di Urania io ne avevo già divorati quattro o cinque, spazzolati sulle bancarelle dei mercatini dell’usato. Il mio sogno era di fare lo scienziato, ma prudenza ed indicazioni familiari mi fecero optare per una scuola tecnica (che comunque non mi precludeva l’iscrizione all’università).

Fu credo intorno al primo anno di Istituto Tecnico che nella biblioteca dell’ITIS Galileo Galilei trovai un libro intitolato “Fisica delle particelle”, testo che cominciò a dare concretezza a materie che avevo fin lì approcciato solo sotto forma di narrativa ‘pulp’.
(ne trovai anche un altro della stessa collana: “Dalla Terra alla Luna” di Paolo Maffei, che avviò il mio percorso di astronomo dilettante, ma questa è un’altra storia…)
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“La Fisica delle Particelle” mi chiarì quello che volevo veramente diventar: non un generico ‘scienziato’, bensì un fisico. E quale opportunità migliore per approcciare la facoltà di Fisica che non il percorso di studi in ‘Energia Nucleare’? Finito il biennio a Roma mi iscrissi per la specializzazione all’ITIS E. Fermi di Frascati (patria del vino e casa del Sincrotrone italiano).

Il percorso di studio sostituì all’iniziale entusiasmo una sobria diffidenza. Compresi una volta per tutte che le radiazioni non danno i superpoteri, ma hanno invece tutta una serie di ricadute non esattamente positive che vanno dall’avvelenamento da radiazioni al cancro nelle sue varie forme. Scoprii che al personale delle centrali viene fornito un ‘dosimetro’ per misurare la quantità di radiazioni assorbite in modo che non ecceda i limiti di legge (limiti comunque arbitrari). Anche l’incidente alla centrale americana di Three Mile Island contribuì a gettare un’ombra lugubre sull’intera faccenda.

Nell’estate dell’83 mi diplomavo col pigro voto di 51/60, fermamente convinto a non cercare impiego in una centrale nucleare. Mi iscrissi a Fisica, dove tuttavia entrai ben presto in rotta di collisione con la trattazione formale. Nel frattempo la mia sfera d’interessi si era ampliata, e la fisica cominciava a starmi stretta. Passai un paio d’anni inconcludenti all’università dove la cosa che imparai meglio fu il freesbee, quindi nel dicembre dell’85 partii per il servizio di leva, all’epoca obbligatoria.

Il disastro di Chernobyl nella primavera dell’86 mi colse ‘in pieno’. Non solo ero stato spedito nella regione italiana che subì il peggior fallout della nube radioattiva (il Veneto), ma in quei giorni il Comando Brigata ebbe la brillante idea di organizzare un campo di addestramento NATO nel bel mezzo dei boschi friulani. Passai una settimana di full-immersion nella natura ad inalare cesio 137.
(potete trovare un’efficace e sintetica ricostruzione dell’incidente sul blog di ASPO-Italia)

Fu così che, quando un anno dopo venne indetto il referendum per l’uscita dell’Italia dal piano energetico nucleare votai convintamente per chiudere il discorso. Consideravo ormai il nucleare una tecnologia che a fronte di modesti vantaggi (produzione di elettricità a prezzi concorrenziali) esponeva la collettività a rischi enormi. Tuttavia continuai negli anni a documentarmi, integrando in parte la formazione scolastica con tutta una serie di nozioni che all’epoca il piano di studi non prevedeva mi fossero fornite.

In primis la questione delle scorie. Negli anni ’80 il problema delle scorie poteva dirsi ‘non ancora’ risolto. Quarant’anni dopo posso serenamente affermare che il problema dello stoccaggio delle scorie ‘non è risolvibile’, almeno all’interno delle forzanti economiche del libero mercato. Lo smaltimento finale delle scorie non è di per sé impossibile, è semplicemente troppo costoso ed incerto sulla scala di tempi geologica dettata dai tempi di dimezzamento degli isotopi. Costoso al punto da rendere già in partenza scarsamente profittevole l’energia prodotta.

Il discorso scorie porta con sé una questione che negli anni scolastici non fu mai affrontata, ovvero il fatto che, oltre al carburante nucleare esausto, a fine vita della centrale l’intero edificio è ormai radioattivo. In qualche caso talmente radioattivo da non consentire i margini di sicurezza per il lavoro degli operatori. Gli edifici diventano così ‘scorie nucleari a bassa intensità’. Da smaltire. Non si sa come.
(sempre su ASPO-Italia un’analisi dei costi correlati al ‘decommissioning’, per quelli che amano formule e numeri)

Ci si potrebbe a questo punto domandare il perché dell’avventura nucleare. Una delle tesi più attendibili, in base alle informazioni che sono riuscito a mettere insieme, è quella dell’impiego bellico dei sottoprodotti del nucleare civile. In sostanza la produzione energetica in sé sarebbe un ‘mascheramento’ del reale interesse, consistente nella produzione di plutonio per le testate atomiche, un materiale non più presente in natura perché interamente decaduto. Questa tesi è riemersa recentemente nel dibattito sul piano nucleare iraniano (un paese produttore di petrolio che non ha realmente bisogno di produrre energia da fonti nucleari). Non avendo l’Italia un proprio piano di armamenti nucleari è stato relativamente facile per noi fare a meno anche del nucleare civile.

