CONFINI 4 – Confini politici

Ultimo di quattro post.   Per le puntate precedenti, si veda qui, qui e qui.

matrioskeLe comunità umane possono essere considerate, fra i tanti altri modi,  come dei sistemi ed hanno infatti dei confini, sia pure di tipo molto diverso (spesso immateriali) a seconda del tipo e del livello di complessità della società.   In ogni caso, occorre ricordare che l’esistenza e la funzionalità dei confini comporta dissipazione di energia.  In termini economici, allocazione di risorse.
Confini più ampi sono anche più costosi in termini assoluti, ma magari meno in rapporto alla loro estensione.   Inoltre, contengono sistemi più capaci di estrarre risorse e scaricare entropia  “fuori” da se stessi.
Confini meno permeabili, sono parimenti più onerosi, ma più efficaci nel controllare i flussi.  Ecco quindi che, al di la dei nostri desideri, la posizione e la natura dei confini deve essere necessariamente articolata e dinamica, riflettendo la costante evoluzione del sistema che contengono e dei rapporti di questo con ciò che interagisce con esso.

I confini politici

Oggi, il tipo di organizzazione sociale principale è quello statale ed i confini sono perlopiù quelli ereditati dal XIX secolo, con qualche aggiustamento conseguente le guerre successive.  Questo livello di integrazione è solo uno dei molti possibili e, comunque, al suo interno comprende altri livelli (regioni, provincie, comuni, ecc.).   Livelli superiori agli stati sono invece alleanze, accordi commerciali, ecc.    Sono inoltre attive numerose organizzazioni sovra-statali, come EU o addirittura globali come ONU, FMI, OMS, OUA, WB, WTO ed altre ancora.

Ad ogni livello organizzativo, corrisponde una diversa funzione ed un diverso set di sistemi di controllo.  Uno dei compiti principali di una classe dirigente è quindi quello di decidere dove e come dovrebbero essere i vari tipi di confine che disegnano le nostre società.   Una scelta difficile che dovrebbe tener conto, a mio avviso dei seguenti punti:

  • I confini cambiano necessariamente nel tempo. Pensare di fissarli una volta per sempre serve solo a farsi molto male.
  • Anche il grado ed il tipo di permeabilità dei confini variano necessariamente nel tempo.
  • Minacce diverse possono essere controllate a livelli diversi di organizzazione. Ad esempio, il contrabbando di sigarette può essere controllato dalla polizia di un singolo stato.  Il controllo dei flussi migratori richiede la collaborazione di molti stati.   La garanzia contro un’aggressione nucleare richiede, perlomeno, la copertura di un’altra potenza nucleare.

Elevare il livello organizzativo presenta dei vantaggi, ma comporta un costo di cui la comunità si deve fare carico.  Se non lo fa, semplicemente il sistema si disgrega in sotto-sistemi sempre più piccoli finché si raggiunge un livello a cui si vogliono e si possono controllare le condizioni interne in rapporto a quelle esterne.   Ma non è un processo indolore.  Ad ogni riduzione nel livello di complessità organizzativa, corrisponde necessariamente una riduzione nella capacità di quella società nel procurarsi ciò che le serve e di difendersi dalle minacce esterne.

In pratica, più piccolo è meno costoso e più gestibile.  Ma anche più povero e più vulnerabile.  Ecco perché è necessario trovare un equilibrio dinamico fra la tendenza ad aggregarsi e quella a disgregarsi.

Muri

muro israeleLa forma più solida ed evidente di confine è il “muro”.   Fra quelli contemporanei, il più famoso e spettacolare è quello eretto da Israele, ma ce ne sono moltissimi, in tutto il mondo ed in ogni epoca storica.   Una forma di confine che, non a caso sta venendo di moda in questi anni in cui, da una parte, alcuni paesi usciti sconfitti dalla globalizzazione (ad esempio l’Europa e gli USA) stanno cercando di proteggere quel che resta dei loro vantaggi storici.  Dall’altra, i sistemi-paese, in gran parte proprio grazie al mercato globale, dispongono ancora dei mezzi necessari per simili, costose imprese.
A che serve un muro?   Nell’immaginario collettivo, serve a sigillare un confine, ma non è così.   In realtà serve a facilitarne il controllo con forze ridotte, ma ricordiamoci i due punti fondamentali visti nel primo post di questa serie: nessun sistema esiste se non controlla i propri confini; nessun sistema può esistere all’interno di confini impermeabili.  

Il muro è quindi solamente una forma di difesa estrema di chi sta subendo l’iniziativa altrui e non è in grado di trovare soluzioni meno costose.   Se poi sia efficace o meno e per quanto tempo, dipende da caso a caso.

Disintegrazione

Dunque, abbiamo visto che l’impatto contro i Limiti della Crescita comporta, fra le molte altre cose, anche una crescente tendenza verso la frantumazione delle organizzazioni sovrastatali e statali.   Le cronache non lesinano gli esempi, ma finora, l’unica grande potenza ad essere andata parzialmente in frantumi è stata l’Unione Sovietica.   Gli altri stati importanti hanno finora resistito, in parte anche grazie alla fine dell’URSS che ha dato fiato ai vincitori.   Ma 25 anni dopo, la Russia mostra segni di un possibile nuovo cedimento, mentre l’Europa e l’India sembrano sul punto di fare la stessa fine. Gli USA seguono e perfino la Cina scricchiola.

E’ perlomeno molto probabile che, prima o poi, tutti i principali stati ed organizzazioni sovra-statali si disintegreranno, ma il punto importante è che non lo faranno né tutti insieme, né tutti allo stesso modo.

