Hitler ed il picco delle informazioni

da Repubblica.it

Ieri una delle notizie più riportate da tutti i Media e ripresa dalla maggior parte delle Agenzie di Stampa è che in un file desecretato della CIA ( la maggior parte delle Agenzie ha riportato questo come uno dei files desecretati pochi giorni fa da Trump riguardanti l’omicidio Kennedy) si riportava la notizia che Hitler nel 1955 era vivo e rifugiato in Sudamerica.

Lo scoop è stato ripreso senza particolari distinguo o approfondimenti, cosi come era, da quasi tutti i giornali italiani.

A parte Attivissimo, nessuno ha analizzato la notizia per capire, al di la della credibilità della cosa, almeno l’origine dell’informativa.

Addirittura ANSA, la principale agenzia italiana ha riportato il nome di copertura del sedicente Hitler in modo erroneo:

Adolf Schrittelmayor, anziché quello leggibile sul retro della foto, pur citata come fonte. NESSUNO che sia andato a vedere l’informativa originale, disponibile QUI.

Dove si vede chiaramente il retro dell’ immagine. Il nome è invece Adolf Schuttelmayer. La U ha due puntini, l’ “umlaute” il che forse spiega, perché un anglofono funzionario della CIA  abbia tradotto con Scrittelmayor.

L’errore del resto, viene notato anche da qualche altro funzionario come riportato in questo file immediatamente successivo, dove il nome è corretto. Nei files successivi, qui e qui, è riportato l’epilogo della cosa: dopo aver chiesto chiarimenti alla stazione locale di Bogotà, viene ritenuta una storia alquanto fantasiosa e si suggerisce di lasciar cadere ogni indagine. Nel caso contrario, si invita a correggere l’errore nel nome del soggetto da ricercare. Del resto già nei commenti alle firme dei vari funzionari che hanno gestito l’informativa è riportato un bel: “Have fun”, riferito ai funzionari 11-12 seguito da un “may not be so funny” del funzionario successivo, il nr 13, che quindi chiede un supplemento di indagine da cui scaturiranno i files successivi citati.

Attivissimo, come scrivevo, ha spiegato bene perché questa notizia è da ritenersi una bufala e nemmeno particolarmente saporita.

Il punto è che questo file è stato desecretato anni fa!!

MOLTI anni fa.

Quanti?

Per avere un indizio, si può provare a cercare il primo file della lista, quello il cui link comincia per 001.

Detto fatto.

Il primo file, tra l’altro è davvero interessante, perché è una analisi segreta di Hitler e delle sue caratteristiche, come persona, fisiche e psicologiche, usi ed abitudini etc et e data al 1942, a guerra già iniziata ( dal punto di vista degli USA) da qualche mese.

COMUNQUE, come vedete, a pagina 3, è riportato un bel timbro “declassified” del 18 Maggio 2000.

Che ragionevolmente si deve applicare anche ai files immediatamente successivi, per ovvi motivi  di classificazione. COMUNQUE, se siete curiosi, QUI trovate l’elenco completo dei documenti CIA con la voce “Hitler”, tra i quali, ai primi posti , trovate proprio quelli di cui qui parliamo.

Poteva sfuggire, ai cacciatori di Nazisti e/o ai nostalgici e/o ai giornalisti in cerca di scoop questa cosa?
No. Infatti; oltre a qualche indizio assai più antico,  ecco qui la prova che almeno tre anni fa era già nota.

Un libro del giornalista argentino Abel Basti che citava proprio questi documenti per costruire la sua storia.

Ed ecco la conferma COMUNQUE VECCHIA DI SEI MESI, dello stesso Abel.

QUINDI? Quindi tutti media italiani hanno riportato una notizia tanto clamorosa quanto improbabile, senza approfondire un attimo ne verificare, un minimo, fonte e dati a disposizione. Senza chiedersi nemmeno se fosse tale, una notizia, o fosse una storia già ampiamente passata. Senza chiedersi se i files della CIA fossero stati desecretati di recente . Senza andarsi a vedere i files originali, a partire da una semplice ricerca come ho fatto io..

Senza tener conto che, ovviamente, con cacciatori di nazisti che avevano fatto di questo la loro ragione di vita, pensare che potesse scappare proprio il pezzo più grosso, oltretutto ancora preciso identico alla sua iconografia ufficiale, fino all’ultimo dei suoi baffetti, era come minimo improbabile.

In sostanza: ancora una volta fake news e di cattiva qualità.

Cosa c’entra questo con  la mamma di tutte le Crisi ed il Picco?

C’entra, eccome, perché l’informazione, lo dice la fisica, è strettamente connessa all’entropia.

Per creare, raccogliere, distribuire informazione ci vuole energia.

Se i Computer e la rete ci permettono di accedere ad una mole di informazioni inimmaginabile, è anche vero che la nostra energia fisica, è rimasta quella. La nostra capacità di elaborare informazioni, pur agevolata dai supporti elettronici l, non può moltiplicarsi all’infinito.

Probabilmente, al netto di un sistema che richiede sempre meno informazioni e sempre più notizie, premiando le ultime un tanto al kg, piuttosto che per qualità, stiamo raggiungendo i limiti di elaborazione del nostro cervello. Un’altra dimostrazione che la crescita infinita non esiste e che, una buona volta, bisogna sostituirla con l’evoluzione. Questa si, senza fine.

 

PILLOLE DEMOGRAFICHE 3 – India

Dopo lunga pausa, riprendiamo le nostre pillole; per le precedenti puntate si veda qui e qui).

