Crisis e Renzi? Storia lunga….

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…Non perché lo conosca personalmente, sia chiaro, benché l’abbia incontrato più di una volta, per motivi istituzionali o, più semplicemente, perché andava a mangiare dal mitico Lino, dietro casa mia…

Mi sa che avete idea di come la pensi OGGI, sul nostro esimio.

Per sapere come la pensassi in tempi non sospetti, sette anni fa, ecco qui un post del 2009,  ripescato da Debora ( che ringrazio).

16 febbraio 2009

Le primarie del PD per le elezioni a sindaco di Firenze sono state vinte da Matteo Renzi, 34 anni, attuale Presidente della Provincia di Firenze, uno dei più giovani esponenti politici locali e italiani. In fondo dovremmo essere contenti, perchè vince un giovane, perchè è un tipo fattivo, perchè finalmente si parla di sostenibilità, di sociale, etc etc. Premesso che i politici vanno visti alla prova dei fatti, è tuttavia disarmante che un giovane, probabilmente di freschi studi abbia idee cosi confuse in campi essenziali come quelli della sostenibilità ed in particolar modo sia ancora convinto che sia una buona idea realizzare NUOVI inceneritori per non ridursi ad un “sudiciume come è successo a Napoli”. Potete verificare da soli. in una intervista rilasciata recentemente, quale sia a grandi linee il Renzi-pensiero. Certo: la buona volontà non manca, si parla di recupero di spazi verdi, dell’interessante progetto di recupero e restauro delle fatiscenti pescaie dell’Arno a fini idroelettrici, del risparmio energetico, si danno incentivi infomrazioni e chiarimenti tramite uno sportello apposito della Provincia, ma insieme si mescola un populismo minaccioso nei confronti di chi ha cercato e cerca di far presente che gli inceneritori NON sono una buona idea e altri discorsi che non promettono molto di buono a chi, sulla base di fatti e dati scientificamente raccolti e presentati, cerca di spiegare che il consenso popolare di area vasta non è e non può essere l’unico metro di giudizio nelle scelte strategiche sul territorio e che le evidenze scientifiche vanno rispettate e considerate. Probabilmente siamo incontentabili, noialtri aspisti, probabilmente mi sarebbe piaciuto che prendesse una decisa posizione nei confronti della mobilità alternativa, probabilmente da un giovane che si dice attento alle politiche ambientali si pretende istintivamente di più che da una vecchia volpe della politica. Sarà tutto questo ma non riesco a togliermi il dubbio che il candidato sindaco del PD abbia scelto, d’istinto, di cavalcare un’onda che cresce nella società senza farsi carico di andare troppo al di là delle iniziative di più sicuro successo e presa politica.16 Piuttosto che niente meglio piuttosto, come si suol dire. Rispetto a quel che passa il convento, a Firenze dovremmo essere soddisfatti. In ogni caso mi sento di far presente al potenziale futuro sindaco che dovrebbe tenere conto che certe affermazioni, alla lunga, potrebbero ritorcersi contro di lui; non c’e’ bisogno di dire che la politica, da lungo tempo ha ben appreso l’arte del recupero e del riciclo; schierarsi con decisione a favore degli inceneritori potrebbe metterlo in una situazione difficile, qualora la realtà si incarichi di riportarlo, alla dura necessità di un accordo con le popolazioni che si devono sciroppare nuove emissioni inquinanti vicino alle proprie case, anche se queste costituiscono una minoranza della popolazione. Le bugie hanno le gambe corte: gli inceneritori inquinano, punto e basta. Non credo che chiedere aiuto al governo centrale o precipitare la città in una emergenza come quella di Napoli, dichiarando di NON volercela precipitare, sia una buona idea. In questo caso il nuovo che avanza, inteso come quello di cui non si sa che fare, insomma, quello avanzato, lungi dall’essere riciclato, potrebbe fare la fine da lui proposta per i rifiuti non differenziati.

Il fotovoltaico, l’EROEI e le bufale, parte seconda

grafico costo WpDicevamo che il pannello da 220 Wp che abbiamo preso ad esempio, installato dalle parti della Lavandaia ( Firenze) immetterebbe in rete circa 286 kWh/anno.

E nella sua vita media?

Beh, anche qui dipende dal valore che adottiamo per la sua vita media. Di solito si assume 25 anni ma molti parlano di 30. Questo perché i pannelli installati 30 anni fa funzionano ancora, sia pure con una potenza ridotta di circa il 30%.

Considerando il degrado nel tempo, le rotture etc etc, la Lavandaia assume un valore pari alla garanzia del costruttori, che solitamente è di 20 anni.

Quindi il pannello in questione produrrà circa 286*20=5720 kWh, in 20 anni.

Per capirsi, è l’energia contenuta in circa tre barili di petrolio e spiccioli. In termini di emissioni evitate per la produzione di energia elettrica, questo dipende ovviamente dal paese in cui è installato In Italia possiamo valutare un valore equivalente circa doppio, 6 barili di petrolio.

Quanto fa 5720/154?

37. Questo è l’EROEI del pannello in quanto tale. Poi ovviamente dobbiamo considerare il suo smaltimento, la manutenzione etc etc.

Fate quel che volete ma non arriveremo MAI ai valori tipici di letteratura, da 6 a 10 o, se per quello ai valori da 2 a 3, di alcuni veri e propri negazionisti delle rinnovabili.

Capite bene che, di fronte a questi dati, certi articoli, purtroppo scritti da persone teoricamente non schierate contro le rinnovabili o appartenenti a qualche lobby, nonostante tutta l’artiglieria accademica, sono destituiti di QUALUNQUE credibilità

Anche perché, dal 2013, data dell’articolo da cui ho estratto i dati citati , i pannelli in commercio hanno aumentato la loro efficienza, gli spessori si sono assottigliati, si sono diffusi materiali diversi dal silicio (i panelli in CD-Te hanno costi energetici circa dimezzati per il combinato disposto di vetri più sottili, assenza di cornici in alluminio e film estremamente più sottili).

Non solo: come avete visto, la maggior parte del costo energetico è legata al vetro ed alluminio. Due materiali perfettamente riciclabili.

Visto che le regole per la fine vita dei pannelli sono rigidissime (chiedete ad un produttore di energie rinnovabili per chiarimenti) possiamo dare per CERTO che tali materiali non solo potrebbero ma SARANNO riciclati.

Quindi restano poche decine di kWh, alla fine, quelle per le plastiche ed il silicio che purtroppo non è recuperabile, con la necessaria purezza e deve quindi essere prodotto ex novo per ogni pannello.

QUINDI, di nuovo, il valore trovato, 37, tenendo conto del riciclo OBBLIGATORIO del vetro e dell’alluminio è una stima PER DIFETTO:

Ora, la cosa va messa in prospettiva: un EROEI di 30 o più è migliore di quello della maggior parte degli attuali giacimenti petroliferi. in sostanza per un barile di petrolio cavato OGGI, tenendo conto dell’energia consumata per la ricerca, lo sviluppo il mantenimento delle attività estrattive è situata da qualche parte tra 5 o meno (scisti sabbie bituminose etc etc) e 80, per i giacimenti storici degli anni 60.

Per quelli in sviluppo ora, siamo intorno a 20, nei casi migliori.