Il caso dell’URSS è un esempio da manuale del fatto che chi riesce a mantenere più a lungo un livello organizzativo superiore acquista un vantaggio competitivo notevole.   Altrimenti detto, chi muore prima, aiuta gli altri a tirare avanti ancora un po’.   Ognuno ha perciò interesse a mantenere alto il proprio livello, magari cercando di “picconare” quello degli altri.

Non è infatti facile controllare le retroazioni positive, specialmente in fase di decrescita.   Per fare un esempio, una disgregazione dell’edificio europeo consentirebbe ai singoli stati di eliminare i costi dell’eurocrazia, ma li esporrebbe all’attacco delle grandi potenze.  Probabilmente non un attacco militare: ci sono molte altre opzioni.   Per esempio, l’imposizione di scambi commerciali sfavorevoli, cosa che ci indebolirebbe ulteriormente, esponendoci ad ulteriori rischi.   Ad esempio, i singoli paesi europei potrebbero non essere più in grado di controllare le proprie frontiere (neanche volendo), con conseguenti movimenti incontrollati di persone e merci che minerebbero ulteriormente l’economia e la società. Insomma accadrebbe esattamente il contrario di quel che sognano molti nazionalisti odierni.

casa crollataSemplificando al massimo con una metafora, la casa che abbiamo costruito grazie all’energia fossile sta franando, sia per i maggiori costi e la minore qualità delle risorse rimaste (rinnovabili e non), sia per l’accumulo di sostanze e materiali tossici che comincia a minare i fondamenti della nostra società (clima, pesca, foreste, barriere coralline, eccetera).   Finirà in un cumulo di macerie, ma chi abita nelle stanze che crollano per prime, farà da materasso (qualcuno lo ha già fatto) a quelli che cadranno dopo.   Quello che riuscirà a cadere per ultimo in cima al mucchio, sarà quello che si fa meno male di tutti.

Una strategia possibile?

Ovviamente, passando dalle metafore alla realtà le cose si fanno parecchio più complicate.  A cominciare dal fatto che la globalizzazione ha alzato i livelli di interdipendenza a livelli tali da rendere difficile un conflitto.  Uno dei vantaggi che la de-globalizzazione si porterà via.   Per fare un esempio, se davvero l’Europa, o gli USA andassero in frantumi, l’economia Cinese subirebbe un contraccolpo probabilmente mortale.  Questa è una delle ragioni per cui, per ora, non ci saranno conflitti diretti fra “pesci grossi”, mentre i pesci piccoli saranno progressivamente spendibili, secondo il bisogno di questo o quello dei grossi.

Al di la di questo, rimane il fatto che ogni paese dovrà trovare la sua strada fra le due opposte esigenze. Da un lato, occorre ridurre la complessità per contenere i consumi e gli impatti (oltre che la popolazione, ma questo non si dice perché è brutto).  Dall’altro bisogna mantenere, se possibile accrescere la dimensione e la complessità per evitare di essere schiacciati dai vicini, parimenti in difficoltà.

comunità-agricolaUna partita quindi che andrebbe giocata su due tavoli contemporaneamente.  Da un lato, favorire e sostenere la diffusione di tecniche e modelli sociali il meno impattanti possibile.  Dunque favorire una controllata discesa verso modelli organizzativi di dimensione decrescente (le famose economie locali, ecc.).   Dall’altra, sviluppare livelli maggiori di integrazione sovranazionale (federazioni, alleanze, ecc.) in grado di opporsi almeno per un certo periodo alle brame altrui su quel che resta della nostra eredità storica.   Un gioco che, comunque, non potrebbe durare per molto, ma che potrebbe permetterci un impatto molto meno violento contro il nostro fato.  Guarda caso entrambe queste strategie tendono a svuotare il livello statale che, non a caso, si sta opponendo con tutte le proprie, notevoli forze ad entrambe.  Resta da vedere se davvero dei livelli organizzativi di tipo ottocentesco siano indicati a fronteggiare il presente ed il futuro prossimo.

Un altro pezzo importante di una strategia di rallentamento del declino, è quello di danneggiare i soggetti esteri potenzialmente ostili per renderli inoffensivi e, se possibile, abbastanza fragili da poter essere poi sfruttati.   Contemporaneamente, accrescere invece la collaborazione con i soggetti con cui abbiamo interessi comuni da difendere.  Insomma niente di concettualmente diverso da quello che gli stati hanno sempre fatto e che oggi altri fanno molto meglio di noi.   USA, Russia e Cina stanno tutti facendo questo gioco, sia pure con metodi e scopi diversi.   Gli americani picconano la stabilità della nostra moneta e giocano di sponda fra le tradizionali inimicizie  europee.   I russi finanziano i vovimenti neo-fascisti e nazionalisti.   I cinesi stanno saccheggiando quel che è rimasto dell’Africa, scaricando a noi la massa di gente in esubero.   Comunque, man mano che ci indeboliamo, diventa più facile soffiarci altre fette del bottino che abbiamo accumulato nei due secoli in cui diversi paesi europei si sono alternati nel condurre questo gioco.

La dinamica è infinitamente più complessa, ma in fondo concettualmente simile dal sistema delle razzie che tanta parte ha nell’economia e nell’ecologia dei popoli primitivi.

Conclusioni

Per quanto riguarda l’UE, il panorama politico europeo è oggi dominato sostanzialmente da due tipi di formazioni.

In primis, le forze che tuttora controllano i governi nazionali e che sono autenticamente “euroscettiche”.   Nel senso che vogliono mantenere in piedi le strutture attuali, ma svuotate di sostanza in modo da limitare al minimo indispensabile  la perdita di potere che investirebbe gran parte delle classi dirigenti nazionali se si formassero classi dirigenti federali.   In altre parole, vogliono la scatola, ma il più vuota possibile.