Un’altra interpretazione chiama in causa il cosiddetto ‘capitalismo di rapina’, che consiste nello sfruttamento terminale delle risorse lasciando i danni in eredità ai posteri. È un sistema ben spiegato dal solito Jared Diamond (in “Collasso”) relativamente alle miniere aurifere del Montana. In teoria la legislazione prevede che le imprese minerarie si facciano carico della riconversione ecologica del sito al termine del lavoro estrattivo (spesso effettuato con prodotti chimici velenosi). In pratica le imprese dichiarano fallimento quando la vena non è più redditizia, senza aver provveduto ad alcun lavoro di riparazione.

Cosa resta, ad oggi, del ‘sogno atomico’? Poco o nulla. L’incidente di Fukushima in Giappone ha spazzato via gli ultimi onesti entusiasti, lasciando a difendere questa tecnologia dannosa ed obsoleta solo più i ‘portatori di interessi’. La rete ci ha poi portato in casa i video girati nei distretti abbandonati, scene di desolazione che nessuno vorrebbe filmare a casa propria. Non esiste un’altra modalità di produzione energetica in grado di causare disastri tanto estesi.

Il problema di fondo è che le radiazioni sono invisibili. Non abbiamo sensi in grado di individuarle semplicemente perché la vita non ha dovuto averci a che fare. Nell’arco dei tempi geologici gli elementi instabili presenti nella crosta terrestre all’epoca della sua formazione hanno avuto tutto il tempo di decadere e perdere la propria radioattività prima che gli esseri viventi reclamassero il pianeta. Esiste ugualmente un fondo di radiazione naturale, ma è estremamente basso.

Quello che ha fatto l’umanità, dagli anni ’50 ad oggi, è stato recuperare il poco materiale fissile diluito negli strati geologici, concentrarlo, farlo reagire per produrre altro materiale radioattivo irradiando atomi stabili, concentrare e moltiplicare la presenza di sostanze rare che in molti modi nuocciono ai processi vitali. Il tutto per produrre armi di distruzione di massa ed una minima frazione percentuale dell’elettricità che circola nelle nostre case.

L’apoteosi di questo sogno prometeico sono i reattori cosiddetti ‘autofertilizzanti’, nei quali uno dei sottoprodotti del processo è ulteriore materiale fissile, ottenuto esponendo isotopi non fissili agli intensi flussi di neutroni prodotti dalle reazioni nucleari. Anche in questo caso la pratica è apparsa differire molto dalla teoria: l’unico impianto di produzione autofertilizzante in Europa, il francese Superphenix, è stato chiuso nel 1997 a causa di una serie di incidenti minori con rilasci radioattivi nell’ambiente.

Da ultimo la fusione nucleare, tecnologia inseguita per decenni che, a detta dei suoi esegeti, avrebbe dovuto produrre energia illimitata e pulita per mezzo di un processo che non dovrebbe produrre isotopi pesanti. A cinquant’anni dai primi esperimenti gli esperimenti sui reattori a fusione continuano ad ingoiare fondi per la ricerca e a non raggiungere neppure il pareggio energetico (il punto nel quale la quantità di energia generata è pari a quella assorbita dal macchinario). Le analisi più recenti descrivono problemi di instabilità del fenomeno apparentemente non risolvibili che crescono di scala all’aumentare del dimensionamento dell’impianto.

In realtà disponiamo già di un reattore a fusione nucleare in grado di fornire enormi quantità di energia con estrema continuità, oltretutto collocato in una posizione dalla quale non rischiamo contaminazioni o rischi di processi esplosivi. È il Sole. Irradia energia da circa quattro miliardi di anni, è stato il motore primo della vita sul nostro pianeta e ad oggi abbiamo le tecnologie per trasformare tutta quest’energia che ci piove addosso ogni giorno in forme utilizzabili per le nostre esigenze: i pannelli fotovoltaici. Tecnologie semplici, economiche, non inquinanti, che hanno un solo grave difetto: non sono in grado di concentrare potere e ricchezza in poche mani. Se fossimo una specie realmente intelligente lo percepiremmo come un innegabile vantaggio.