In un commento alla seconda pillola, un lettore attento ha fatto giustamente rilevare che i dati  trattati sono del tutto insufficienti per capire i fenomeni.  Per esempio, cita il fatto che la forma della piramide demografica può determinare un forte incremento demografico anche con una bassa natalità e che la ripartizioni in classi di età è critica dal punto di vista economico.  Tutto vero ed è perciò che questa serie di post è composta da “pillole”: vale a dire frammenti scollegati di un quadro ben più ampio e complesso.  Lo scopo è solo quello di stimolare la discussione e  prego perciò chiunque abbia da aggiungere osservazioni e informazioni di contribuire mediante altri commenti.

In questa terza puntata parleremo del secondo paese più popoloso del mondo: l’India

A partire dall’indipendenza (1947), il tasso di crescita demografica dell’India è andato crescendo, con un lungo e poco pronunciato picco durato praticamente 15 anni, fra il 1970 e la metà degli anni ’80.   Poi ha cominciato a declinare molto lentamente ed è ancora superiore a 1% che significherebbe, se durasse, raddoppio in meno di 60 anni.   Può sembrare poco, ma invece è moltissimo.   Nel frattempo, la crescita economica è proseguita con sostanziale costanza, ma il periodo migliore (dai dati ufficiali) è stato fra il 2000 ed il 2010.   Attualmente pare si sia impantanata, ma molti dicono che la crisi sia passeggera.

Una lettura classicista ci dice che, come da manuale, la crescita dell’economia è alla base del lento, ma apparentemente inesorabile calo della natalità indiana.   La natalità ha infatti cominciato a ridursi sensibilmente dopo il ’90; cioè  dopo un decennio in cui il PIL nazionale era più che triplicato e quello pro-capite raddoppiato.
In parte sarà certamente così, ma un altro ruolo importante lo giocano anche altri fattori, fra cui l’inurbamento e la disoccupazione.   Il modo rurale indiano è infatti caratterizzato da un’estrema miseria, in gran parte dovuta proprio alla crescita demografica che porta sempre più bocche su sempre meno terra.   Tuttavia, tradizioni culturali e sociali fortemente nataliste sono profondamente radicate, mentre la disoccupazione praticamente non esiste.   Su di un podere si può infatti rimanere senza mangiare, ma non senza lavoro.
Proprio per sfuggire alla miseria, un’aliquota crescente di giovani si trasferisce in città dove trova un mondo completamente diverso.  Da un lato i servizi, anche sanitari, sono molto migliori e dunque la mortalità è minore; dall’altro la disoccupazione è molto alta (10% circa della forza lavoro, secondo dati ufficiali molto ottimisti e malgrado una vivace emigrazione).   Aggiungendo le difficoltà di alloggio, la disintegrazione delle tradizioni culturali (nel bene e nel male) e tutto il quadro del disagio urbano, non c’è niente di strano che un numero crescente di giovani rimandi o rinunci a “mettere su famiglia”.

By by Cindia

Fig. 2 – Potere d’acquisto pro-capite, in % rispetto a quello americano

Qualcuno si ricorda di quando si parlava di “Cindia”?   In parecchi vagheggiavano un’alleanza strutturale fra questi due giganti che, uniti, avrebbero dominato il mondo.   Partiti praticamente insieme nel 1980, i due paesi più popolosi del mondo hanno invece seguito strade assai diverse e, ad oggi, la Cina ha vinto la corsa.   Certamente il fattore demografico non è stato l’unico in gioco, ma è stato importante.

L’India fu il primo paese del mondo ad adottare misure per la diffusione della contraccezione fin dal 1951, ma con scarsi risultati per l’estrema resistenza culturale e religiosa della popolazione.  Negli anni ‘70, mentre Mao lanciava politiche nataliste, in India il governo varava politiche decisamente contrarie, culminate con le famose sterilizzazioni forzate.   Ciò malgrado, mentre  fra il 1965 ed il 1975 il tasso di natalità cinese diminuì spontaneamente e precipitosamente,  in India continuò a crescere fino alla metà degli anni ’80, per poi calare molto lentamente.   Ciò ha permesso ai cinesi un sensibile aumento del reddito pro-capite fin dai primi anni ’80  e, quando nel 2001 la Cina entrò nel WTO, la sua popolazione era già quasi stabilizzata, seppure complessivamente giovane.   Una condizione ottimale per approfittare della situazione, con il più fantastico tasso di crescita economica mai visto nella storia umana.
Viceversa, la crescita demografica indiana ha continuato a assorbire parte della crescita economica fino ai nostri giorni, con un aumento del potere d’acquisto del cittadino medio che è meno della metà di quello dei cinesi.

Certamente in Cina non va tutto bene: tassi iperbolici di inquinamento di ogni genere, desertificazione, corruzione, abisso incolmabile fra i vincenti ed i perdenti della rivoluzione liberista (non liberale), eccetera.   Ma situazioni dello stesso genere, o perfino più gravi, flagellano un India che tenta di consolarsi raccontando a sé stessa che nel 2030 la marea montante della sua massa umana gli permetterà di surclassare definitivamente una Cina oramai invecchiata e declinante.
Molto poco probabile.   Intanto il Pakistan, che ha sempre mantenuto tassi di incremento demografico ancora più alti, si trova oggi in una situazione pressoché disperata.

 

Non chiamatela indipendenza

Un Panda Indipendentista dello zoo di Edinburgo è più libero?
Un Panda Indipendentista è più libero?

La Catalogna. Il referendum in Lombardia e Veneto. L’Inghilterra.