L’altro gruppo, che annovera la maggior parte dei partiti di opposizione principali, comprende coloro che vogliono fare a pezzi la scatola, sognando scenari di benessere e libertà in linea con la robusta tradizione utopistica della nostra cultura.

Indipendentemente dai casi particolari, anche molto diversi, il mio giudizio personale è che i primi (l’attuale classe dirigente) non ha giustificazione alcuna.  Non solo stati loro a svuotare l’EU di qualunque contenuto ideale, ma sono stati parimenti loro a spingere il processo di globalizzazione che tanto ha fatto per minare le fondamenta materiali d’Europa.
Oggi molti confondono questi due processi, mentre, come ho cercato di spiegare nei precedenti post, erano e restano antitetici.  L’europeizzazione consiste infatti in un processo di progressiva eliminazione degli antichi confini statali, sostituendoli con un più consistente confine collettivo.   Cioè un processo che avrebbe dovuto portare alla creazione di un sistema capace di trattare con USA e Russia da pari a pari.  In un simile contesto, probabilmente, la Cina sarebbe rimasta marginale.
La globalizzazione, come abbiamo visto, tende invece all’eliminazione di ogni confine economico a livello mondiale. Dal nostro punto di vista, ciò ha significato soprattutto la massiccia esportazione di capitali e tecnologie verso paesi almeno potenzialmente ostili.  Difficile immaginare un suicidio più sicuro per una società industriale, già alle prese con le prime avvisaglie dello scontro finale contro i Limiti dello Sviluppo.

La seconda categoria, quella che definirei degli eurofobi, è molto più eterogenea e comprende anche persone colte ed intelligenti che poco hanno a che fare con il becero neo-populismo maschilista di molti gruppi attivi in questo campo.   Conoscendo e stimando alcuni di loro, credo che come movente di fondo abbiano un profondo senso di tradimento.   Un sentimento peraltro giustificato da quanto detto qui sopra.
Tuttavia, se la dinamica dei sistemi ci può insegnare qualcosa a questo proposito, ridurre il proprio grado di complessità consente sì di ridurre i costi di  mantenimento delle sovrastrutture, ma al prezzo di ridurre anche la propria capacità di assorbire bassa entropia ed espellerne di alta.   E si tratta di una retroazione positiva in uno scenario globale senza precedenti storici.   In pratica, i due scopi dichiarati: rilancio delle economie nazionali e recupero della sovranità  sarebbero i risultati più improbabili di una simile operazione.   Pensare che un “oggetto” come l’Italia o la Germania possa rivendicare un effettiva sovranità nei confronti di soggetti della taglia geopolitica di USA, Russia e Cina, è un po’ come pensare che S. Marino potrebbe fare qualcosa contro la volontà del governo italiano.

D’altronde, non dobbiamo dimenticare che chi dobbiamo assolutamente salvare non è la nostra civiltà o le nostre persone, bensì la Biosfera.   Altrimenti non ci saranno in futuro né civiltà, né umani, né niente del tutto.   E dal punto di vista della Biosfera, qualunque cosa è meglio del prolungarsi della presente agonia.
In parole povere, ciò che ci potrebbe favorire nell’immediato, necessariamente ci nuoce in prospettiva e viceversa.
Forse, accelerare i tempi del proprio collasso è la cosa più altruista che una società possa fare.   Resta da vedere se ne è cosciente.

conclusione

Stagnazione all’italiana.

Nei giorni scorsi è apparso un ennesimo articolo sulla crisi economica italiana.   Ho scelto questo come spunto per una riflessione perché è stato pubblicato su “Econopoly”, una rubrica del Sole 24ore. Dunque su di un giornale che certamente non condivide i miei presupposti ecologici e fisici, ma che indubbiamente è molto competente sugli argomenti economici e finanziari.  Insomma, un giornale da cui mi separa un baratro a livello per-analitico, ma da cui c’è sempre da imparare.

In sintesi, l’autore dell’articolo, Alessandro Magnoli Bocchi, prospetta tre scenari possibili per il prossimo decennio:

“Scenario 1 (probabilità: 75 %) – Status quo e accettazione di fatto della leadership tedesca. In pratica, continuare sull’andazzo degli ultimi 10 anni.

Scenario 2 (15 %) – Riforma dell’Unione Europea e attuazione di riforme incisive in Italia.  Un mix di investimenti pubblici, semplificazioni burocratiche, riforme politiche, liberalizzazione economiche che dovrebbero “rilanciare la crescita”.

Scenario 3 (10 %) – Uscita dall’euro. Bancarotta, ristrutturazione del debito e poi chissà?

Purtroppo, mi trovo sostanzialmente d’accordo sul fatto che questi sono i tre scenari possibili, ma aggiungerei che i primi due condurrebbero con ogni probabilità al terzo.   Dunque, in tempi magari un poco più lunghi, la bancarotta sembrerebbe una specie di fato ineluttabile.   La causa principale di si foschi presagi sarebbe, secondo l’autore, il ritardo e l’inerzia nel portare avanti sostanziali riforme liberali al sistema.

Senza nulla voler togliere all’effettivamente asfissiante inefficienza di tanta parte del nostro sistema, siamo sicuri che non ci sia dell’altro?
Volendo dare una risposta che non sarà letta, vorrei far notare a dr. Magnoli Bocchi che la crisi economica, sia pure in modo molto diverso da caso a caso, sta gradualmente interessando tutti i paesi del mondo.   Perfino la Cina che, sotto molti aspetti, svolge oggi il ruolo di “faro ideale” per la nostra classe dirigente. Un po’ come in passato lo furono l’URSS per i comunisti e gli USA per i liberali.   A mio avviso ciò significa che, al di la delle situazioni contingenti ad ogni realtà nazionale e locale, sono all’opera fattori globali afferenti, purtroppo, alla tragica realtà dei “Limiti allo Sviluppo” nei suoi vari aspetti.