Il fotovoltaico, l’EROEI e le bufale, parte seconda

grafico costo WpDicevamo che il pannello da 220 Wp che abbiamo preso ad esempio, installato dalle parti della Lavandaia ( Firenze) immetterebbe in rete circa 286 kWh/anno.

E nella sua vita media?

Beh, anche qui dipende dal valore che adottiamo per la sua vita media. Di solito si assume 25 anni ma molti parlano di 30. Questo perché i pannelli installati 30 anni fa funzionano ancora, sia pure con una potenza ridotta di circa il 30%.

Considerando il degrado nel tempo, le rotture etc etc, la Lavandaia assume un valore pari alla garanzia del costruttori, che solitamente è di 20 anni.

Quindi il pannello in questione produrrà circa 286*20=5720 kWh, in 20 anni.

Per capirsi, è l’energia contenuta in circa tre barili di petrolio e spiccioli. In termini di emissioni evitate per la produzione di energia elettrica, questo dipende ovviamente dal paese in cui è installato In Italia possiamo valutare un valore equivalente circa doppio, 6 barili di petrolio.

Quanto fa 5720/154?

37. Questo è l’EROEI del pannello in quanto tale. Poi ovviamente dobbiamo considerare il suo smaltimento, la manutenzione etc etc.

Fate quel che volete ma non arriveremo MAI ai valori tipici di letteratura, da 6 a 10 o, se per quello ai valori da 2 a 3, di alcuni veri e propri negazionisti delle rinnovabili.

Capite bene che, di fronte a questi dati, certi articoli, purtroppo scritti da persone teoricamente non schierate contro le rinnovabili o appartenenti a qualche lobby, nonostante tutta l’artiglieria accademica, sono destituiti di QUALUNQUE credibilità

Anche perché, dal 2013, data dell’articolo da cui ho estratto i dati citati , i pannelli in commercio hanno aumentato la loro efficienza, gli spessori si sono assottigliati, si sono diffusi materiali diversi dal silicio (i panelli in CD-Te hanno costi energetici circa dimezzati per il combinato disposto di vetri più sottili, assenza di cornici in alluminio e film estremamente più sottili).

Non solo: come avete visto, la maggior parte del costo energetico è legata al vetro ed alluminio. Due materiali perfettamente riciclabili.

Visto che le regole per la fine vita dei pannelli sono rigidissime (chiedete ad un produttore di energie rinnovabili per chiarimenti) possiamo dare per CERTO che tali materiali non solo potrebbero ma SARANNO riciclati.

Quindi restano poche decine di kWh, alla fine, quelle per le plastiche ed il silicio che purtroppo non è recuperabile, con la necessaria purezza e deve quindi essere prodotto ex novo per ogni pannello.

QUINDI, di nuovo, il valore trovato, 37, tenendo conto del riciclo OBBLIGATORIO del vetro e dell’alluminio è una stima PER DIFETTO:

Ora, la cosa va messa in prospettiva: un EROEI di 30 o più è migliore di quello della maggior parte degli attuali giacimenti petroliferi. in sostanza per un barile di petrolio cavato OGGI, tenendo conto dell’energia consumata per la ricerca, lo sviluppo il mantenimento delle attività estrattive è situata da qualche parte tra 5 o meno (scisti sabbie bituminose etc etc) e 80, per i giacimenti storici degli anni 60.

Per quelli in sviluppo ora, siamo intorno a 20, nei casi migliori.

Ragionevolmente, con l’esaurimento progressivo dei vecchi giacimenti giganti, l’EROEI del petrolio si avvicinerà a questi ultimi valori.

In pratica GIA’ OGGI possiamo dire che il fotovoltaico è una delle migliori forme di investimento energetico e la cosa è destinata decisamente a migliorare, dove si tenga conto dei nuovi materiali nuove tecniche di produzione e riciclo.

Non escluderei che si possa arrivare a valori pari o superiori a quelli del petrolio dei bei(?) tempi eroici.

Volete una verifica empirica e puramente monetaria?

Anche per un numero ridotto i pannelli si vendono QUI, in Italia al dettaglio, a poco più di 500 euro/kWp. In India stiamo a 400 euro/kWp.

SE avessero ragione quelli che sostengono EROEI così basse ci vorrebbero circa 2000 kWh per produrre UN pannello.  Del costo di circa 100-120 euro.

Visti i costi dell’energia elettrica nel mondo, ANCHE IN CINA ci vorrebbero circa 150-200 euro solo di bolletta energetica per produrre un pannello. E quindi?

QUINDI, è ovvio, l’energia non può essere che una componente del costo del pannello. Se consideriamo un costo industriale all’origine pari alla metà del prezzo di vendita, 60 euro, ecco che l’energia deve essere una quota di questo costo, ad esempio la metà.

30 euro sono, in Cina, da 400 a 300 kWh. Come si vede, è una stima LARGAMENTE abbondante. E’ probabile che, attualmente, l’energia non sia più la componente principale di costo di un pannello fotovoltaico.