La Scozia. I fiamminghi. La Corsica. La Sardegna. La Toscana. … Tutti vogliono essere indipendenti. Da tutto. Da uno Stato fiscalmente oppressivo. da una Europa cinica bara ed ancora più fiscalmente oppressiva, dominata da una opaca burocrazia asservita a poteri ancora più opachi…Tutti sono convinti che, non appena diventeranno indipendenti, tutto andrà bene ed un nuovo e radioso avvenire splenderà nei loro cieli, finalmente liberi dal bieco oppressore. Straniero o meno che sia.

Balle.

Ad esempio, La Catalogna e La Scozia NON sarebbero affatto libere di esercitare la politica fiscale preferita, visto che entrambe vorrebbero rimanere dentro l’Europa. Peraltro, a parte le dichiarazioni recenti e apodittiche di Junckers, non è detto che ci riescano, perché in Europa non c’e’ Stato che non abbia le sue minoranze in attesa di una loro indipendenza e non si vuole aprire il vaso di Pandora più di quanto non si sia già aperto.

Il punto è che si sbagliano e di brutto, gli indipendentisti. Perché non avverrà alcuna grande rivoluzione fiscale, anche restando fuori dall’Europa e dall’Euro.

Ovviamente le nuove monete coniate sarebbero debolissime ed ovviamente, nel processo, i capitali scapperebbero, impoverendo le due regioni. Ovviamente, DOVREBBERO chiedere con il cappello in mano, di ottenere le stesse condizioni e gli stessi accordi commerciali in vigore attualmente in Europa e non è detto che le otterrebbero. Nel processo, l’economia non potrebbe che andare a rotoli, con buona pace della speranza di PAGARE MENO TASSE.

Perché, in tutte queste indipendenze, a parte qualche riverniciatura culturale, emerge sempre, chiaro e nitido un fatto: che il vero e fondante motivo di queste istanze di libertà dall’oppressivo…etc etc etc bla bla bla…. è che si vuole pagare meno tasse, supposte malimpiegate da governi centrali parassitari.

Illusione. Perché le tasse sono sempre meno pagate per dare allo Stato la forza di mantenere servizi( in calo, costante, in ogni paese europeo) ma sempre più per pagare i debito contratti con il sistema finanziario, che a sua volta si approvvigiona presso la banca centrale per avere i fondi necessari a rifinanziare lo Stato. Il meccanismo ha bisogno dei cittadini come passaggio  intermedio e si muove a velocità sempre crescente, anche perché sempre più spesso è lo Stato che interviene a salvare le banche con crediti in sofferenza ( prevalentemente NON nei confronti dei cittadini, nota bene).

Così è questo Moloch che schiaccia l’economia, il peso crescente dei debiti pubblici e privati che già ci porta ad impegnare il futuro dei nostri figli per pagare oggi le pensioni e per salvare oggi i conti correnti dei cittadini. Questo Moloch NON E’ MESSO IN DISCUSSIONE  da nessuna istanza indipendentista. Si vuole girare meno soldi allo Stato centrale e lasciare più soldi per la gestione dello Stato autonomo appena nato e/o del governo federalista. Tuttavia pensare che sarebbero impegnati per servizi e/o che comunque la finanza non finirebbe per rosicchiarne parti crescenti ( essendo tanto più fragile tanto più è industrializzato il territorio, causa sofferenze bancarie) E’ una illusione non in un remoto futuro ma già ora. Non è un caso che le banche recentemente fallite siano quelle di distretti industriali tra i più sviluppati delle rispettive Regioni.

Per l’ennesima volta: l’UNICO modo per uscire da questa soluzione è chiedere l’indipendenza, si, ma da questa economia puramente monetaria che sta distruggendo a passi esponenzialmente più rapidi quella reale. Non c’e’ Stato che tenga. Questo sistema fagocita tutti gli Stati, e trascende dalle frontiere.

Non sarete liberi, cittadini di Catalogna o di Brembate, perché l’economia è costruita sul debito e questo debito è sempre più impagabile, non potendo l’economia crescere alla stessa velocità del debito. In realtà per raggiungimento rapido dei limiti fisici, la crescita presto finirà in tutto il mondo e questa volta in modo stabile. L’apparato finanziario mondiale si mangia, secondo diverse stime, circa il 25% della ricchezza reale prodotta nel pianeta e circa il 20% delle risorse fisiche. Senza produrre, ormai altro che un incubo planetario, che agita le notti dei ragionieri delle imprese, dei padri di famiglia precari con il mutuo sulle spalle dei genitori in pensione e dei Capi di Stato mondiali, alla ricerca di una scusa esterna per il collasso dell’economia prossimo venturo e/o la stretta alle libertà personali. Al netto dell’ovvio egoismo che pervade la vostra posizione, potevate scegliere tra il coraggio e l’illusione.

Avete scelto o state scegliendo l’illusione.

Avrete bisogno di molto più coraggio, per vivere nei tempi prossimi.

La prima indipendenza è quella dai luoghi comuni. La prima libertà non è quella che vi fanno sognare ma quella che vi costruite con le vostre mani.

Uscite dalla scatola, convincete voi stessi e poi i vostri concittadini e non avrete più bisogno di uccidere o odiare vostri simili per una chimera che molti possono raccontarvi ma nessuno portarvi a toccare in carne ed ossa. Non dovete distruggere il vostro Stato, dovete rivoluzionarlo. Non dovete distruggere l’Europa, dovete rivoluzionarne le istituzioni. Rimettete la finanza sul sedile posteriore. Fate tornare i soldi a fare il loro mestiere di mezzi e non di fine. Obbligate ad investirli in cose costruttive.