Ciònondimeno, è vero che l’economia tedesca si sta dimostrando più dinamica e resiliente di quelle degli altri paesi UE e, soprattutto di quella italiana.   Un dato di fatto che meriterebbe un approfondimento.   Fra i numerosi aspetti della questione, vorrei qui attirare l’attenzione su di un argomento mai preso in considerazione quando si parla di “competitività” internazionale e, viceversa, critico; oltre che irreparabile.

La sindrome del posacenere.

Un mio vecchio amico una volta mi disse: “Vedi l’urbanistica è come un posacenere.   Se tutte le cicche sono dentro un piattino di vetro, la stanza è pulita e funzionale.  Se le stesse cicche le spargo dappertutto, l’avrò resa uno schifo impraticabile.”

Chi si voglia prendere la briga di osservare su Google le foto satellitari delle periferie urbane, scoprirà una cosa sorprendente.   In alcuni paesi, ad esempio la Germania, le città sono state complessivamente costruite con un certo ordine e criterio.   Ad esempio separando la campagna, le aree industriali, quelle commerciali e quelle residenziali.   A titolo d’esempio, qui vediamo Friburgo (220.000 abitanti).

Friburgo (Germania) e dintorni
Friburgo (Germania) e dintorni

Esattamente l’opposto di quello che abbiamo fatto in Italia e, in misura ancora maggiore, in tanta parte della Spagna e della Grecia.   Per essere furbi, abbiamo fatto praticamente tutto dappertutto, creando suburbi vasti come intere provincie, dove si mescolano e si accavallano villette e capannoni, piazzali e condomini, magazzini e centri commerciali.   Mentre sul “retro della città” agonizzano i frammenti di quella che avrebbe potuto essere campagna; gradualmente invasi da baracche, depositi più o meno abusivi, piazzali e tutto l’armamentario del degrado sub-urbano.   Sempre a titolo di esempio, qui vediamo Prato (190.000 abitanti che consumano forse il quadruplo della superficie rispetto a Friburgo).

Prato e dintorni.
Prato e dintorni.

Certo, costruire in questo modo ha permesso ai privati di abbattere i costi di costruzione e di urbanizzazione, tanto delle casette, quanto dei capannoni e dei piazzali industriali.   Ma ora, esaurito questo effimero vantaggio, ci troviamo con una situazione ingestibile ed irreparabile.   Molto semplicemente, avere costruito così le nostre città ha delle conseguenze che si possono riassumere così:

  • Maggiori costi e minore efficienza di tutti i servizi di rete (elettricità, acqua, gas, fognature, trasporti pubblici, ecc.) al punto che spesso non sono neppure realizzabili (tipicamente le fognature e la depurazione).
  • Maggiori costi di gestione della rete idrica e maggiore rischio idrogeologico.
  • Maggiori costi e tempi di trasporto.  Sulle medesime strade si incolonnano tir, automobili, apette e ciclisti, assieme ad autobus e pedoni.   Il pericolo è costante, l’efficienza minima.
  • Maggiori costi di intervento per qualunque opera di manutenzione, integrazione o ammodernamento, sia delle reti, che di impianti, case, ecc.   Al punto che spesso si rinuncia a farli (tipicamente: aree verdi urbane, piste ciclabili, parcheggi scambiatori, ecc.).
  • Necessità di uso dell’auto privata e del camion, con le conseguenze del caso.
  • A parità di altri fattori, maggiori tassi di tutti i tipi di inquinamento e conseguenti costi diretti ed indiretti.
  • Elevato disturbo ed intralcio reciproco fra le diverse attività che si accatastano a casaccio nello stesso posto.
  • Degrado paesaggistico ed impraticabilità turistica di zone che, magari, contengono oggetti di del pregio storico od artistico delle ville lucchesi o di quelle venete.
  • Massima distruzione di suolo, soprattutto agricolo e perlopiù di eccellente qualità.   In questo modo infatti, non solo le aree artificializzate vengono rese irreversibilmente sterili, ma anche ben più vaste superfici che diventano inutilizzabili a causa della frammentazione e della difficoltà di accesso.
  • Isolamento delle residue aree agricole e naturali che perdono così buona parte della loro biodiversità e resilienza.

Nel complesso, non sarei in grado di quantificare il danno, ma in un contesto in cui i margini di guadagno sono sempre più sottili e la competizione sempre più esacerbata, credo che questo genere di costi, moltiplicati per un intero paese, abbiamo un peso rilevante.  Perché dunque nessuno ne parla?

Credo sia per due ragioni principali: La prima è che oramai non c’è più niente da fare.  Non possiamo immaginare di demolire e rifare i due terzi dell’edificato nazionale.

La seconda è che la responsabilità ricade sull’intera popolazione.  Dal privato cittadino che ha voluto farsi la villetta dove aveva ereditato un pezzetto di terra; all’industriale che per i suoi capannoni ha comprato terreno agricolo per poi farsi cambiare la destinazione d’uso.   Fino al tizio che trova comodo accumulare i suoi rifiuti in un cantuccio dietro la città, invece di conferirli secondo norma.   Passando per il palazzinaro che spara le sue villette a schiera dove il terreno costa meno, ciò dove è più lontano dai servizi essenziali.