Ragionevolmente, con l’esaurimento progressivo dei vecchi giacimenti giganti, l’EROEI del petrolio si avvicinerà a questi ultimi valori.

In pratica GIA’ OGGI possiamo dire che il fotovoltaico è una delle migliori forme di investimento energetico e la cosa è destinata decisamente a migliorare, dove si tenga conto dei nuovi materiali nuove tecniche di produzione e riciclo.

Non escluderei che si possa arrivare a valori pari o superiori a quelli del petrolio dei bei(?) tempi eroici.

Volete una verifica empirica e puramente monetaria?

Anche per un numero ridotto i pannelli si vendono QUI, in Italia al dettaglio, a poco più di 500 euro/kWp. In India stiamo a 400 euro/kWp.

SE avessero ragione quelli che sostengono EROEI così basse ci vorrebbero circa 2000 kWh per produrre UN pannello.  Del costo di circa 100-120 euro.

Visti i costi dell’energia elettrica nel mondo, ANCHE IN CINA ci vorrebbero circa 150-200 euro solo di bolletta energetica per produrre un pannello. E quindi?

QUINDI, è ovvio, l’energia non può essere che una componente del costo del pannello. Se consideriamo un costo industriale all’origine pari alla metà del prezzo di vendita, 60 euro, ecco che l’energia deve essere una quota di questo costo, ad esempio la metà.

30 euro sono, in Cina, da 400 a 300 kWh. Come si vede, è una stima LARGAMENTE abbondante. E’ probabile che, attualmente, l’energia non sia più la componente principale di costo di un pannello fotovoltaico.

Eppure, anche così, corrisponde ad un EROEI 15-20, sempre il doppio della letteratura.

Forse è tempo di aggiornarla, questa letteratura?

Il fotovoltaico l’EROEI, le bufale e la lavandaia

lavandaia presepePotreste averlo letto, in qualche forma:

  • il fotovoltaico consuma più energia di quanta ne produca ( bufala scaduta, non si azzarda più nessuno)
  • il fotovoltaico ha consumato più energia di quanta ne abbia prodotta ( bufala più sottile, prossima scadenza, di moda fino ad alcuni anni fa, cfr. ad esempio, questo link, che si basava su una crescita stellare della produzione mondiale e su dati di stima ultravecchi per i costi energetici di produzione).
  • Ci vogliono anni di tempo perché un pannello, specie se prodotto in Cina, ripaghi il debito energetico ed ambientale ( CO2 emessa, etc etc) contratto per costruirlo. Ecco QUESTA è anch’essa una bufala, purtroppo fatta propria anche da qualche ambientalista e climatologo insospettabile. Come tale meritevole di un approfondimento e sbufalamento adeguato.

Come stanno Le cose, DAVVERO? Intanto  il calcolo dell’EROEI, ovvero dell’Energia prodotta in rapporto a quella investita per produrla, per una data fonte di energia è una questione complessa, che dipende dagli assunti che si fanno e da quanto si allarga l’orizzonte temporale e lo scenario all’interno del quale si considerano i flussi energetici. Vale, ad esempio, l’energia consumata nelle guerre per il petrolio, quando si calcola l’EROEI di un barile? E il costo energetico degli ingorghi? e il carburante consumato dalle petroliere?  Capite bene che, allargando il cerchio a sufficienza, si può provare tutto d il contrario di tutto.

Fortunatamente, per il fotovoltaico, la cosa è relativamente più semplice. Perché un pannello è composto di relativamente poche parti e di queste ancora meno sono quelle significative per il calcolo del suo costo energetico.

Compito quindi per la lavandaia, che indossato un grembiulino pulito e la cuffietta, si mette all’opera.

Intanto un pannello fotovoltaico da cosa è costituito?

Limitiamoci ai più diffusi, basati sul silicio.

Un pannello, potrete vederlo, tra i tanti possibili, a questo interessante link, punto 8 (che tra l’altro chiarisce un’altra questione spesso sollevata, quella del riciclo dei pannelli a fine vita) è costituito da

-vetro

-silicio

-alluminio

-rame

-plastiche

Nel dettaglio, tratto dal documento citato e riferito ad un pannello in silicio 220 Wp ( attualmente un pannello del genere è da 250-270 Wp) su 18 kg di peso del modulo abbiamo:

1,76 kg alluminio

14,41 kg di vetro

0,85 kg di silicio

0,77 kg di plastiche ( tedlar)

70 grammi di cavo di rame.

altri materiali:

140 grammi.

Fino a qualche anno fa produrre il silicio era una cosa rognosa ed energeticamente dispendiosa, centinaia di kWh per ogni kg di silicio . Il progresso della tecnica, unito al fatto che per il silicio da utilizzare nei pannelli non è necessaria una purezza spinta, al contrario di quello per l’elettronica, ha portato a ridurre moltissimo questi consumi. Ecco perché gli studi fatti su dati vecchi anche solo di pochi anni, sono irrimediabilmente superati dalla realtà

Cominciamo quindi dal silicio: molti testi che calcolano un EROEI tra 7 e 10per il fotovoltaico”classico” policristalino, riportano un valore superiore a 100 kWh/kg di silicio. Non è più così. Visto che il processo usato è stato ampiamente commercializzato dalla Siemens, ecco i valori ATTUALI per produrre il silicio con i nuovi processi, per un reattore siemens. 45 kWh/kg

E il vetro? da poco più 6 a 3 kWh/kg ( se di recupero)

E l’alluminio? circa 13 kWh/kg (6 se di recupero)

E il rame? Circa 13 kWh/kg

E le plastiche? valori variabili ma intorno a 6kWh/kg

Trascuriamo gli altri materiali, in quanto non specificati  ( comunque pochi etti)

QUINDI: per produrre un pannello da 220 Wp ci vogliono circa

86 kWh per il vetro

38 kWh per il silicio

23 kWh per l’alluminio

5 kWh per le plastiche

1 kWh per il rame

1 kWh per gli altri materiali ( valore medio dei materiali sopracitati con esclusione del silicio)

Totale?

154 kWh.

In un anno un pannello da 220 Wp, alla latitudine dove abita la lavandaia di Via dell’Oche, nel clima italico, immetterà in rete circa 1300 volte la sua potenza di targa. ovvero 1300*0.220= 286 kWh.

286 kWh !!!

( continua)

Domesticazione umana

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Il tema della ‘domesticazione umana’ era già stato introdotto in un mio precedente post, ma credo valga la pena di svilupparlo meglio perché consente di inquadrare nella giusta prospettiva fenomeni che risultano ‘inspiegabili’ con le chiavi di lettura attuali. Ancora ieri si ragionava di incidentalità stradale, dell’aggressività alla guida, dell’insufficienza nelle reazioni messe in atto nel corso degli anni (campagne informative inefficaci o totalmente sbagliate, mancato adeguamento della legislazione e via dicendo…), con diverse persone che sottolineavano l’incomprensibilità di certi accadimenti.

Per approcciare la questione va fatto un lungo passo indietro, fino al lunghissimo arco di tempo (dal 15.000 al 4.000 a.C.) nel corso del quale l’Homo Sapiens ha addomesticato altre specie animali e vegetali, selezionando le varietà più utili e sostanzialmente stravolgendo il genoma di una porzione importante della biosfera.