Fatelo in un modo semplice. Scegliendo, tra la stabilità della morte per soffocamento, schiacciati da un debito sempre crescente in termini reali che si mangia pezzi sempre più grossi della vostra vita, l’instabilità di una rapida svalutazione del denaro.

I vostri stipendi perderanno valore ma il denaro fermo in sempre più illusori investimenti finanziari ancora di più. Cancellate il debito. Avverrà comunque.

Potete ancora scegliere il modo.

Non dovete lasciare che distruggano la vostra vita e perfino le vostre illusioni. Abbiate illusioni raggiungibili.

E cesseranno di essere illusioni…

Il diabolico Piano Kalergi

di Jacopo Simonetta

“Possa tu vivere in tempi interessanti” pare fosse un’antica maledizione. Non so se sia vero, ma di sicuro questi sono tempi molto interessanti, soprattutto sul piano culturale dove lo smarrimento dei punti di riferimento consolidati, le possibilità tecniche offerte dal web ed il precipitare di una crisi che si intuisce profonda ed irreversibile genera fenomeni singolari. Gli esempi possibili sono infiniti, qui vorrei occuparmi di un caso mediatico particolare: il “Piano Kalergi” che mirerebbe (nientedimeno) al genocidio dei popoli europei per sostituirli con una massa amorfa di meticci al servizio di una plutocrazia masso-giudaica.

La Paneuropa

Il sogno di un’unità europea nasce con la disintegrazione dell’Impero Romano d’Occidente. Nel tempo, ha ispirato personalità distanti quanto Carlo magno, Federico II di Svevia, Carlo V d’Asburgo e papa Pio II; per arrivare a Victor Hugo e Mazzini, passando per Napoleone. Il conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi non fece dunque che rilanciare un’idea vecchia di millenni, confezionandola in termini che erano moderni negli anni ’20 e ’30 del XX secolo.
Persona colta, raffinata e cosmopolita come potevano essere gli aristocratici dell’epoca, fu scioccato dal bagno di sangue fratricida della I Guerra Mondiale e dalla fine, anche formale, del “Sacro Romano Impero”. Influenzato soprattutto dagli scritti di Oswald Spengler, Friedrich Nietzsche, Giuseppe Mazzini e Rudolf Kjellén, Kalerghi capì benissimo due cose:
1 – Bisognava evitare a qualunque costo una nuova “guerra civile europea” (come egli definì la guerra ’14-’18).
2 – In quella guerra le potenze europee avevano bruciato definitivamente la loro supremazia mondiale. Le potenze montanti erano gli Stati Uniti e la Russia e, se non volevano essere schiacciati da questi due colossi, i paesi europei dovevano necessariamente consorziarsi.

  • Inizialmente ebbe una certa influenza, riuscendo a ottenere l’appoggio di personalità del calibro di Winston Churchill, Paul Valery, Thomas Mann, Francesco Saverio Nitti, Sigmund Freud, Albert Einstein e John Maynard Keynes.
    Ma l’ascesa del nazismo fece precipitare la crisi che si voleva evitare. Kalergi dovette quindi fuggire temporaneamente in America, da dove mantenne però stretti contatti con gli anti-nazisti e gli antifascisti (in un primo tempo aveva preso sul serio Mussolini, ma si ricredette alla svelta). Finita la guerra ebbe un certo ruolo indiretto, soprattutto tramite l’opera diplomatica di Otto d’Asburgo e l’amicizia con personaggi come Jean Monnet, Konrad Adenauer e Maurice Schumann.
    In estrema sintesi, il suo diabolico piano si basava sui seguenti punti:
    1 – Formazione di una confederazione europea basata su di una garanzia reciproca di delega della sovranità. Cioè la cessione di sovranità dai governi nazionali e quello federale avrebbe dovuto essere esattamente simmetrica per tutti.
    2 – Istituzione di una Corte Federale per gestire i conflitti tra gli stati membri (che non pensava assolutamente di abolire).
    3 – Un esercito unico europeo, così da garantire nel contempo la pace interna e la difesa esterna.
    4 – Una progressiva unione doganale.
    5 – Un’unificazione delle colonie che si sarebbero dovute sfruttare a livello europeo.
    6 – Moneta unica.
    7 – Rispetto della diversità delle culture europee e delle molteplici civilizzazioni nazionali.
    8 – Aumento delle autonomie regionali e tutela delle minoranze nazionali.
    9 – Una buona ed efficace collaborazione nel quadro della Società delle nazioni.

Nell’idea di Kalergi la Turchia avrebbe dovuto entrare nella federazione, mentre cambiò varie volte idea a proposito del Regno Unito che, all’epoca, era ancora abbastanza potente da poter diventare egemone. Escludeva invece la Russia sovietica, non già perché non amasse la cultura russa, ma perché la Russia era troppo grande e potente rispetto agli altri (e perché aveva capito benissimo come ragionava Stalin).

E la storia del genocidio?