Eppure, anche così, corrisponde ad un EROEI 15-20, sempre il doppio della letteratura.

Forse è tempo di aggiornarla, questa letteratura?

Il fotovoltaico l’EROEI, le bufale e la lavandaia

lavandaia presepePotreste averlo letto, in qualche forma:

  • il fotovoltaico consuma più energia di quanta ne produca ( bufala scaduta, non si azzarda più nessuno)
  • il fotovoltaico ha consumato più energia di quanta ne abbia prodotta ( bufala più sottile, prossima scadenza, di moda fino ad alcuni anni fa, cfr. ad esempio, questo link, che si basava su una crescita stellare della produzione mondiale e su dati di stima ultravecchi per i costi energetici di produzione).
  • Ci vogliono anni di tempo perché un pannello, specie se prodotto in Cina, ripaghi il debito energetico ed ambientale ( CO2 emessa, etc etc) contratto per costruirlo. Ecco QUESTA è anch’essa una bufala, purtroppo fatta propria anche da qualche ambientalista e climatologo insospettabile. Come tale meritevole di un approfondimento e sbufalamento adeguato.

Come stanno Le cose, DAVVERO? Intanto  il calcolo dell’EROEI, ovvero dell’Energia prodotta in rapporto a quella investita per produrla, per una data fonte di energia è una questione complessa, che dipende dagli assunti che si fanno e da quanto si allarga l’orizzonte temporale e lo scenario all’interno del quale si considerano i flussi energetici. Vale, ad esempio, l’energia consumata nelle guerre per il petrolio, quando si calcola l’EROEI di un barile? E il costo energetico degli ingorghi? e il carburante consumato dalle petroliere?  Capite bene che, allargando il cerchio a sufficienza, si può provare tutto d il contrario di tutto.

Fortunatamente, per il fotovoltaico, la cosa è relativamente più semplice. Perché un pannello è composto di relativamente poche parti e di queste ancora meno sono quelle significative per il calcolo del suo costo energetico.

Compito quindi per la lavandaia, che indossato un grembiulino pulito e la cuffietta, si mette all’opera.

Intanto un pannello fotovoltaico da cosa è costituito?

Limitiamoci ai più diffusi, basati sul silicio.

Un pannello, potrete vederlo, tra i tanti possibili, a questo interessante link, punto 8 (che tra l’altro chiarisce un’altra questione spesso sollevata, quella del riciclo dei pannelli a fine vita) è costituito da

-vetro

-silicio

-alluminio

-rame

-plastiche

Nel dettaglio, tratto dal documento citato e riferito ad un pannello in silicio 220 Wp ( attualmente un pannello del genere è da 250-270 Wp) su 18 kg di peso del modulo abbiamo:

1,76 kg alluminio

14,41 kg di vetro

0,85 kg di silicio

0,77 kg di plastiche ( tedlar)

70 grammi di cavo di rame.

altri materiali:

140 grammi.

Fino a qualche anno fa produrre il silicio era una cosa rognosa ed energeticamente dispendiosa, centinaia di kWh per ogni kg di silicio . Il progresso della tecnica, unito al fatto che per il silicio da utilizzare nei pannelli non è necessaria una purezza spinta, al contrario di quello per l’elettronica, ha portato a ridurre moltissimo questi consumi. Ecco perché gli studi fatti su dati vecchi anche solo di pochi anni, sono irrimediabilmente superati dalla realtà

Cominciamo quindi dal silicio: molti testi che calcolano un EROEI tra 7 e 10per il fotovoltaico”classico” policristalino, riportano un valore superiore a 100 kWh/kg di silicio. Non è più così. Visto che il processo usato è stato ampiamente commercializzato dalla Siemens, ecco i valori ATTUALI per produrre il silicio con i nuovi processi, per un reattore siemens. 45 kWh/kg

E il vetro? da poco più 6 a 3 kWh/kg ( se di recupero)

E l’alluminio? circa 13 kWh/kg (6 se di recupero)

E il rame? Circa 13 kWh/kg

E le plastiche? valori variabili ma intorno a 6kWh/kg

Trascuriamo gli altri materiali, in quanto non specificati  ( comunque pochi etti)

QUINDI: per produrre un pannello da 220 Wp ci vogliono circa

86 kWh per il vetro

38 kWh per il silicio

23 kWh per l’alluminio

5 kWh per le plastiche

1 kWh per il rame

1 kWh per gli altri materiali ( valore medio dei materiali sopracitati con esclusione del silicio)

Totale?

154 kWh.

In un anno un pannello da 220 Wp, alla latitudine dove abita la lavandaia di Via dell’Oche, nel clima italico, immetterà in rete circa 1300 volte la sua potenza di targa. ovvero 1300*0.220= 286 kWh.