La domesticazione coinvolge aspetti diversi. Nelle piante quello che si ricerca da principio è la produttività. Le piante da frutto utilizzano gli animali per massimizzare la diffusione dei propri semi (i frutti vengono mangiati ed i semi ‘diffusi’ assieme alle feci su un areale più vasto, passando indenni attraverso i processi digestivi). L’umanità seleziona le varietà con i frutti più grossi e gradevoli, e ne crea coltivazioni intensive.

L’esito finale può essere disastroso per la specie domesticata. Nel grano originario, ad esempio, i semi si staccano spontaneamente dalla spiga cadendo a terra per la semina dell’anno successivo. Ma questo non è funzionale alle esigenze umane, cosicché nel tempo si sono selezionate varietà di grano nelle quali i semi non si staccano. Varietà che non avrebbero modo di sopravvivere nell’ambiente senza l’intervento umano.

Con gli animali si sono prodotte dinamiche analoghe. Gli animali, a differenza delle piante, devono adattarsi alla vita in cattività, cosa non scontata. Jared Diamond spiega che alcune specie non sopportano di venir rinchiuse in recinti, si scagliano contro le pareti tentando di fuggire fino a morirne. Altre specie si adattano alla prigionia ma non si riproducono in cattività, cosa che rende impraticabile l’allevamento.

L’animale che per primo fu domesticato fu il lupo, utilizzato dai nostri antenati come aiuto nella caccia ed in seguito sottoposto ad una infinita serie di selezioni arbitrarie fino a produrre tutte le varietà esistenti di specie canine, dall’alano al chihuahua passando per bassotti, levrieri, molossi e barboncini.

La nostra stessa specie non è passata del tutto indenne attraverso questa fiera delle mostruosità, nonostante gli adattamenti prodotti nel tempo siano di natura più psicologica che morfologica. L’umanità nasce come una specie di cacciatori-raccoglitori nomadi che, in seguito all’invenzione dell’agricoltura, diviene stanziale, comincia ad intervenire sull’ambiente circostante su larga scala, crea comunità numerose e dà infine vita agli aggregati chiamati città.

L’esistenza delle città dipende dall’accettazione della coesistenza fra centinaia, poi migliaia, di individui. Questo è il primo adattamento psicologico richiesto: la capacità di convivere in gruppi estremamente numerosi, di essere circondati costantemente da sconosciuti, di entrare in relazione con essi attraverso un linguaggio comune, convinzioni comuni, ideologie condivise. Le città nascono grazie al potere militare che sono in grado di esprimere nei confronti delle popolazioni circostanti e sono tenute unite da religioni ed ideologie.

Il faticoso adattamento alla vita collettiva, agli spazi chiusi, trova come contraltare una maggior sicurezza, la protezione di un esercito, l’abbondanza di cibo rispetto a quelli che restano a vivere isolati nelle campagne, a contatto con la natura. Gli individui che mal sopportano questa forzatura diventano viaggiatori, esploratori, mercanti, avventurieri, gli altri ingrossano le fila dei ‘residenti’, vivono vite sicure e tranquille e si riproducono a ritmi molto elevati.

Fabbrica
Questo processo ha condotto, nel corso dei millenni, ad una mutazione antropologica di una parte consistente (numericamente maggioritaria) della nostra specie. Veniamo allevati in cattività, abituati fin da subito a vivere circondati da barriere protettive (le mura di casa, della scuola, gli abitacoli dei veicoli con i quali ci spostiamo), fino a perdere, in tutto o in parte, la familiarità con l’ambiente naturale dal quale abbiamo avuto origine.

Questo sradicamento, questa alienazione, quest’esperienza di vite sempre più artificiali verso cui la modernità ci spinge, disarticola la nostra stessa cognizione del mondo. Se le civiltà del passato erano ancora in grado di collocare sé stesse all’interno di un sistema naturale, di percepire i cicli e le esigenze della vita sul pianeta, la nostra cultura se ne è allontanata a tal punto da renderne i segnali d’allarme indecifrabili.

Così, mentre catastrofi epocali avanzano di giorno in giorno, la desertificazione (solitamente di natura antropica) erode i continenti, l’atmosfera si surriscalda a causa delle tonnellate di gas serra rilasciate quotidianamente, gli oceani si acidificano, i ghiacciai millenari si sciolgono, le specie viventi selvatiche si estinguono in massa, l’umanità non riesce a vedere oltre i confini dei recinti nei quali si è spontaneamente rinchiusa, delle gabbie in cui si è abituata a vivere e che diventano via via più strette ed opprimenti.

Come gli allevamenti industriali hanno progressivamente sostituito i pascoli, così le città contemporanee hanno sostituito quelle antiche, incrementando l’isolamento individuale grazie anche al cambiamento degli stili di vita. Rispetto al passato abbiamo città e case più ingombre di oggetti e passiamo molto più tempo in compagnia di macchine da intrattenimento che non coi nostri simili.

Negli allevamenti industriali gli animali sono compressi in spazi ridotti, mutilati per impedire aggressioni reciproche, sovralimentati per farli aumentare rapidamente di peso prima della macellazione. Gli ‘allevamenti umani’ della società consumista non sono molto dissimili, anche se rispondono ad una logica leggermente diversa. ‘Dobbiamo produrre, dobbiamo consumare’: questo è il valore degli individui all’interno del meccanismo. Più produciamo, più consumiamo, più plusvalore i nostri governanti (politici, ma sempre più spesso economici) riescono a ‘mungere’ per sé.

Lo stress urbano, l’aggressività, la violenza, sono figlie della cattività, del vivere gomito a gomito con migliaia di sconosciuti, della compressione delle nostre esigenze di spazio, silenzio, solitudine e libertà. Esigenze di cui siamo stati privati per un arco di tempo talmente lungo da non renderci più in grado neppure di riconoscerle, o dargli un nome. Un vivere quotidiano talmente opprimente da non lasciarci le capacità mentali per guardare oltre, per vedere un pianeta in lento e progressivo disfacimento. Men che meno le energie per invertire la rotta.

Allevamento intensivo

Estrema destra ancora vittoriosa! Domande?

MerkelDomenica scorsa il partito austriaco di estrema destra è diventato il primo del Paese.   Socialisti e democristiani, tradizionali partiti di riferimento, sono praticamente scomparsi.   Ci sono domande?    Penso parecchie.
La cavalcata dell’ estrema destra non solo europea, ma anche americana, cominciò in sordina negli anni ’90.   Considerato allora un fenomeno marginale, oggi sta riempiendo le agende delle think tank e degli analisti; turbando i sonni di un sacco di gente.   Non tenterò qui un riassunto di una tale mole di analisi su di un soggetto così complesso.    Semplicemente vorrei proporre qualche considerazione personale che spero possa contribuire, sia pure minimamente, ad arginare il fenomeno.

destra franceseLa prima è questa: di turno elettorale in turno elettorale l’ estrema destra avanza.  Possibile che tanta gente che votava socialista o democristiano (intesi in senso europeo, molto lato) si stia svegliando nazista o fascista?   Personalmente penso che sia poco probabile.   L’ estrema destra ha sempre avuto una sua nicchia, ma marginale era e penso che marginale rimanga.   La massa di voti che raccoglie ha tutta l’aria di essere un voto di protesta e/o di paura.   Niente di particolarmente nuovo, dunque, ma che rischia di generare degli effetti a medio termine perversi.

destra austriacaSospinti dal voto di protesta, i leader dell’ estrema destra andranno probabilmente al potere, dove potrebbero fare dei danni irreparabili.   Specialmente se i governi moderati in carica continueranno a preparare loro in terreno.
Dunque la prima cosa da fare sarebbe capire quali sono i principali argomenti che suscitano nella cittadinanza questo tipo di rischiosa protesta.   Per farsene un’idea, il modo più semplice è osservare quali sono i pochi punti che accomunano la maggior parte dei partiti e dei movimenti di maggior successo, peraltro assai eterogenei.   Direi che i principali sono i seguenti: la recessione con annessi e connessi, la corruzione, l’immigrazione, la sicurezza, il nazionalismo.   Non necessariamente in quest’ordine.