Si fonda su ben tre “solide basi”:
1 – Kalergi era cristiano, ma aveva sposato un’ebrea ed aveva grande stima della cultura ebraica (che pensava avrebbe potuto rinvigorire la languente aristocrazia europea). Aveva anche amici fra i banchieri ebrei, in primis il barone Rothschild e si sa che gli ebrei sono dietro ad ogni nequizia e complotto.
2 – Fu per qualche anno affiliato ad una loggia massonica viennese (Humanitas), ma se ne andò quando capì che questo era di ostacolo e non di aiuto al suo progetto.
3 – Una frase tratta da una pubblicazione secondaria (Praktischer Idealismus -1925): “L’uomo del futuro remoto sarà meticcio. Le razze e le caste di oggi saranno le vittime del superamento di spazio, tempo e pregiudizio. La razza eurasiatica-negroide del futuro, simile nell’aspetto alla razza degli antichi Egizi, sostituirà la pluralità dei popoli con una molteplicità di personalità». Alle nostre orecchie odierne suona effettivamente inquietante, ma se ci si prende la briga di leggere i libri per intero e di abituarsi al gergo dell’epoca, si scopre qualcosa. Per cominciare, che Kalergi non parlava dell’Europa, bensì del mondo intero, in un remoto futuro. Per continuare, che non pianificava invasioni, bensì sognava un’era in cui lo sviluppo dei rapporti internazionali e la fine dei pregiudizi razziali avrebbero portato ad un utopico “meltig pot” di scala planetaria.
Kalergi aveva molti difetti, ma era un convinto pacifista, innamorato di tutto ciò che era definibile come “europeo”, sia pure con molta fantasia.

Dunque il piano per sommergere l’Europa di “neri” non è mai esistito.  Esiste invece, ma non se ne parla, un disperato problema di sovrappopolazione che, quasi inevitabilmente, sfocerà in un olocausto per molti, se non tutti, i popoli della Terra. Ed esistono anche un sacco di soggetti, chi in buona e chi in cattiva fede, che soffiano in vario modo sul fuoco.
Negare che abbiamo un problema di immigrazione serve solo ad aggravarlo, così come sfruttare la situazione per riesumare dai cassetti della storia scheletri che stanno bene solo al museo degli orrori.

Ma forse un po’ di complotto forse c’è davvero

 

Perché disturbare il fantasma di un distinto signore che, cento anni fa, caldeggiava una confederazione fra i paesi europei per evitare nuove guerre e colonizzare più efficacemente il mondo? (Ebbene si, kalerghi non propugnava l’invasione dell’Europa da parte degli africani, semmai il contrario).

Da quello che ho potuto ricostruire, la leggenda del kalerghiano “genocidio” si deve ad un certo Gerd Honsik che, nel 2005, pubblicò a Barcellona un libro intitolato “Adiòs, Europa – El Plan Kalergi” (ed. Editorial Bright-Rainbow).
Honsik è uno scrittore austriaco noto per pubblicazioni in cui nega l’olocausto, rilancia la vecchia propaganda anti-semita e tenta di rivalutare la figura storica del Furer. Tutto ciò gli ha procurato delle condanne penali, ma in compenso gli ha assicurato un solido mercato fra i neo-nazisti europei. Potrebbe quindi trattarsi di una semplice bufala commerciale, ma se mi si consente un po’ di complottismo, forse c’è sotto qualcosa di più.

Tanto per cominciare, Kalerghi fu un personaggio di spicco dell’anti-nazismo; che ce l’abbiano ancora con lui si può quindi capire, ma forse la bufala nasconde anche un virus. Uno dei pochi punti condivisi dal caleidoscopio di movimenti e partiti d’estrema destra attuali è l’odio per le istituzioni europee, viste come un ostacolo per la loro ascesa al potere. Occorre quindi non solo evidenziarne ed esagerarne i pur reali e considerevoli difetti; è necessario anche diffondere rabbia e paura: un complotto antieuropeo di fantasia potrebbe quindi ben servire ad una politica antieuropea molto reale.  E l’abilità del suo inventore è dimostrata dal fatto che lo ha confezionato in modo da essere creduto e rilanciato anche da persone assolutamente aliene al neo-nazismo. Talvolta perfino da persone assolutamente contrarie ad esso.

Quanto pesa oggi Kalergi?

Niente. Il suo movimento “Paneuropa” ebbe un certo ruolo negli anni ’50, soprattutto per l’amicizia personale che legava il vecchio conte con personalità del calibro di Adenauer, Shuman, Otto d’Asburgo e De Gasperi.
Dunque si, parecchi dei suoi punti programmatici sono stati in una qualche misura attuati dai trattati, ma secondo parametri molto diversi da quelli dell’utopia paneuropea.   Kalergi detestava il capitalismo, mentre vagheggiava un’Europa unita da uno slancio spirituale ed ideale, governata da un’aristocrazia cosmopolita e benevolente. Qualcosa di molto irrealistico e anche di molto diverso dalla società liberal-plutocratica e dalla logorroica macchina burocratica che abbiamo costruito.
Oggi Paneuropa esiste ancora, ma il suo peso politico pari a zero ed il suo fondatore viene talvolta ricordato nelle cerimonie ufficiali solo per essere stato uno degli anticipatori di quella “Unione Europea” che, con tutti i suoi forse mortali difetti, rappresenta il più originale e pacifico esperimento geo-politico della storia. Ad oggi, rimane infatti l’unico tentativo di superare definitivamente la logica della guerra e di formare uno stato sulla base di una comunanza di intenti fra nazioni anziché sulla conquista militare.
Probabilmente non ci riusciremo, ma perlomeno ci abbiamo provato e già questo non è poco.

L’Unione Europea? Una cosa fantastica, se esistesse.
Gianis Varoufakis

Effetto “McBeth”

di Jacopo Simonetta

Preludio

Può la crescita economica rendere più poveri anziché più ricchi? La risposta è “SI”.
Il modello di base è quello della “crescita antieconomica” di H. Daly che spiega tanta parte del nostro presente e del nostro futuro. Rimandando al link per i dettagli, possiamo dire che per la fatidica dinamica dei ritorni decrescenti, superato un limite non chiaramente prevedibile, il cumulo dei costi indiretti supera fatalmente quello dei vantaggi diretti. Da questo punto in poi, la crescita economica può anche continuare, ma rende la gente sempre più povera, anziché sempre più ricca. Ma perché mai uno dovrebbe continuare ad investire ed a lavorare per stare peggio?