286 kWh !!!

( continua)

Perché si? Perché no!

image

L’avete già capito. E ve l’aspettavate. Noi di Crisis da sempre siamo per uscire dal petrolitico, l’era del petrolio bruciato. Da sempre siamo per uno sviluppo accelerato delle energie rinnovabili e di una economia evolutiva, ovvero re distributiva e non della crescita. Per l’abbandono del concetto di consumatore, base, manco a dirlo del consumismo e inesorabilmente dell’economia del debito. QUINDI è ovvio che, in merito al prossimo referendum, siamo per votare sì, per tutti gli ottimi motivi esposti da tutti i fautori del si. Do per scontato che sappiate di cosa si tratti. In fondo siamo su Crisis, mica su casabella&cento cose cool della prossima estate.

Quindi: perché votare sì? Perché no. Non è una buona idea continuare a cavare petrolio nei nostri mari. Ma questo, già ve l’hanno detto.

Bene. Ok. E ALLORA?

Allora, per dare un contributo un filo controcorrente, mettiamoci, per un attimo, il cappello con su scritto: i love oil.

Bene: se ami davvero il petrolio, se trivellare madre terra e’il tuo personale modo di interagire con il mondo in mancanza di donne, se conservi con amore una fiala di petrolio di Gawar, beh, proprio in questo caso, perfino in questo caso, il tuo amatissimo petrolio lo dovresti lasciare sotto terra. Intanto perché bruciare una cosa preziosa ed indispensabile come il petrolio, una cosa dalla quale si fanno fertilizzanti, medicine e la base plastica del tuo civilizzatissimo mondo, e’ da idioti. Eh sì, perché oltre i due terzi del petrolio viene bruciato subito, ho idea che lo sappiate, ed il terzo rimanente, venendo riciclato in minima parte,  finisce comunque bruciato, con grande gioia degli alveoli polmonari di qualche vivente nei dintorni.

Che peccato, no, per chi ama tanto il petrolio, il mistero della sua origine, il suo ancestrale olezzo di distillato invecchiato milioni di anni in geo barrique? E poi, non è certo un grande affare. Trivellare e produrre oggi significa rinunciare ai due terzi, forse all’80%, dei guadagni possibili. Perché il prezzo del barile( e quindi del metro cubo di metano) risalirà, statene certi e risalirà a livelli ancora più alti di quelli rivisti negli anni passati. Conviene, quindi, lasciarlo dormire sottoterra. Tenerselo buono buono per un decennio o due. Magari cinque o sei. Sarà un affare migliore tirarlo fuori quando sarà finalmente compreso, l’oro nero. Quando a nessuno passerà più per la testa di bruciarlo o sprecarlo.  Quando il suo costo al litro sarà più alto di quello di un litro di buon rosso di carmignano.

Si vabbe, torna sulla Terra, dai.

Hai ragione, coraggioso lettore di Crisis ed eccomi di nuovo qui.

Restando tra di noi mi pare ancora più semplice. La produzione metanifera e petrolifera nostrana, mai lontanamente in grado di renderci autosufficienti, e’ da anni in forte calo, per puri motivi di sfiga geologica. Abbiamo una geologia vivace e piuttosto attiva ed interessante nel senso della maledizione cinese e questo mal si accorda con succulenti giacimenti. Far fuori il poco che resta non è quindi una buona idea in termini strategici. Non supereremo mai la produzione attuale, che vale qualche per cento dei nostri fabbisogni. Quindi tanto vale aspettare quando, in un futuro, avremo fortemente ridotto la nostra dipendenza dalla combustione di krill morto milioni di anni fa.

La stessa identica produzione di petrolio e metano  sarà allora una percentuale assai più importante dei nostri fabbisogni e darà un contributo proporzionalmente maggiore al benessere della nostra bilancia dei pagamenti.

Eh, ma i posti di lavoro…nessuna paura.

Se c’è un settore che non conoscerà crisi se non momentanee e’quello delle estrazioni. Tocchera’ girare il mondo, certo. Ma l’hai scelto tu, bellezza, un ben remunerato lavoro di merda. E poi…andiamo, non si può usare la stessa scusa tutte le volte. L’hanno già usata per il salvataggio di Banca Etruria, degli&dagli amici babbioni del babbino della madrina della madre di tutte le riforme costituzionali…

Il picco delle risorse

Di Jacopo Simonetta.

A giorni ci sarà un referendum che riguarda, sia pure in modo molto marginale, la principale delle nostre risorse: il petrolio!