Dunque vediamoli brevemente uno alla volta per vedere se sono possibile delle parate, almeno parziali.

Recessione.

recessioneQuesta è la “madre di tutte le grane”.   Abbiamo costruito il nostro sistema politico basandoci sul presupposto che la crescita economica sarebbe durata per sempre e che, gradualmente, avrebbe coinvolto tutti.   50 anni fa già si sapeva benissimo che si tratta di una favola, ma nessun politico importante ha avuto il coraggio di spiegarlo ai suoi elettori.   E nessun corpo elettorale era ed è disposto a sentirselo dire.   Ne consegue questo sempre più frenetico arrampicarsi sugli specchi che inganna sempre meno gente, offrendo buon gioco a chi propone ricette tanto semplici quanto improbabili (ad es. usciamo dall’Euro).   Paradossalmente, proprio perché semplici ed improbabili, simili proposte fanno presa su chi, giustamente, sente di essere stato pesantemente preso per il culo.   Di qui l’inevitabile altalena di politici che ascendono promettendo di avere la ricetta giusta, per poi immancabilmente deludere.

Qui la parata sarebbe particolarmente difficile perché bisognerebbe spiegare come e perché la crescita non tornerà mai più e che questo, fra tutti i mali possibili, è il minore.   Molto difficile che possa funzionare.   Credo che sia persa, anche se mi piacerebbe vedere qualcuno che ci prova.

Corruzione.

corruzioneUna certa percentuale di parassiti ci sono sempre stati, ma quando diventano tanti e sfrontati scatta la modalità “Sono tutti ladri” che è esattamente quello di cui ha bisogno chi si propone come “quello che farà pulizia”.   Sappiamo già che non è vero ma ci piace illuderci.

Qui la parata sarebbe teoricamente facile: piantarla con gli interessi privati in politica.   Ma visto che in parecchi non lo fanno, forse è meno facile di quel che sembra da fuori.   Forse, una parziale spiegazione è che per salire di molto sulla la scala gerarchica è necessario disporre di un sacco di soldi, propri o di sostenitori.   E per avere i soldi ti devi legare ad un mondo economico in cui il limite fra l’economia “pulita” e quella “canaglia” sfuma di giorno in giorno.   Una volta che sei arrivato in alto, non solo non puoi abbandonare gli “amici degli amici”, ma oramai sei diventato uno di loro.

Immigrazione

immigrazioneQuesto è forse il punto in cui la classe dirigente sta fallendo nel modo più spettacolare.   Un sacco di poteri forti e deboli hanno un sacco di interessi legittimi e non in quest’affare ed ognuno tira il governo dalla sua parte, col risultato che assolutamente niente di quello che è stato fatto dai primi anni ’90 ad oggi ha il benché minimo senso logico.   I risultati non possono che peggiorare man mano che il fenomeno cresce all’interno di sistemi sociali progressivamente fragilizzati dalla crisi economica.

In generale io rifiuto la logica binaria, ma in questo caso credo che potrebbe esserci di aiuto.   Credo che ognuno, nel silenzio della sua cameretta, dovrebbe porsi questa domanda: L’Italia (o l’Europa) è sovrappopolata?   Si o no?   Barrare la casella.   Se si sceglie “Si”, allora è vitale stabilire un efficace controllo delle frontiere esterne e decidere chi facciamo passare e chi no.   Fra “tutti” e ”nessuno” ci sono parecchie opzioni possibili, ma nessuna con tutti sono contenti e nessuno si fa male.   Qualunque scelta facciamo ci saranno dolore e morte.   Se si sceglie “No”, allora l’unica cosa sensata da fare è un servizio regolare di traghetti che prendono la gente e la porti qui.   Ma anche in questo caso ci saranno dolore e morte.
Questo perché, purtroppo, la risposta corretta è “Si, parecchio” e continuare a negare che abbiamo un drammatico problema di quantità di gente serve solo ad aprire la strada chi sostiene che il problema è la qualità.
Il mio parere di ecologo professionista e storico dilettante è che società multietniche e multiculturali sono difficili, ma gestibili (con qualche incidente) ed è vero che la diversità è ricchezza.   Ma e’ anche vero che la nostra economia ed i nostri ecosistemi stanno collassando e che ogni persona in più, anche se rimane nel novero dei poveri, non fa che accrescere un’impronta ecologica già esorbitante.   E non è neanche vero che si potrebbe compensare riducendo lo standard di vita degli autoctoni.   Cosa che, fra l’altro, sta già accadendo (v. recessione) e non sono in molti a rallegrarsene.
Ridurre i propri consumi è infatti esattamente quello che è necessario fare per distruggere il più rapidamente possibile quello che resta della nostra economia industriale.   Una scelta che si può anche fare, ma che andrebbe fatta coscienti delle conseguenze.
Certo, dal momento che gli immigrati sono il 10% della popolazione europea, sono anche il 10% del problema dal punto di vista demografico ed ambientale, ma crescono al ritmo di circa due milioni l’anno e in dinamica dei sistemi le tendenze sono fondamentali.

Sicurezza

terrorismoCi sono due minacce che spaventano: la criminalità ed il terrorismo.

Quanto alla prima, è importante notare che il rapinatore od anche il topo d’appartamento sono assai più temuti del mafioso, autoctono o di importazione che sia.   E la criminalità spicciola è in buona misura una funzione sia della densità di popolazione che della povertà.   Aumentando la quantità di gente e la percentuale di poveri non può che aumentare, quale che sia l’origine dei poveri.

Quanto alla seconda, la probabilità di essere ammazzato da un pazzoide (islamista o meno) è enormemente più bassa di quella di prendersi un cancro, un infarto o di finire sotto una macchina, perfino a Baghdad.   Tuttavia i terroristi sono effettivamente riusciti a terrorizzarci, col risultato che, dal 2001 ad oggi, gli apparati di spionaggio e repressione si sono moltiplicati e raffinati considerevolmente.   Altri passi in questo senso saranno fatti al seguito di ogni futuro attentato, finché saremo completamente prigionieri di noi stessi.   Il confine fra “protezione” e “sopraffazione” tende a sfumare con l’aumento di intensità della protezione.   E cosa di meglio per un partito che aspirasse ad instaurare un governo autoritario che trovarsi l’intera macchina della “psicopolizia” già avviata e rodata?

Qui la parata comporterebbe una strategia di comunicazione complessa, tesa a dare una visione più realistica  dei rischi reali.   Ma questo non consentirebbe facili speculazioni elettorali neanche ai governi in carica.