Insomma, fino agli anni ’60 il “laissez faire, laissez passer” ha funzionato.  Abbiamo fatto le stesse cose dei tedeschi e dei francesi, con costi minori.  Si sa che gli italiani sono furbi!   Ma col passare del tempo, abbiamo dovuto cominciare a fare i conti con l’oste e scoprire che chi aveva speso di più per costruire meglio si trovava poi ad avere dei costi di gestione ridotti ed una maggiore produttività.

Oh perbacco! Ma non è che per caso sul Sole 24ore si parla spesso di inefficienza e scarsa produttività?

 

 

 

 

 

 

Vittoria! Vittoria?

Nota preliminare: In queste pagine userò il termine “fascistoide” come sinonimo di “Partito o movimento di estrema destra”, per distinguerli dai partiti fascisti storici che hanno caratteristiche loro proprie, almeno in parte diverse da quelle di molte formazioni dell’estrema destra attuale. Inoltre, non ho utilizzato il termine alla moda di “populisti” per rispetto dei movimenti autenticamente populisti del XVIII e XIX secolo che ebbero una dignità ed una valenza politica che nessun partito attuale neppure si sogna.

Tutto cominciò con la brexit.

Nonappena la vittoria del “leave” cominciò a delinearsi sugli schermi, i promotori del referendum entrarono in uno stato di panico. Nelle aspettative di Farage e soci avrebbe dovuto vincere di stretta misura “remain”, in modo da mantenere ingessato lo status quo e permettere loro di continuare con la consueta sceneggiata. Cosa non aveva funzionato nei loro calcoli? Probabilmente parecchie cose, ma principalmente avevano sottostimato il potere combinato della delusione e della rabbia sulla maggioranza degli elettori. Un fatto questo importante perché cavalcare la delusione e la rabbia (peraltro largamente giustificate) sono la cifra che accomuna i movimenti fascistoidi di tutta Europa e non solo.
Per questo, nelle settimane immediatamente successive il voto inglese, le cancellerie europee si sono rese conto che nel 2017 cadevano una serie di scadenze elettorali critiche fra cui le politiche in Austria, Bulgaria, Olanda, Francia e Germania. Un crescendo che, se fosse scattato il tanto temuto “effetto domino”, avrebbe disintegrato l’UE nel giro di pochi mesi.

Vittoria?

Sappiamo come è andata finora. In Austria, Bulgaria, Olanda e Francia i candidati dell’estrema destra hanno perso. In Germania stagnano in basso nei sondaggi. Vittoria dunque?
Si può dire che la prospettiva di un’implosione della UE è quantomeno rimandata a data da destinarsi, ma a ben vedere chi non ama l’estrema destra non ha molto di cui rallegrarsi. In Austria le presidenziali sono state vinte di strettissima misura da un vecchio residuato di quando l’ambientalismo era una forza politica importante. In Bulgaria ed in Olanda sono stati confermati i candidati governativi, che però non hanno mai dato gran prova di sé. Tanto che il loro margine di vantaggio sull’opposizione fascistoide si è comunque ridotto sensibilmente.
La Francia era un pericolo maggiore per l’importanza e la posizione del paese. La netta vittoria di Macron è stata una brutta sorpresa per la signora LePen che puntava ad un finale “al fotofinish” in stile austriaco. Tuttavia il pericolo è solo posticipato e neanche di molto. Un pericolo anche maggiore è infatti rappresentato dalle prossime elezioni in Germania.
Qualcuno si stupirà. Nella patria dei crauti entrambi i maggiori partiti in lizza si dichiarano apertamente europeisti e la maggior formazione di estrema destra, Alternativa per la Germania (AfD), non dovrebbe superare il 10%. Dunque perché preoccuparsi? Perché l’ottusità ed il provincialismo testardamente dimostrati dalla cancelliera uscente sono state proprio, il volano che ha fatto crescere l’eurofobia in tutto il continente. Con l’elezione di Junker, la “scomparsa” di Hollande e la rinuncia di Renzi ad un qualche ruolo a livello europeo, la Merkel si è assicurata un ruolo assolutamente egemone nella UE. In più di un’occasione importante è stato chiaro che le decisioni le prendevano lei ed il suo fido Schauble, alla faccia delle istituzioni comunitarie.
A partire dallo scoppio della crisi, mai conclusa, del 2008, la cancelliera ha usato questo potere per condurre una politica decisamente euroscettica nel senso autentico del termine. Vale a dire che ha usato gli strumenti comunitari in funzione esclusivamente o quasi degli umori dell’elettorato interno tedesco. E fra tutti i gravi danni fatti all’Europa, sicuramente il peggiore è stata la crisi greca. Un disastro voluto e perseguito dal governo tedesco senza che gli altri paesi, pur potendo, facessero nulla; e senza rendersi conto che così si stavano picconando le fondamenta stesse del mito europeista.
Oggi, una nuova vittoria della cancelliera uscente appare più che probabile, ma sarebbe una tragedia senza riparo. Altri 4 anni di Merkel-Schauble e un’ondata di governi fascistoidi in tutt’Europa sarà inevitabile. Non perché aumenteranno i veri fascisti, ma perché aumenterà il livello di frustrazione fino ad un punto in cui non ti interessa più che il tuo candidato menta platealmente o farnetichi di cose impossibili. Ti interessa solamente rovesciare il “sistema”. Costi quel che costi. E può costare moltissimo.

Il cambiamento.