Il picco del petrolio di buona qualità ed a buon mercato è stato nel 2005.   Quello di tutte le forme di energia fossile è probabilmente adesso perché il picco del petrolio si porta dietro, necessariamente, il picco di tutte le altre risorse.   Comprese quelle rinnovabili, che sfruttiamo in gran parte proprio grazie al petrolio

Al link qui sotto è possibile vedere le diapositive dell’incontro del 9 aprile 2016 dal titolo: Referendum 17 Aprile, una goccia nel mare.

picco delle risorse

 

Il picco delle risorse

La Fiat ha chiuso. E nessuno se ne è accorto

pannello fotovoltaico distrutto…?!! Possibile?

No ovviamente sto parlando del settore delle rinnovabili che, negli ultimi tre anni, grazie alle ottime politiche ambientali dei governi Monti Letta e Renzi, ha perso 27.000 posti di lavoro, come potrete vedere da soli in questo documento.

27000 posti di lavoro ( senza contare il cosidetto indotto) è qualcosa di più degli occupati attuali italiani della FCA.

FCA che peraltro ha perso, in 10 anni quasi la metà della sua forza lavoro.

Non c’e’ che dire: siamo chiaramente fuori dalla Mamma di tutte le Crisi e tutto va benissimo sora la marchesa.

 

Altra tegola per il fotovoltaico: vietato migliorare gli impianti

i nostri pannelli danneggiati dal fortunale del 6 marzo 2015
i nostri pannelli danneggiati dal fortunale del 6 marzo 2015

Ho appena scoperto una nuova tegola che è caduta o sta per cadere su decine di migliaia di piccoli e grandi produttori che hanno deciso, tapini, di migliorare l’efficienza dei propri impianti, a parità di potenza installata.

Infatti, dopo i primi anni di funzionamento degli impianti, vuoi per il miglioramento considerevole nell’efficienza degli inverters e dei sistemi di gestione e controllo, vuoi perché in alcuni casi sono stati installati pannelli rivelatisi difettosi e sottoperformanti, si sta rendendo consigliabile quando non indispensabile la sostituzione parziale o totale dei pannelli e/o degli inverters e/o dei trasformatori e/o di altre parti dell’impianto, oppure l’installazione di sistemi di monitoraggio e gestione avanzati.

Questi interventi possono portare aumenti considerevoli della producibilità per kWp installato, anche superiore al 10-15%.

Nel recente documento “regole per gli incentivi del conto energia”,  il GSE sferra un ennesimo immotivato e del tutto illogico attacco ai produttori fotovoltaici che volessero cercare di migliorare l’efficienza dei proprio impianti o che, semplicemente, si trovassero nella necessità di recuperare l’efficienza di un impianto degradato per motivi atmosferici o per difettosità dei materiali.

Infatti si legge, a pagina 11, punto 1.5 la seguente:

1.5 Interventi di modifica della configurazione elettrica

Sono ammessi gli interventi che comportano l’inserimento di nuovi componenti o l’eliminazione di componenti esistenti laddove ciò sia necessario al fine di adeguare l’impianto all’evoluzione della normativa tecnica relativa al collegamento alla rete e all’esercizio in sicurezza.

Sono inoltre consentiti gli interventi volti a mantenere in efficienza l’impianto o a garantirne un corretto rendimento, quali, ad esempio, l’installazione di dispositivi (cosiddetti “ottimizzatori ?) che permettono di ridurre perdite di produzione dovute al non uniforme ombreggiamento dei moduli o alla diversità delle caratteristiche elettriche dei moduli.

Considerato che la realizzazione dell’intervento comporta un incremento della producibilità dell’impianto, il GSE, come già precisato in Premessa, erogherà gli incentivi spettanti nei limiti della soglia massima di energia incentivabile, calcolata come rappresentato nell’ Appendice A del presente DTR.

La modifica della configurazione elettrica non potrà comportare, in nessun caso, un incremento dei benefici economici riconosciuti, se non previsto dalla normativa di riferimento.

Già questo è un obbrobrio!! Infatti ALCUN limite è mai stato posto in tutta le legislazione dedicata, alla producibilità degli impianti: La regola era ed è: ogni kWh prodotto ( a norma, ovviamente) viene incentivato secondo la tariffa incentivante vigente al momento dell’allaccio.

Il GSE NON PUO’SOSTITUIRSI ALLO STATO NELLO STABILIRE COSA VIENE INCENTIVATO E COSA NO!!!

Ma il peggio arriva con la lettura dell’Appendice A!!!!

…..In considerazione del limite previsto dei 6,7 miliardi di euro annui, per gli interventi sugli impianti incentivati in Conto Energia che comportano incrementi della producibilità oltre la soglia massima descritta nel seguito, si provvederà alla valorizzazione:

• di tutta l’energia elettrica immessa in rete, nella disponibilità del produttore, attraverso il Ritiro Dedicato, lo Scambio Sul Posto o la vendita al mercato libero;

• dell’energia elettrica eccedente la soglia*, nei casi di incentivazione tramite tariffa onnicomprensiva, alle condizioni previste dalla deliberazione 343/2012/R/efr per l’energia elettrica non incentivata.