Nazionalismo.

nazionalismoNella storia del mondo sono state sperimentate migliaia di forme di stato.   La nazione, intesa come sincretismo di un territorio contiguo, una popolazione omogenea ed un governo è un’invenzione del XIX secolo europeo.   Ed è stato il più fallimentare degli esperimenti politici della storia umana.   Due volte i paesi principali europei hanno avuto governi nazionalisti e ne sono scaturite le due guerre più devastanti della storia del mondo.   Alla fine, l’Europa che 50 anni prima dominava incontrastata il mondo, era ridotta ad un pugno di colonie chi della Russia e che degli Stati Uniti.   Evviva!  Riproviamoci!

Qui la parata richiederebbe innazitutto di insegnare la storia nelle scuole.   Poi ci vorrebbe una radicale ristrutturazione delle tremendamente ridondanti istituzioni europee.   L’autorità centrale dovrebbe essere da un lato ristretta a pochi temi vitali (ad es. ambiente, difesa, politica estera, macroeconomia).   Dall’altro, dovrebbe essere svincolata dal controllo dei governi nazionali.   Ma si da il caso che, di tutte le istituzioni europee, la meno soggetta al controllo nazionale è il parlamento, cioè quella che conta di gran lunga meno.   Viceversa, chi davvero decide è il Consiglio dell’Unione Europea che è composto dai rappresentanti dei governi nazionali (ministri o capi di governo, secondo gli argomenti).  Ed al suo interno, l’Eurogruppo, che non è neanche un’istituzione, ma semplicemente il club dei governi che hanno adottato l’Euro.

Conclusioni

Insomma, io credo che fermare la cavalcata dell’ estrema destra si potrebbe, ma non sarebbe facile e, soprattutto, richiederebbe un buon bagno di realtà tanto per i governanti che per gli elettori.   Non mi sembra che ne abbiano molta voglia né gli uni, né gli altri.

 

La gente, le persone e noi

La_genteL’avrete notato. Un politico italiano tipico, parla di gente. Non di persone. E’ la gente che vuole questo e quello, anzi lo esige. Lui parla alla gente. Per la gente, della gente e sta, ci mancherebbe, dalla parte della gente. Eventualmente la ggente con due gg.

Ugualmente i giornali usano lo stesso termine per le loro campagne.

In pratica la gente è un alibi clamoroso: serve per dare ad intendere che quel che chiediamo ed intendiamo e vogliamo, a qualunque titolo, è supportato da una moltitudine insieme numerosa e significativa. O, al contrario, per trasformare le persone in un blob, qualcosa di scoraggiante e inerte da convincere, smuovere, convertire, plasmare.

“La gente” infatti, da’ istintivamente l’idea di una massa maggioritaria, confusa, comunque in qualche modo circoscrivibile,  ma non definita ne pesata, né compresa ne comprensibile.

La gente, caro lettore, è la scusa che tutti usano, anzi tutti usiamo, per giustificare quel che NOI pensiamo, per cercare appoggio e conferma; oppure, al contrario, conferma di un bersaglio contro cui genericamente, inveire.

Invece “la gente”, caro lettore, caro Matteo, cari tutti, siamo noi. sono persone che studiano, pensano faticano si innamorano lavorano, non lavorano, si ammalano, invecchiano sperano , deludono tradiscono, ci credono, dubitano infamano, si illudono, sognano, muioiono, crescono, nascono, si divertono, piangono, ridono, capiscono, ignorano….

Non abbiamo bisogno della “gente” caro lettore, per esprimere le nostre opinioni. Non abbiamo bisogno di alibi, di scuse, di appoggi. Non abbiamo bisogno ( veramente si, ma non di questo genere) di conferme, di solidarietà, di un moloch indefinito contro o per cui lottare.

No, noi abbiamo bisogno, TUTTI abbiamo bisogno, di ricordarci che la gente sono persone. Come noi ma diverse. Come noi stessi siamo diversi da quel che eravamo e da quel che saremo. Smettiamo di usare questo brutto termine, generico superficiale, paraculo ed usiamo il termine persone. La gente non ha diritti ne doveri. La gente è PLASMABILE, come la trilaterale ha auspicato, riguardo all’Italia giusto pochi giorni fa. Le persone pensano, la gente, no. La gente si fa condurre, ciecamente, dal,pastore, buono o cattivò che sia. Le persone possono essere ingannate, instradate e convinte che , in fondo, la gente sono gli altri. Gli amorfi, i plasmabili sono quelli, la ggente, non loro figuriamoci. Per essere esatti, si ingannano da sole, le persone, mentre si fanno convincere a comprare l’ennesimo oggetto “esclusivo”, a fare l’ennesima vacanza “esclusiva”, insomma: a separare il loro indispensabile e irripetibile io da quella massa informe, la ggente.

Alla fine, per una persona sottoposta per tutta la vita al tam tam,  “la gente” sono tutti quelli che non conosce, massa amorfa e potenzialmente infida, una tacca sotto le persone.

I migranti.? Quando va bene, “povera gente”.

Poi ti capita di sentire un medico volontario che ti racconta di come gli occhi gli si siano aperti per davvero quando ha scoperto che un membro di quella,povera gente, che stava curando, insieme al figlio, era un collega. Un dottore scappato dall’inferno di Aleppo. In quel momento, per lui, la gente e’tornata ad essere fatta di persone.
Dovremmo ricordarcelo per davvero: La gente siamo noi, sempre e quindi quando senti dire “la gente”, non ti chiedere per chi suona la campana e per chi vola l’uccello padulo. Suonano e volano per te.

Non abbiamo Perso!

Pubblico una risposta di Luca Pardi, presidente di  Aspo italia  al post di Jacopo sul risultato del referendum.

Abbiamo sbagliato, ma non abbiamo perso.

Il mio amico Jacopo Simonetta è uno di quei pessimisti che, vista la luce in fondo al tunnel la vanno a spengere (la battuta è di Lercio.it e so che lui l’ha apprezzata). Nel suo commento dopo il referendum sulle trivelle ne dice molte giuste, ma legge tutto in chiave negativa. Non è solo. Altri, dopo la sconfitta, si sono incaricati di criticare le scelte sbagliate del movimento ambientalista in questa campagna elettorale e spesso hanno etichettato questo evento politico come l’ennesima sconfitta dell’ecologismo politico. Non sono d’accordo. Ma partiamo dall’inizio e, quindi, dall’istituto del referendum abrogativo. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta, la sua esistenza non è, come è stato detto, “la prova che la democrazia non funziona”, ma un modo in cui si consente ai cittadini di modificare le scelte legislative del parlamento. È in costituzione ed è uno strumento utile quando i quesiti sono chiari e semplici, o comunque semplificabili come nel caso: abrogazione del divorzio: SI o NO? L’insieme dei referendum promossi dalle nove regioni costituivano un corpo di quesiti che, nell’insieme, poteva essere semplificato. Chi avesse votato a favore dell’abrogazione avrebbe fatto una scelta chiara sulla politica energetica nazionale. Il governo si è impegnato a disinnescare l’eventualità di un pronunciamento in questo senso e ha legiferato, accogliendo, almeno in parte, le finalità delle regioni. Dunque già su questo punto sconfitta non c’è stata. Ricordiamoci che a parte le poche decine di piattaforme su cui eravamo chiamati a pronunciarci il 17 aprile, non si potrà più trivellare entro le 12 miglia.