Ci possono essere diverse ragioni. Per esempio, può non essere chiaro se il fatale limite sia stato oltrepassato o meno; oppure ci possono essere poche persone che guadagnano molto e tante che collettivamente perdono di più, ma individualmente perdono poco. Ovviamente, quelli che guadagnano si organizzano per difendere i loro privilegi, mentre coloro che ci rimettono di solito neanche capiscono in che modo gli spariscono i soldi. Esiste però anche un altro meccanismo molto più insidioso: una vera trappola da cui è spesso impossibile sfuggire, anche quando ci si rende conto di cosa stia succedendo.

La trappola

Oramai sono così sprofondato nel sangue che fermarmi e tornare indietro sarebbe altrettanto faticoso che andare avanti”.   Questa celebre battuta della tragedia shakespeariana esemplifica bene una trappola in cui tipicamente si cade quando si investe nello sfruttamento di un sistema senza tenere sufficientemente conto del suo funzionamento e della sua resilienza.   Cerchiamo di capirci con qualche esempio pratico.

Un caso da manuale è quello dell’estinzione dei banchi di pesce e, conseguentemente, delle imprese di pesca con le relative filiere fino, eventualmente, alle banche creditrici. La trappola scatta quando, a fronte di una riduzione del pescato, le imprese rispondono investendo in mezzi più potenti che depauperano ulteriormente la risorsa e così via in una tipica retroazione positiva (rinforzante). In assenza di fattori limitanti esterni efficaci (limiti di legge, limiti del credito, ecc.), il sistema giungerà necessariamente ad un punto in cui pescare diventerà anti-economico. Ma se saranno stati fatti investimenti troppo grandi non ancora ammortizzati e/o debiti non ancora ripagati, i pescatori saranno costretti a continuare a pescare sempre di più, anche in perdita, anche se si rendono conto che stanno distruggendo la loro risorsa.  Così come le banche saranno costrette a rinnovare loro i crediti per guadagnare tempo, sperando in un miracolo.

Un meccanismo analogo sta alla base del consumo di insostituibile suolo per continuare a costruire case, malgrado le imprese costruttrici siano sovraccariche di appartamenti e villette invendute.   Se non vendono, perché continuano a costruire?  Perché se smettessero le banche non rinnoverebbero loro dei crediti che non possono pagare.  Così ognuno continua, sperando che altri schiattino prima di lui, liberando spazi di mercato che potrebbero salvarlo.  Anche le banche creditrici continuano a sostenerli, sapendo che dalla liquidazione di quelle imprese non recupererebbero mai quanto loro dovuto.

Saliamo di scala.

Oramai da anni, per molti campi petroliferi il costo di estrazione e raffinazione supera il prezzo a cui il petrolio può essere venduto; un meccanismo che sta mettendo più o meno in crisi imprese e petrocrazie .   Eppure tutti questi soggetti, anziché accordarsi per tagliare la produzione e sostenere i prezzi, si affannano a pompare a più non posso.   Follia collettiva?   Penso di no.  Nel periodo dei prezzi alti ed in previsione di ulteriori aumenti, le imprese hanno fatto degli investimenti miliardari ed avviato progetti di estrazione in condizioni estreme. Tutti costi che non sono ancora stati ammortizzati; ciò significa che se ora abbandonassero i progetti dovrebbero mettere a bilancio perdite enormi, perdere il credito e probabilmente fare bancarotta.  Inoltre, progetti particolarmente impegnativi sul piano tecnico e finanziario, se abbandonati, difficilmente potranno essere ripresi.   Spesso si lavora quindi in perdita, sperando in una ripresa dell’economia globale, oppure nel fallimento dei concorrenti.
Per quanto riguarda le petrocrazie il quadro è analogo, con l’aggravante che, più o meno tutti questi paesi, hanno approfittato del periodo di prezzi molto alti per avviare programmi di spesa che non possono più sostenere, ma che è pericoloso interrompere. Il Venezuela e l‘Arabia Saudita sono casi emblematici.

Con un prezzo medio intorno ai 50 $, gran parte della produzione mondiale è anti-economica.

 Politica

Qualcosa di funzionalmente analogo avviene anche in politica.  Perfino le dittature, a maggior ragione le democrazie, per durare a lungo hanno bisogno di mostrare qualche successo all’opinione pubblica.   Finquando le cose vanno abbastanza bene non ci sono quindi grossi problemi, ma quando le difficoltà quotidiane cominciano a stringere la cintura di troppi cittadini troppo a lungo, occorre ridirezionare il malcontento. Per esempio su di un nemico esterno, oppure su di una minoranza interna od altro, secondo il contesto.   Ma quando leader e partiti cominciano a cercare il sostegno delle frange più oltranziste dell’opinione pubblica (integralisti religiosi, nazionalisti, ecc.), rischiano fortemente di trovarsi poi intrappolati in situazioni in cui o fanno qualcosa che sanno essere sbagliato, o perdono il potere e, magari, la vita.