Che le cose in Europa vadano molto peggio di 10 anni fa è un fatto. Come è un fatto che i governi e le classi dirigenti in genere hanno commesso una serie molto lunga di errori molto gravi. Ma come dice un vecchio adagio: “non c’è mai limite al peggio”.
Il punto più pericoloso è che mentre ci sono governi che per consolidarsi hanno bisogno di mostrare qualche successo, ve ne sono altri che si rafforzano proprio mediante il costante peggioramento della situazione. E funziona. Forse l’esempio attuale più spettacolare in questo senso è quello di Recep Erdogan. Quando salì al potere per la prima volta nel 2003, la Turchia era nel pieno di un mirabolante “miracolo economico”, godeva di rapporti preferenziali con le maggiori potenze planetarie, ottime relazioni con tutti i paesi confinanti e molto altro ancora. Oggi in Turchia ci sono migliaia di morti all’anno (circa 10.000 dal 2015, pare) fra attentati, bombardamenti e sparatorie. Decine di migliaia di persone sono vittime di arresti arbitrari e maltrattamenti, mentre centinaia di migliaia sono state licenziate perché sospettate di essere contrarie al regime. Molti parlamentari di opposizione sono in galera, la crisi economica morde, gli investitori fuggono, i rapporti internazionali sono appesi ad un filo, internet e la stampa sono pesantemente censurate, eccetera. Ma tutto ciò non ha impedito al nostro di vincere un referendum che gli concede un ulteriore, consistente aumento di potere, praticamente a vita.
In tutto l’Occidente, la lista dei partiti e dei movimenti che si candidano a “ripulire e rinnovare” la politica è lunga. Ma l’esperienza ci dovrebbe aver insegnato che può essere molto difficile, lungo e doloroso licenziare un “uomo forte”. Anche in Italia è già successo.

E dunque?

E dunque l’unica possibilità di uscire dalla trappola è che partiti e leader non legati a movimenti di estrema destra capiscano che il loro compito non è quello di continuare a difendere una linea politico-economica fallimentare. Bensì quello di gestire una decrescita non felice, ma inevitabile; mitigandone gli impatti e facendo capire a più gente possibile cosa sta succedendo e perché. Quand’anche ciò risultasse impossibile, in fondo, la maggior parte dei cittadini chiede cose perfettamente legittime:

1 – Uno stile sobrio da parte di uomini e donne al potere.

2 – Combattere efficacemente la corruzione a tutti i livelli.

3 – Ridurre le sperequazioni eccessive fra i redditi troppo alti e quelli troppo bassi. Visto che alzare i redditi bassi è, oggettivamente, difficile e forse impossibile, bisognerebbe ridurre quelli troppo alti.

4 – Riprendere il controllo delle frontiere. Cioè stabilire quanta e quale gente, a quali condizioni può entrare e restare. Insomma, un ragionevole punto di equilibrio fra il “tutti” ed il “nessuno” proclamati dalle propagande contrapposte.

Non sembrano cose impossibili, a condizione che si prendano provvedimenti idonei in tutti i paesi UE contemporaneamente. É infatti chiaro (o dovrebbe esserlo) che nessuno dei paesi europei da solo potrebbe oggi perseguire questi risultati con un minimo di probabilità di successo. Non ne avrebbe la forza politica, né i mezzi pratici.
Qualcosa forse comincia a muoversi, proprio grazie alla scelta inglese ed alla paura suscitata dall’elezione di Trump. Non rimane molto tempo e le prospettive non sono incoraggianti, ma questo turno elettorale, finora, ci ha concesso altri 4-5 anni di tempo per fare qualcosa. Certo, il declino della civiltà industriale non sarà fermato né così, né in altro modo, ma forse riusciremo ad evitare di aggiungere il male al malanno.

studiare la storia

“Coloro che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.   Coloro che la studiano sono condannati ad osservare impotenti gli altri che la ripetono”.

CONFINI – 3. De-globalizzazione: il ritorno dei confini

deglobalizzazioneNei precedenti due post (qui e qui) abbiamo visto che i sistemi tendono ad integrarsi in unità funzionali più grandi ed efficienti. Principalmente, questo consente di dissipare più energia e, perciò, di prevalere su altri sistemi.   Una tipica retroazione positiva: “più cresci, più diventi forte per crescere”.   Sappiamo però che niente cresce indefinitamente, ma anzi che, prima o poi, i sistemi grandi e complessi si disintegrano a vantaggio di altri più piccoli e semplici.  Semplificando al massimo, gli organismi muoiono e nutrono colonie batteriche; gli imperi e gli stati centralizzati si disgregano in stati più piccoli, oppure in sistemi feudali o tribali, ecc.   Naturalmente, ogni caso ha la sua storia di crescita, picco e declino, ma tutti seguono questo schema.   Ci devono quindi essere dei buoni motivi.

Limiti della crescita e limiti dei sistemi

Se esista o meno una sorta di legge universale dell’invecchiamento e morte dei sistemi è un argomento molto dibattuto.   Chi fosse interessato, troverà qualcosa a questo link.

Qui tralasceremo la questione, limitandoci a considerare un solo aspetto del problema.  Abbiamo visto che sistemi più grandi e complessi sono più efficienti, ma necessitano di maggiori risorse e di un “fuori” in cui scaricare l’aumento di entropia corrispondente all’aumento di informazione che avviene “dentro”, man mano che in sistema cresce.

Con riferimento alla società industriale, entrambi questi temi sono stati ampiamente dibattuti.  In estrema sintesi, la linea di pensiero dominante è che il progresso tecnologico può compensare il decadimento quali/quantitativo delle risorse e l’inquinamento, aumentando indefinitamente la propria efficienza.   Un punto di vista contestato da coloro che pensano che le leggi naturali facciano aggio sulle teorie filosofiche.   Ma qui stiamo trattando solo dei limiti di un sistema, un aspetto poco considerato, malgrado sia molto interessante.