L’errore principale del fronte del SI, che poi coincideva all’80% con il fronte della partecipazione al voto, è stato quello di dare troppa importanza al referendum e attaccarsi agli argomenti meno solidi.  Ci sono argomenti, in campo energetico, sui quali gli “ottimisti razionali” hanno un vantaggio. Sono argomenti marginali come quelli economici (si per me, di fronte alla catastrofe ecologica in atto i temi economici sono marginali). È chiaro che è più facile attrarre consenso parlando delle potenziali perdite occupazionali di attività industriali esistenti piuttosto che contrapporre potenziali vantaggi occupazionali di attività che sono percepite come futuribili. È facile contrapporre ai rischi potenziali o reali dell’inquinamento poco visibile, causato dalle attività estrattive, quello visibilissimo dei liquami in mare a Rimini e in altre località. È inoltre facile per i conformisti energetici solleticare il nazionalismo energetico dei macchinomani del fine settimana. Sappi che dovrai rinunciare alla gita al mare la domenica (quella che da quando c’è la crisi molti italiani fanno dalla mattina alla sera per risparmiare sul costo di pernottamento). Per ogni contestazione di questo tipo si possono trovare esperti autorevoli, professori di questa o quella università, tecnici valenti e scienziati pluridecorati che possono smentire qualsiasi dato.

Si doveva puntare su altro. Ci sono due argomenti che nessun “ottimista razionale” può confutare credibilmente senza venire a patti con la propria onesta intellettuale. Cioè senza mentire sapendo di mentire. E questi due argomenti sono: il cambiamento climatico e l’esaurimento delle fonti fossili di energia. Credo che chi legge sappia già tutto su questi argomenti. La forzante umana è la causa principale del cambiamento climatico, l’uso dei combustibili fossili è il motore di questa causa. Se a Parigi non abbiamo scherzato ogni paese deve varare rapidamente una politica di uscita dalle fonti fossili. E per uscire dalle fonti fossili senza passare per un collasso della nostra civiltà è necessario rinforzare di almeno due ordini di grandezza (un fattore 100) l’attuale infrastruttura basata sulle nuove fonti rinnovabili di energia. Si deve passare dalle centinaia di Giga Watt alle decine di Tera Watt (attualmente il metabolismo sociale ed economico umano è una macchina che consuma 17 Tera Watt) in un paio di decenni. Il programma deve essere chiaro e stringente e si deve sapere due cose, anche gli ambientalisti lo devono sapere: 1) non si può fare questo salto senza accettare il relativo impatto e 2) l’impresa deve essere fatta utilizzando le fonti energetiche esistenti, cioè quelle fossili. Ci sarebbe un terzo punto, politicamente più scabroso, questa transizione non può essere condotta esclusivamente con le regole (ammesso che ve ne siano) del mercato.

Questa affermazione mi scatenerà contro i fautori dell’arbitrio travestito da libertà economica, ma posso farmene una ragione. Il fatto è che nella transizione si dovranno privilegiare usi utili delle fonti fossili perché una quota prossima al 50% delle loro riserve note dovrà restare dov’è per non causare un aumento catastrofico della temperatura terrestre. L’altro argomento inconfutabile è il processo di esaurimento dei combustibili fossili stessi. Avremmo dovuto usare la campagna referendaria per chiarire al grande pubblico il fatto che la vulgata sul crollo del prezzo del petrolio come sinonimo di abbondanza e “morte della teorie del picco del petrolio” è una vera bufala. Il prezzo misura il flusso della materia prima sul mercato e non dice nulla sulla qualità e quantità della riserva. Dalla metà del primo decennio di questo secolo i costi estrattivi crescono costantemente ad un tasso che è dieci volte quello del decennio precedente (i dati vengono dall’IEA e dal FMI), le nuove categorie di petrolio portate sul mercato, che hanno garantito la tenuta del livello produttivo di liquidi combustibili, sono più problematiche da estrarre, più costose e anche più inquinanti.

L’urgenza della transizione energetica è tanto evidente a chi la vuol vedere quanto ineluttabile. Il fatto che questi temi siano rimasti marginali mostra l’immaturità dell’ecologismo che tende a baloccarsi con argomenti ormai superati e spesso tutti sul lato difensivo. Al contrario è arrivato il momento in cui l’ecologismo politico deve rivendicare il punto centrale che l’ecologia ha rispetto all’economia. Una campagna referendaria era un’occasione d’oro per parlare di queste cose al massimo numero di cittadini piuttosto che perdersi a confutare i numeri demenziali di Renzi sull’occupazione o le contraddizioni dei geologi petroliferi sulle trivelle.

Riconosciamo l’errore, ma non buttiamo via tutto correndo a spengere la luce in fondo al tunnel. Un terzo degli italiani comincia a capire, non siamo più l’1 per mille. Proprio perché questo quesito era marginale e difficile rispetto a quello del 2011, sull’acqua e il nucleare, nelle more del disastro di Fukushima, l’affluenza registrata è incoraggiante e significativo il fatto che l’unica regione petrolifera del paese, la Basilicata, ha superato il quorum. Si comincia a capire che da opzione vicente gli idrocarburi sono diventati un’opzione perdente. Per questo i sostenitori degli interessi legati al blocco di potere economico delle fonti fossili sono disperatamente scatenati. E pazienza se trovano il sostegno dei benpensanti che si sono autoproclamati ottimisti e razionali. Siamo sempre una minoranza? Forse. In questi casi mi piace ricorrere ad una citazione attribuita ad Amedeo Bordiga: “noi non siamo pochi, siamo quanti il momento storico richiede”. Tranquilli e “alla via così”, ma sapendo che ci sono argomenti su cui non ci possono dire nulla: clima ed esaurimento delle risorse. Non hanno scampo!

Catastrofe egiziana e cazzeggiare europeo

La visita di Hollande in Egitto.

Hollande e al sisiAlcuni giorni fa il presidente francese, François Hollande, si è recato in visita ufficiale in Egitto e, per l’occasione, sono stati firmati una serie di contratti.   La notizia ha sollevato un certo scandalo fasullo in Italia.   “Cattivi francesi che fanno affari profittando che l’Italia ha delle grane con l’Egitto per via di Regeni”.   Pietosa messinscena, dal momento che noi italiani non abbiamo esitato un attimo a consegnare due dei nostri soldati all’India.   Che neanche li processa e quindi li tiene (lo tiene, perché uno poi se l’è potuta svignare) in ostaggio a tempo indeterminato.   E questo per salvare un contratto da 12 elicotteri che poi (giustamente) è saltato lo stesso.

Dunque, sgombriamo il campo dalla nostra ipocrisia e concentriamoci su quella altrui, tanto per imparare qualcosa.

Durante i discorsi ufficiali, Hollande non ha resistito alla tentazione di fare il maestrino, ricordando al dittatore egiziano che “Il rispetto dei diritti umani è un punto di forza e non di debolezza”.    Al Sisi, gli ha risposto per le rime, dicendo che, evidentemente, gli europei non si rendono neanche conto di cosa succederebbe se esplodesse l’Egitto.

Al di là della schermaglia diplomatica, cosa ci insegna questo fatterello?