Ora: stabilire una SOGLIA di incentivazione, laddove i contratti siglati al omento dell’allacciamento degli impianti non ne stabilivano alcuna, è OVVIAMENTE una modifica unilaterale dell’accordo, facilmente impugnabile con i consueti danni per la collettività quando il giudice darà torto al GSE ( esodati anyone?).

Inoltre il riferimento alla deliberazione 342/2012 sembra del tutto capzioso.

Infatti in quella delibera si fa riferimento agli impianti POTENZIATI,

che è cosa del tutto diversa da impianti rinnovati!!

il tocco finale è dato dal calcolo di questo valore soglia!!!

 *Il valore di soglia è calcolato come segue:

• nel caso di impianti con decorrenza dell’ incentivo di almeno tre anni solari (1° gennaio – 31 dicembre), è pari al valore massimo di energia prodotta, su base annua, negli ultimi di tre anni solari di decorrenza dell’incentivo antecedenti alla realizzazione dell’intervento di modifica, incrementato del 2% .

 • nel caso di impianti con decorrenza dell’incentivo inferiore a tre anni solari, è pari al valore di producibilità determinato a partire dalla stima delle ore di produzione regionali di cui alla Tabella 1 (“Stima regionale ?”) del decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, 16 ottobre 2014. La Tabella 1 viene aggiornata e pubblicata dal GSE sul proprio sito internet entro il 31 luglio di ogni anno N, utilizzando le ore medie di produzione degli impianti fotovoltaici incentivati, differenziate in funzione della Regione italiana di localizzazione e calcolate sulla base delle misure valide dell’anno N-1, disponibili al 30 giugno dell’anno N. Per i soli impianti fotovoltaici a inseguimento, si considera il valore di producibilità attesa utilizzato per il calcolo del costo indicativo cumulato annuo degli incentivi in conto energia”

E’ chiaro che, per impianti che hanno avuto una difettosità

dall’origine, il valore soglia verrà ad essere calcolato su una

produzione falsata al ribasso!!!

Non si creda che sia raro: , MOLTO spesso e comunque MOLTO più

spesso di quanto si creda, un impianto fotovoltaico installato 3 o 4

anni fa non raggiunge che lo 80-85% della producibilità possibile

utilizzando lo stato dell’arte della componentistica attuale.

Questo per il combinato disposto di realizzazioni approssimative, pannelli di dubbia qualità, inverters starati, cablaggi sottodimensionati, dispersioni, rotture, etc etc etc.

Buona parte degli ex-installatori che ancora operano nel settore riescono a farlo proprio lavorando all’ efficientamento degli impianti installati. Una cosa, non c’e’ bisogno che lo ricordi, che va OVVIAMENTE nella direzione del superiore interesse collettivo.

In poche parole: il GSE si è arrogato il diritto di decidere LUI, cosa e quanto incentivare. Una cosa che è intollerabile e, peggio ancora, espone il paese ad un flusso di cause e ricorsi che hanno ottime possibilità di spuntare notevoli risarcimenti, con costi diretti per il sistema paese e per la collettività.

In ogni caso, a parte le OVVIE considerazioni in termini di Diritto, questa delibera sembra concepita per scoraggiare ogni adeguamento degli impianti dal momento che ridurrebbe i vantaggi ad un precostituito 3% per gli impianti già allacciati da almeno 3 anni o, addirittura, ad una tabella che riporta producibilità RIDICOLE rispetto all’attuale stato dell’arte.

Ad esempio , caso personale: per la Toscana è riportata, in tab 1, poco più di 1100 ore equivalenti annue, quando, è ben noto agli operatori, i rendimenti reali ed attuali sono almeno di un 20% più

alti. I nostri impianti, che sono appunto bisognosi di una sostituzione

dei pannelli che hanno una performance ridotta a poco più dell85% di quella nominale, hanno non di meno prodotto oltre 1250 kWh/kWp in questi ultimi tre anni. I nostri vicini stanno oltre i 1350 kWh/kWp.

Quelli che hanno installato gli impianti da meno di tre anni non hanno alcuna convenienza ma anzi solo un danno in caso di modifiche migliorative agli impianti.

E’ UNA VERGOGNA DA DENUNCIARE SUBITO!!!

Una bella interrogazione parlamentare?

Invitare per chiarimenti in commissione bilancio il Presidente e l’Amministratore delegato del GSE?

Anyone, anyhow, anywhere?