Un sistema economico consiste in un insieme di processi termodinamici (estrazione, trasporto, trasformazione, riciclo, ecc.) e serve a produrre un accumulo di vari tipi di capitale all’interno del sistema stesso (popolazione, oggetti, infrastrutture, conoscenze, ecc.).  In altre parole, aumenta la quantità di informazione che il sistema contiene, riducendo quella di altri, da cui preleva risorse ed in cui scarica la propria entropia sotto forma di rifiuti, guerre, sovrappopolazione, ecc.  I sistemi che riescono a crescere più degli altri hanno un vantaggio, ma che succede se tutti i sistemi di un determinato tipo vengono integrati in un unico super-sistema?
La globalizzazione è stato un gigantesco esperimento che ci ha effettivamente portati molto vicini ad un sistema economico unico.  Cioè privo di un “fuori” da sfruttare a vantaggio del “dentro”.   Necessariamente, l’entropia prodotta dal sistema si deve quindi scaricare all’interno del sistema stesso, sotto forma di un peggioramento delle condizioni di vita di una parte della popolazione a vantaggio di altri.   Ad esempio mediante la pauperizzazione della classe media occidentale e la schiavizzazione della mano d’opera di  molti paesi “in via di sviluppo”.  Lo spalancarsi dell’abisso fra il leggendario 1% e tutti gli altri non che un effetto di questa dinamica.   Ma ancor più dei perdenti umani, ne ha fatto le spese la Biosfera che rappresenta la discarica finale (sink) di qualunque processo economico.   Ed è proprio questo aspetto, sempre più trascurato a livello politico, che sta già creando i presupposti per l’implosione del sistema.  Ancor più di altri aspetti, assai più di moda sui social e sulla stampa.
La disgregazione sociale è infatti un fenomeno classicamente associato alle fasi critiche dei sistemi umani e gioca un ruolo fondamentale nel destabilizzare i sistemi statali e sovra-statali nei tempi brevi (anni e decenni).  La perdita di biodiversità determinerà invece se fra qualche secolo sulla Terra ci saranno foreste, campi e civiltà, oppure colonie di batteri estremofili.   O qualunque scenario intermedio vorrete immaginare.

La trappola globale

Come già accennato, non era necessario globalizzare il sistema per immaginare che sarebbe finita male.  Processi simili si erano già visti tante volte nella storia, anche se su scala molto più piccola, e sempre con risultati analoghi: l’integrazione è vantaggiosa finché il sistema in crescita mantiene la capacità di scaricare fuori di sé i danni che la crescita comporta.
Nei millenni in cui gli imperi si sono alternati nel dominio di grosse parti del pianeta, ognuno di essi è entrato in crisi quando è rimasto a corto di risorse per mantenere la propria complessità e per proteggere i propri confini.   Oppure quando ha perso la capacità di scaricare sui vicini i propri problemi, ad esempio mediante guerre od emigrazione.
Era prevedibile che man mano che il sistema economico mondiale veniva integrato, la capacità produttiva aumentasse, ma a costo di “parane il fio” in tre forme: la crescita esponenziale delle disparità sociali,  l’erosione accelerata delle risorse e l’aumento di entropia interna del sistema stesso sotto forma di inquinamento, perdita di biodiversità,  tumulti, ecc.

MalthusIl meccanismo della “crisi malthusiana” è probabilmente intrinseco alla dinamica della nostra specie fin dal suo apparire.   Tuttavia, oggi è la prima volta che qualcosa del genere avviene in modo quasi contemporaneo in tutto il mondo, minando la capacità del Pianeta di mantenere condizioni ambientali compatibili con la civiltà.   Forse perfino con la vita umana.

La globalizzazione è stata quindi la trappola in cui il capitalismo si è cacciato. Dopo aver annientato ogni resistenza tradizionale ed ogni reazione moderna, pare proprio che si stia suicidando.  Perlomeno  nella sua forma attuale.

La decrescita in teoria

Uno degli errori che più spesso si commettono, è quello di credere che facendo il contrario di quanto fatto in passato, il sistema possa tornare in una condizione uguale o simile a quella di partenza.   Per fare un esempio classico, mettendo un uovo sodo in congelatore a -100 C° per tre minuti non avremo un uovo crudo.   Un esempio forse più stringente, è che non entrare a far parte di una struttura sovranazionale qualunque (alleanza, federazione, moneta unica o altro) porta a risultati completamente diversi dall’uscirne.  Ilya Prigogine Confini dei sistemi Ilya Prigogine ha vinto un Nobel dimostrando che, almeno per le strutture dissipative complesse, il tempo esiste, è direzionale (si chiama la “freccia del tempo”) ed è irreversibile.   Significa che non si torna MAI in uno stato precedente e se ci sembra di si, dobbiamo solo guardare cosa è successo intorno al nostro esperimento.

Dunque, se un aumento dei flussi attiva una retroazione positiva di crescita, un riduzione quali/quantitativa dei medesimi necessariamente attiva una retroazione parimenti positiva, ma stavolta di de-crescita.   Si ponga attenzione al fatto che la riduzione dei flussi può avvenire sia dalla parte delle risorse, quanto da quella degli scarti.   Cioè, sia che il sistema trovi difficoltà ad ”alimentarsi” (in senso latissimo), sia che le trovi nello scaricare i proprio “cataboliti” (sempre in senso latissimo), il risultato non cambia.   Ne siamo un esempio noi stessi.  La società industriale globale sta trovando il proprio limite nell’accumulo di inquinamento prima ancora che nella ridotta disponibilità di risorse.   Per fare un solo esempio, più di metà del petrolio scoperto è ancora sottoterra, ma se continueremo a pomparlo, ridurremo il nostro pianeta ad un deserto.