Hollande ha detto una cosa perfettamente vera.   Tanto più che per accollarsi le spese e gli obblighi di uno stato la gente ha diritto di avere qualcosa in cambio.   E, tanto per cominciare, da sempre questo qualcosa è l’essere difesi, nei limiti del possibile.
Ma Hollande non è quel presidente che tiene il suo paese in stato di emergenza da mesi e a tempo ancora indeterminato?   Che voleva far passare una riforma costituzionale che gli avrebbe attribuito poteri quasi dittatoriali e che sta mettendo in galera molti più ambientalisti e sindacalisti che Jihadisti?   Quando si dice da che pulpito la predica!

D’altro canto è vero che quella di Al Sisi è una dittatura militare a tutti gli effetti e che quel che è accaduto a Regeni è probabilmente abbastanza frequente che accada agli egiziani.   Anzi, più goffi si fanno i depistaggi degli egiziani, più aumenta il legittimo sospetto che dietro questo crimine ci sia implicato qualche personaggio importante del regime.

D’altronde ricordiamoci che l’alternativa alla dittatura militare è una dittatura islamista non più tenera di quella attuale e, per di più, ben disposta verso forme di “pulizia religiosa” anziché etnica.   Ne abbiamo visto l’assaggio durante la breve presidenza Morsi.

Ma c’è anche la possibilità di una ben peggiore catastrofe egiziana, che è quella a cui ha fatto esplicito riferimento il generale: la disintegrazione dello stato e la guerra civile.   Ed in questo Al Sisi ha detto una sacrosanta verità.
Se accadesse una cosa del genere, l’intero medio oriente salterebbe in aria come un petardo e la massa dei fuggiaschi verso l’Europa non sarebbe più di milioni di persone all’anno (come oggi) bensì di decine di milioni.   Ci troveremmo costretti a decidere molto in fretta se sparare a vista sui barconi e lungo le frontiere, o se essere letteralmente sommersi da una massa di disperati in fuga.

Dunque quello che ha detto Al Sisi è sostanzialmente questo: “Guarda amico che tu hai bisogno di me.   Se io mollo scoppia un casino che né tu, né nessuno dei tuoi amichetti sarebbe neanche lontanamente in grado di fronteggiare.”   Ed ha perfettamente ragione.

Questo ci insegna una prima cosa importante: chi non è capace di gestire i fatti propri li rimette ad altri, ma così affida ad altri la propria sicurezza, finanche la propria esistenza.   Nella fattispecie, si mette nelle mani di personaggi del tipo di Al Sisi e di Erdogan (o Gheddafi, di recente memoria).   Personaggi che non solo sono dei dittatori o degli aspiranti tali, ma che neppure esitano ad alzare il prezzo; non solo in euro, ma anche in sostegno politico e militare.

La catastrofe egiziana.

Quanto potrà durare questa situazione?   Probabilmente non molto.

catastrofe egiziana demografiaLa popolazione egiziana è passata da in 50 anni da 28 a oltre 90 milioni di persone, e continua a crescere ad un tasso superiore al 2%.   Il che significa raddoppio (180 milioni) nel giro di 30 anni.    Nel 2011, quando sono scoppiate le “primavere” erano 82 milioni, nel 2015 (quattro anni dopo) erano già 92!

Il 75% della popolazione ha meno di 25 anni, il che significa che, anche se la natalità crollasse bruscamente, la popolazione continuerebbe a crescere per almeno altri 50 anni (salvo catastrofi).   Inoltre, l’egiziano medio, malgrado sia poverissimo e spesso disoccupato, ha un’impronta ecologica che supera del 200% la disponibilità del paese.   Significa che per vivere come oggi, gli ci vorrebbero 4 paesi invece di uno.   E l’impronta ecologica è un indice notoriamente molto ottimista.

L’estrazione di petrolio ha “piccato” una quindicina di anni fa ed è in calo molto rapido, quindi le importazioni dovranno comunque aumentare molto rapidamente.   Il clima sta peggiorando e la produzione agricola cala, sostituita dalle importazioni, soprattutto dall’Ucraina, paese che qualche problema ce lo ha anche lui.

Il mare si sta mangiando il delta del Nilo, la cui portata sta diminuendo sia per ragioni climatiche, sia per il disboscamento a monte.   Ma soprattutto per le derivazioni d’acqua per irrigazione in Sudan, Sudan del sud ed Etiopia, tanto che già vi sono varie minacce di guerra pendenti.  Una per ogni diga in progetto.

Dunque la catastrofe si sarà con assoluta certezza.   Non possiamo sapere quando, ma sappiamo che fra non molto ci saranno decine di milioni di persone in fuga, con ottime ragioni per farlo.   Cosa pensiamo di fare?
Sostenere il governo, quale che sia e qualunque cosa faccia anche ai nostri cittadini, è un metodo per rimandare il disastro e guadagnare tempo.   Ma la catastrofe egiziana non potrà essere evitata, qualunque cosa facciamo.

Abbiamo una strategia qualunque o pensiamo di continuare a trastullarci fra ignavia ed ipocrisia?

Il plusvalore del caos urbano

Recentemente mi sono chiesto se ci fosse modo di quantificare l’eccesso di spesa per l’auto a Roma. L’idea di partenza è di provare a ragionare l’emergenza traffico dal punto di vista di chi ci guadagna. Nella città dove vivo, senza un motivo apparente, il numero di automobili pro-capite è molto più elevato rispetto a Londra, Parigi ed alle altre capitali europee.

Le cause che producono questa disparità sono tante e già discusse, quello che mi interessa capire ora è di che cifre stiamo parlando. In sostanza, dato che a Roma le deficienze del trasporto pubblico obbligano la popolazione a possedere più automobili, quanto vale questo ‘mercato aggiuntivo’ rappresentato dal surplus di auto che, se Roma fosse una città ben organizzata e funzionante, non avremmo bisogno di acquistare.

Navigando in rete in cerca di dati ho trovato un post del 2014 che propone le seguenti cifre: Roma: 930 veicoli ogni 1000 abitanti – Londra: 314 – Parigi (area metropolitana): 530. A spanne possiamo dire che le auto vendute a Roma sono, rispettivamente, il triplo di quelle vendute ai londinesi ed il doppio di quelle vendute ai parigini.

Il contesto urbano è importante perché è nelle città che i problemi di traffico obbligano ad un’efficiente rete di trasporto pubblico. Proprio grazie all’efficienza e ad una corretta gestione del trasporto pubblico nelle grandi città europee molte famiglie non sentono la necessità di possedere un’automobile.

In cifre assolute il dato è di 2.677.942 automobili nella sola provincia di Roma. Stando a questi numeri, se il trasporto pubblico romano fosse efficiente quanto quello parigino dovremmo conteggiare circa 1,3 milioni di autovetture in meno. Se fossimo ai livelli di Londra la cifra salirebbe a circa 1,8 milioni. Per trasformare queste cifre in soldoni occorre determinare l’incidenza annua del possesso di un’auto.

Quanto costa un’automobile? Quanto dura nel tempo? Alla prima domanda non è semplice rispondere, ma facendo una media tra utilitarie ed auto di lusso credo che si possa parlare di una cifra intorno ai 15.000€. La vita media di un’automobile è, parimenti, stimata in circa 10 anni. Il sito della Federconsumatori conferma quest’ordine di cifre valutando un ammortamento annuo di 1.500€ a veicolo.