Picco del petrolio e picco dell’oro: tempo di ammissioni

ziopaperone dollari

Se leggete un articolo qualunque da una fonte qualunque sul tema: oil shale, fracking, tight oil&compagnia cantante, una delle prime cose che vi dira è che il crollo dei prezzi attuali è dovuto alla sovrapproduzione, causata dalla massiccia ondata di petrolio in arrivo dallo sforellamento compulsivo chiamato fracking. Non è che non sia, strettamente parlando, vero: l’economia mondiale ha rallentato, le energie rinnovabili cominciano a produrre quote crescenti di energia elettrica e, in buona sostanza, la domanda di petrolio è aumentata ma non quanto l’offerta. Che il petrolio sia estremamente reattivo alle oscillazioni domanda/offerta, è cosa nota. I prezzi sono decisi dall’ultimo barile venduto e l’ultimo barile venduto è anche quello più caro. Bastano piccole oscillazioni nella domanda per provocare grandi oscillazioni nei prezzi. In sostanza oltre i due terzi della produzione derivano da pozzi a costi di estrazione relativamente bassi, per lo più in giacimenti noti e sfruttati da decenni. I pozzi di nuova realizzazione, e fra questi, ovviamente, quelli che utilizzano il fracking, vanno a coprire solo gli ultimi % della domanda e possono funzionare solo a prezzi del petrolio oltre i 60-80 dollari. Fin qui tutto chiaro. Ora viene però la parte interessante: come saprete, se no non sareste lettori di crisis , sono dieci anni che aspo ed un po tutti noi conduciamo una (quasi) solitaria battaglia per vedere riconosciuto in primo luogo il concetto stesso di peak oil ( battaglia quasi vinta, ad onor del vero) in secondo luogo il fatto che il peak oil è prossimo e produrrà effetti imponenti sulle economie di tutto il mondo, costituendo un vero e proprio spartiacque nella storia economica e sociale dell’umanità.

Ecco: questa seconda parte, visto quel che implica a livello di scenari, è quella che i media main stream si rifiutano di avvallare ed anzi irridono, minimizzano, combattono confutano, dispregiano etc etc. Si direbbe che l’attuale crollo dei prezzi renda ancora più difficile il compito di aspo e più ardua la battaglia per far valere i suoi dati, scenari e proiezioni. Ed in effetti MOLTI, come vedete dai links, hanno scritto della fine del peak oil.

Il punto è che non solo le cose non stanno cosi ma presto, MOLTO PRESTO, gli stessi produttori dovranno, ripeto DOVRANNO ammettere ed anzi far proprio il concetto di peak oil. Perchè? per gli stessi motivi per cui lo stanno facendo i produttori d’oro! A causa dell’analogo crollo deli prezzi, ridotti a poco più della metà di qualche anno fa, l’oro è estratto in perdita o con guadagni estremamente marginali in buona parte delle miniere mondiali. Chiudere una miniera è una operazione estremamente gravosa che si preferisce non fare in quanto i capitali necessari alla sua riapertura sono ingenti e possono superare quelli dell’apertura di una miniera nuova. Quindi si preferisce, per ora, produrre in perdita o quasi, pur di mantenere la capacità estrattiva, contando su un aumento della domanda; o meglio: si ASSICURA che la domanda risalirà. Perchè? Perchè l’oro è una risorsa finita e nel 2014 o 2015 dovremmo raggiungere il picco della produzione!!. 

Chi l’ha detto? un poco tutti gli analisti ed operatori in ordine sparso  ma eccone uno per tutti il CEO della piu’ grande società mineraria del settore sul Wall street journal, credo che basti. La cosa è clamorosa, converrete: il peak gold diventa la chiave di volta della strategia di sopravvivenza dei produttori: niente peak gold, niente rifinanziamento da parte degli azionisti, niente Società minerarie del settore. Per sopravvivere devono non solo ammettere ma PUNTARE sul peak gold!

La stessa storia si ripeterà, si DEVE ripetere PRESTO e su scala MOLTO più grande, nel settore petrolifero: l capitali a rischio default, investiti nel fracking, ammontano a trilioni di dollari, un multiplo di quelli messi a rischio dalla famosa crisi dei mutui subprime. SE davvero il picco del petrolio non fosse prossimo, se davvero i “cornupiani” avessero ragione, l’intero settore negli USa sarebbe spacciato. Con lui il sistema bancario americano etc etc etc ( senza contare le centinaia di migliaai di posti di lavoro creati nel settore). QUINDI? Quindi per evitare il panico e/o ottenere finanziamenti da parte della fed, con qualche creativa forma di quantitative easing esiste solo una strada: garantire che i capitali investiti torneranno e on alle calende greche ( i pozzi hano durate limitate, ne caso dle fracking). C’e’ un solo modo, ammettere, prima a denti stretti poi a a voce alta, poi urlandolo a squarciagola che…che che… IL PEAK OIL E’ UNA REALTA’!!