La recente vicenda della “ brexit” è emblematica in questo senso. Nato nella testa di David Cameron non per essere fatto, ma solo come trovata propagandistica, il referendum ha finito per essere votato ed approvato.  Questo ha proiettato l’intera classe dirigente inglese nel panico perché non era quello che contavano accadesse; al punto che ad oggi, oltre un anno più tardi, il governo ed il parlamento non sono ancora riusciti a mettere insieme una strategia.   Anzi, neppure un elenco completo delle cose da fare.  Certo, avrebbero potuto rimangiarsi la “papera” e le occasioni non sono mancate, ma per coglierle avrebbero dovuto ammettere di aver deliberatamente mentito agli elettori.   Un fatto che li avrebbe cancellati dalla scena politica e che, perciò, nessuno ha avuto il coraggio di fare.
In questo periodo sono molti i leader che si stanno cacciando in tipiche “trappole McBeth”: da Netanyau a Kim Jong Un, a Putin  passando per Trump, ma forse l’esempio più di attualità ce lo fornisce il duo Rajoy-Puidgemont.   Inseguendo l’elettorato nazionalista spagnolo e catalano rispettivamente, entrambi hanno fatto di tutto per infilarsi in una situazione in cui non hanno più margini di manovra. Il risultato è che, comunque vada, i catalani possono solo perdere una parte non sappiamo quanto consistente del loro tenore di vita.  Ma anche gli altri spagnoli e tutti gli europei ne avranno un danno.

 In cima alla scala.

Forse la più stretta analogia con la celebre tragedia si trova però alla massima scala: quella globale.   Negli anni ’70 un certo numero di streghe e di stregoni esperti in dinamica dei sistemi, ecologia e termodinamica avevano ampiamente avvertito del fatto che l’umanità si trovava ad un bivio: o accettare dei limiti, o distruggere la civiltà e buona parte del Pianeta con essa.  Altri stregoni, più pratici di psicologia che di scienza, ci hanno però detto che il nostro regno sarebbe durato per sempre e, collettivamente, abbiamo scelto di credergli.   Ora che dagli spalti di Dunsidane si vedono le prime frasche della foresta di Birnam in marcia, qualcuno comincia a rendersi conto dell’errore commesso. Ma per tornare indietro sarebbe oramai indispensabile prendere provvedimenti talmente drastici da provocare un disastro subito.   Per esempio, 70 anni fa per mantenere la popolazione umana entro limiti sostenibili, sarebbe stato sufficiente ridurre la natalità; oggi sarebbe necessario anche ridurre l’aspettativa di vita dei vecchi. Chi potrebbe ragionevolmente proporre una cosa simile?
Parimenti, buona parte delle più devastanti retroazioni climatiche pronosticate si stanno manifestando con netto anticipo: dall’esalazione di metano dal permafrost e dai fondali marini, alla riduzione dell’albedo artica, alla ridotta attività fotosintetica, eccetera.  Ciò significa che, se davvero volessimo contenere l’aumento di temperatura media entro i 2 C° (che sono già molto dannosi), dovremmo tagliare brutalmente la produzione agricola ed industriale e farlo subito. Cioè condannare miliardi di persone ad una miseria senza precedenti.

In sintesi.

Insomma, l’”effetto McBeth” è una trappola che si chiude gradualmente, man mano che qualcuno (individuo, azienda, classe sociale, nazione, umanità) mantiene una strategia che in passato ha dato buoni risultati anche quando questa comincia a non funzionare più.  Ad ogni passo innanzi il prezzo da pagare per procedere aumenta, ma aumenta anche il prezzo da pagare per tornare indietro.

C’è una speranza? Secondo me si.  Per quanto le nostre conoscenze scientifiche siano senza precedenti, sappiamo infatti che i sistemi reali sono comunque più complessi di ogni possibile modello.  Esiste quindi la concreta possibilità che in futuro avvenga qualcosa di imprevisto che cambi le carte in tavola.  Ancor più importante è il fatto che, anche a fronte di un collasso globale, non tutte le regioni della Terra avranno lo stesso, identico destino. Man mano che il meta-sistema globale andrà in pezzi, i sub-sistemi che ne nasceranno seguiranno infatti traiettorie diverse.  Talvolta molto simili, talaltra divergenti e non c’è modo oggi di prevedere quali saranno i fattori chiave che faranno la differenza. Perciò sono convinto che l’unica cosa sensata che ci resta da fare sia cercare ti tenere la nostra barca europea pari il più a lungo possibile e, intanto, cercare di procurarsi un qualche tipo di cintura di salvataggio.  Il Titanic sta affondando, ma non tutte la cabine andranno sotto contemporaneamente e non tutti affogheremo.   Su questo possiamo contare, cerchiamo quindi di non buttarci in mare da soli.

La mattanza delle alberature

di Jacopo Simonetta

Nell’agosto del 2017, nel bel mezzo dell’estate più torrida e secca mai registrata, il sindaco di Firenze, Dario Nardella, ha ordinato di abbattere parecchie centinaia di grandi alberi.   Senza entrare qui nei dettagli della polemica che ne è seguita, vorrei far osservare che si è trattato solo di uno fra gli infiniti esempi del genere.   Dopo un paio di secoli trascorsi a piantare alberi lungo strade e viali, in mezzo alle piazze e nei giardini, da almeno un paio di decenni si è diffusa e radicata la moda esattamente contraria.  Le amministrazioni pubbliche di ogni ordine e grado, oltre che la netta maggioranza dei proprietari di parchi e giardini, si dedicano ad eliminare gli alberi con uno zelo proporzionale alle dimensioni delle piante: più sono grandi, più volentieri si abbattono.  Perfino il codice stradale prevede l’eliminazione delle alberature che, fino a qualche decennio fa, costituivano il vanto di molte strade.
Il risultato è che il patrimonio arboreo urbano è tracollato e continua ad essere falcidiato giorno per giorno con uno zelo difficile da capire.  Vediamo quindi brevemente i principali motivi addotti per giustificare tutto ciò.