Il punto chiave qui è proprio il fatto che i sistemi in crescita esponenziale sono particolarmente instabili e vulnerabili.  E’ infatti molto difficile che possano passare da una fase di crescita convulsa ad una di equilibrio dinamico.   Sistemi che evolvono lentamente e che contengono anelli di retroazione negativa sono tendenzialmente più stabili.   Il che significa che crescono molto meno quando le condizioni sono favorevoli, ma incassano meglio quando le condizioni peggiorano.   E, soprattutto, contribuiscono assai meno al peggioramento del loro “fuori”,  proprio perché assorbono meno bassa entropia ed espellono meno alta entropia.

Una condizione certa per il disastro è poi quando un sistema riesce a crescere oltre la capacità del meta-sistema di cui fa parte di provvedere la bassa entropia ed assorbire l’alta.   L’esempio dei manuali è quello di un gregge sul pascolo.   Finché le pecore sono poche, l’erba abbonda e si possono moltiplicare.   Se ci sono fattori esterni che limitano la crescita del gregge, ad esempio il contadino che mangia una parte degli agnelli,  il sistema può tirare avanti indefinitamente.   Se invece le pecore aumentano continuamente di numero, prima o poi cominciano a danneggiare il suolo; la fertilità diminuisce e l’unico modo per salvare il gregge è eliminare abbastanza pecore da ristabilire l’equilibrio con un pascolo impoverito ed eroso.

La decrescita in pratica

Il decadimento quali/quantitativo dell’input energetico e gli effetti nocivi connessi con la crescente entropia mondiale renderanno le strutture economiche e sociali particolarmente complesse sempre meno sostenibili.    Ciò significa che la de-globalizzazione che sta ora prendendo le mosse, accelererà e diverrà una tendenza inarrestabile nei prossimi decenni.   Prima di festeggiare, consideriamo però che, se con la globalizzazione ci siamo fatti parecchio male, con la de-globalizzazione ci faremo peggio.

crescita globaleLa progressiva integrazione dei sistemi socio economici locali in sistemi nazionali, poi transnazionali ed infine in un unico sistema globale è stata infatti la strategia che ha permesso all’umanità di aumentare la propria capacità di dissipare energia e crescere.   Se in un grafico riportassimo la curva del livello di integrazione dei sistemi economici del mondo, vedremmo che è strettamente correlata con le curve che descrivono l’incremento demografico e la dissipazione di energia.    Senza la globalizzazione, non saremmo diventati i quasi 8 miliardi che siamo oggi ed i nostri consumi non sarebbero cresciuti, semmai diminuiti.   Perché?

Facciamo un esempio: la quantità di energia fossile disponibile è tuttora fantastica, ma i giacimenti sono sempre più difficili e costosi da raggiungere e sfruttare.   Solo organizzazioni estremamente vaste ed integrate possono avere i mezzi per farlo e solo se possono poi accedere ad un mercato globale in cui vendere la propria merce.
Per farne un altro, l’epidemia di Ebola del 2014 è stata messa sotto controllo a fatica e solo grazie all’afflusso di personale specializzato, materiali costosissimi ed aiuti di vario genere dal mondo intero.   Tutte cose che solo organizzazioni della potenza dell’OMS, l’UE, gli USA e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale potevano fare.  Senza strutture di tale vastità e complessità, i morti sarebbero stati probabilmente dei milioni in gran parte dell’Africa.

Piccolo è meno dissipativo, ma più scomodo

Orto-bioQuando si parla di de-globalizzazione, volentieri si pensa al proprio orto e di come sarebbero belle delle comunità agricole in cui ognuno contribuisce come può al benessere collettivo.   A parte il fatto che tra il mercato globale ed il mio giardino ci sono parecchi livelli organizzativi intermedi, è vero che piccole comunità rurali rappresentano un modello socioeconomico molto più adatto a tempi di scarsezza.   Penso quindi che sia sicuramente una buona idea quella di prepararsi a cavarsela in economie locali, scarsamente connesse col resto del mondo.  Ma non bisogna illudersi che queste possano far vivere 8 miliardi di persone, men che meno fino ad 80 anni e passa.
In sintesi, un’economia locale può provvedere cibo, acqua, abiti ed alloggio, ma non potrà mai consentire una connessione internet, cure ospedaliere moderne, viaggi lontani, tecnologie avanzate e tutti gli altri vantaggi che ci ha dato la progressiva integrazione delle economie mondiali.

Man mano che i sistemi socioeconomici maggiori si disarticoleranno in sotto-sistemi via via più piccoli, diminuiranno la massa e l’impatto globale dell’umanità.   Ma diminuirà anche la nostra capacità di sfruttare le residue risorse del pianeta.  In pratica, la stessa retroazione che ha prodotto il fenomeno che chiamiamo “progresso”, se lo rimangerà.   Se del tutto od in parte, lo vedremo, dipende da molti fattori.   In ogni caso, la popolazione diminuirà, forse anche rapidamente.
Un fatto questo che si tende a tacere, anche se è l’unica speranza che ci rimane.   Solo un’abbastanza rapida riduzione del carico antropico potrebbe infatti salvare la Biorfera e, dunque, anche la nostra discendenza.

Per essere chiari: era prevedibile che la globalizzazione ci sarebbe costata cara, ma era difficile evitarla.  E’ altrettanto prevedibile che la de-globalizzazione ci costerà ancora di più, ma proprio questo è fonte di speranza.

Ne riparleremo nella prossima ed ultima puntata.