Se moltiplichiamo i 1.500€ per gli 1,3 milioni di veicoli “in eccesso” rispetto a Parigi otteniamo una cifra molto prossima a 2 miliardi di euro. Il confronto con Londra porta tale cifra a 2 miliardi e 700 milioni. Tanto vale, ogni anno, per l’industria dell’auto, l’inefficienza del trasporto pubblico romano. Altrettanto, o poco meno, vale per il mercato delle assicurazioni. Il calcolo per il mercato dei combustibili è più complesso.

Sono cifre che, prese così, non hanno molto senso, tanto lontane risultano dalla nostra esperienza quotidiana. Proviamo a ragionarle in termini diversi. Prendiamo a confronto una casa. Quante case ci potremmo comprare con 2 miliardi di euro? Il costo medio di un appartamento a Roma è intorno ai 250.000€: la risposta è ottomila.

Considerando che in un appartamento vivono in media 2,5 persone tale cifra corrisponde ad una città di 20.000 abitanti. Il confronto con Londra porta questa cifra a 27.000, più o meno la popolazione di Assisi. Tanto vale l’inefficienza del trasporto pubblico a Roma per i soli fabbricanti di automobili: il valore immobiliare di una intera città come Assisi. Ogni anno. Altrettanto per il mercato assicurativo. Altrettanto (grossomodo) per il comparto petrolifero.

E torniamo quindi a quella famosa ‘deriva messicana’ già teorizzata: dove sta scritto che una società, una comunità, debba funzionare? Perché abbiamo questa idea che le città europee di base ‘funzionano’, e se c’è qualcosa che non va è solo una spiacevole casualità?

In questo caso la ‘casualità’ muove fiumi di denaro, e non ci vuole un genio per capire che una parte di questo denaro venga necessariamente reinvestito affinché tale utile ‘casualità’ continui a prodursi, è nella logica del mercato. E nel momento in cui la popolazione finisce con lo sposare questa logica, la generosità, la fantasia e l’onestà intellettuale di pochi ambientalisti non bastano più ad invertire la rotta.

carjam

Abbiamo perso; un’altra volta.

pandaCome da pronostico, un terzo scarso degli aventi diritto è andato a votare ed il referendum non è passato.   Sorpresi?   Quante volte abbiamo già visto questo film?   Non credo che nessuno fra quelli che si sono attivati per il “SI” credesse davvero di poter vincere.

Ora è la fase dei commenti e, tra chi brinda e chi si arrampica sugli specchi, vorrei proporre alcune riflessioni personali.

Innanzitutto direi che bisogna distinguere i due fiaschi che il 17 si sono assemblati: il fiasco dell’istituto referendario ed il fiasco del movimento ambientalista.

referendum 17 aprile 2016Per quanto riguarda il primo, c’è poco da dire se non “Grazie Pannella”.   Fu infatti il leader radicale che, oramai tanto tempo fa, tentò di scardinare la macchina del potere partitico subissando il governo con una massa di referendum che, sperava, avrebbe obnubilato le capacità di reazione dei partiti.   Invece accadde il contrario.   Da un lato, fu messa a punto una tecnica estremamente efficace per boicottare i referendum, come abbiamo visto anche nei mesi scorsi.   Dall’altro, la maggior parte della gente si è stufata di troppe domande, troppo frequenti e troppo tecniche.   Risultato, il più democratico degli istituti è morto ammazzato dal suo più ardente paladino.   Si sapeva anche la settimana scorsa.   Amen.

Il secondo punto è più complicato, a cominciare dal fatto che questo referendum è nato nell’ambito di una lotta per il potere interna al PD ed alla macchina statale.   Tuttavia aveva delle implicazioni ambientali ed il movimento ci si è buttato.   Ha perso, ma quello che mi interessa qui è che non abbiamo perso ieri: abbiamo perso sempre.    Un movimento che 50 anni fa sembrava capace di cambiare l’agenda politico-economica globale si sta disintegrando senza aver ottenuto praticamente nulla.

Un dato questo inoppugnabile alla luce dei fatti: rispetto al 1970, la situazione ambientale del mondo è peggiorata in modo terrificante.   E’ vero, il panda non si è ancora estinto, anzi è in lieve ripresa.   Ma attenzione: ciò non è accaduto in forza di norme ed interventi del governo o di una presa di coscienza popolare.   Bensì come “sottoprodotto” del boom economico ed edilizio cinese che ha drenato verso le grandi città decine di milioni di contadini e montanari.   Questo ha dato temporaneo respiro ai boschi dove vivono i panda, ma intanto è raddoppiato l’inquinamento mondiale e con ogni probabilità abbiamo oramai superato il punto di rottura climatico.   Un po’ quello che è accaduto in Europa negli anni ’50 e ’60, più in grande ed in un contesto globale ben peggiore.

indicatori di crisi

E mentre quasi tutti gli indicatori mondiali di qualità ambientale peggiorano in maniera esponenziale (andate a leggere questo link), perfino sul piano culturale l’ambientalismo ha perso buona parte della la sua forza propositiva.   Ad oggi, in Italia ed in Europa esiste una piccola e radicata nicchia di persone preoccupata per l’ambiente, ma le associazioni storiche stanno scomparendo, quelle nuove non decollano ed alle riunioni si vedono sempre le stesse teste, sempre più bianche.   E mentre sui teleschermi assistiamo alla telecronaca in diretta del collasso della nostra civiltà, continuiamo a ripetere come dei mantra parole ormai prive di senso, come “sostenibilità” ed “efficienza”.   Né servono a molto quei pochi che, viceversa, accettano il ruolo di “foglia di fico” del sistema economico, sempre senza preoccuparsi minimamente di come questo si interfacci con la realtà.

Non è un caso se tutti i testi fondamentali per l’ambientalismo sono vecchi di 50 anni: “Silent Spring” 1962, “The Population Bomb” 1968, “The Entropy Law and Economic Process” 1971, “Limits to Growth” 1972.
Dopo è stato scritto molto e molto a proposito, ma i termini fondamentali della questione erano chiari allora ben più di ora.
Le opzioni possibili invece sono cambiate perché il tempo è passato e molte delle cose che non sono state fatte in passato non potranno essere fatte in futuro.

D’altronde, sull’altro fronte le cose vanno perfino peggio.   Se nel 1970 le principali industrie europee finanziavano lo studio che portò ai “Limiti dello sviluppo”, oggi il panorama economico è dominato da individui che si occupano di grattare il fondo del barile.   Oppure da ingenui che davvero credono che eliminando i pochi brandelli di tutele ambientali e sociali ancora esistenti si possa rilanciare una crescita economica che per noi è finita da anni e per il mondo (probabilmente) sta finendo proprio adesso.   Amen (un’altra volta).

Dunque la domanda che mi pongo è questa:   Ha ancora senso che esista un movimento ambientalista?   Se si, quali gli scopi che si dovrebbe prefiggere?

Non è una domanda nata oggi dalla sconfitta di ieri.   E’ una domanda nata 10 anni or sono dalla sconfitta di 50 anni consecutivi in cui non è stato possibile modificare di un millimetro la traiettoria suicida della civiltà umana.   Oggi semplicemente la ripropongo, perché ancora non ho trovato una risposta.

post-apocalypse-300x200La aspetto, non ho fretta.