1 – Gli alberi sono pericolosi perché provocano incidenti.   Questa è semplicemente demenziale, non si è infatti mai visto un albero pararsi davanti ad un’auto in corsa, mentre spesso sono gli automobilisti che vanno a sbattere contro gli alberi, soprattutto dopo aver bevuto assai.

2- Gli alberi sono pericolosi perché cadono.  Questo è vero, ma qualunque cosa sia posta in alto può cadere: pali della luce e del telefono, tetti e cornicioni, persiane e molto altro ancora; eliminiamo tutto ciò? A questo proposito, un punto importante è che ciò che conferisce stabilità ad un albero è prima di tutto la buona salute che è difficile da diagnosticare con certezza, mentre è molto facile da danneggiare.  In questo campo amministrazioni pubbliche e privati cittadini sono maestri.  Il metodo più diffuso ed efficace per minare irreversibilmente la salute di una grande pianta è capitozzarne i rami principali.   Anche lo scavo di trincee attraverso gli apparati radicali è un metodo in voga e molto efficace, mentre asfaltare e/o cementare a ridosso della pianta porta a risultati più incerti e differiti nel tempo.   Per buona misura comunque, spesso si usano tutti e tre i sistemi ed i risultati infatti non mancano.   Spesso ciò deriva da grossolana ignoranza, ma talvolta viene fatto scientemente perché quando una pianta è gravemente malata è davvero pericolosa e nessuno può ragionevolmente opporsi al suo abbattimento.
In estrema sintesi: non esiste un modo per essere certi che un albero non cada mai, ma esistono molti modi per accertarsi che cada e tutti fanno parte delle ordinarie “cure colturali” cui sono sottoposte le alberature urbane,

3 – Gli alberi occupano spazio.  Vero, infatti spesso si eliminano per ampliare carreggiate e parcheggi.   Oggi lo spazio fisico è spesso una risorsa limitata, specie in città, e nella competizione fra alberi e automobili vincono le seconde a mani basse.   Alla fine, è solo una questione di priorità.

4 – Gli alberi sporcano.   Con il termine “sporco” di solito ci si riferisce alle foglie secche, ma anche agli esudati che talvolta stillano durante l’estate e perfino al guano degli uccelli.   Parlando di parchi e giardini, le foglie sono semplicemente quella cosa che è necessaria per mantenere la fertilità del terreno e, dunque, la buona salute del giardino stesso.   Certo è necessario toglierle da certe zone ed ammucchiarle in altre, ricordandosi che un parco od un giardino non sono la stessa cosa di un salotto e che il suolo è un sistema dinamico assai più complesso di un pavimento.  E noi, membri della società più complessa mai esistita, amiamo prima di tutto le cose lisce e prive di vita: il lastrone di cemento corrisponde al meglio al nostro concetto di “pulito”.    Anche se magari è coperto di polveri cancerogene.
Parlando invece di strade e piazze, la faccenda effettivamente si complica perché è necessario spazzare le foglie prima che intasino le fognature.   Un fatto che ci rimanda al punto seguente.

5 – Gli alberi costano.    A seconda di dove e come sono, può effettivamente essere necessario potarli e, comunque, è necessario raccogliere le foglie cadute.   Dunque che costano è vero, ma se si scelgono le piante giuste per i posti giusti, sono assai poco dispendiosi, mentre danno un contributo insostituibile per rendere vivibili anche i quartieri più degradati. Sono molti gli studi che hanno cercato di quantificare i vantaggi delle alberature urbane ed i risultati sono tanto impressionanti quanto inutili.  Infatti, per quanto i vantaggi possano essere numerosi, sui bilanci pubblici e privati figurano in modo molto indiretto e complicato, mentre le spese per spazzare le strade, pulire gli scoli eccetera sono dirette e ben evidenti. Come nel caso delle esternalità negative, che pure stanno falcidiando intere economie, anche le esternalità positive non riescono a penetrare le meningi di amministratori ed amministrati.

6 – Gli alberi danneggiano le strade ed i marciapiedi. Questo a volte accade per difetto di chi ha costruito strade e marciapiedi troppo a ridosso delle piante, ma talaltra deriva da una scelta sbagliata degli alberi da usare.  Per esempio, si sa benissimo che il pino domestico solleva l’asfalto anche a parecchi metri di distanza dal tronco.   Ci sono casi in cui può quindi essere necessario sostituire le piante.  Cosa che effettivamente talvolta viene fatta, solitamente piantando qualcosa che resterà certamente piccolo e poco frondoso.  E se poi non sopravvive al trapianto, tanto di guadagnato (v. punti precedenti).

E dunque? Come per molti altri aspetti connessi con l’insostenibilità e con la corsa collettiva verso il futuro peggiore possibile, l’unica cosa che è possibile fare è proteggere gli alberi propri, anche se questo significa assai spesso avere grane coi vicini.  E se le grane approdano in sede legale, sappiate da subito che sempre e comunque l’albero perde.

Per quanto riguarda le alberature pubbliche, le poche e spuntate armi a disposizione sono i consueti comitati di piantagrane e la ricerca spasmodica di un cavillo legale cui appigliarsi.  Niente di risolutivo, s’intende, ma serve a guadagnare tempo, sperando che nel frattempo qualcosa cambi. Talvolta succede e quindi vale la pena provarci.