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Possiamo imparare qualcosa dal referendum?

In un precedente post avevo preso una posizione del tipo “voto no, ma senza entusiasmo” in quanto convengo che la costituzione attuale non sia più adeguata ai tempi, ma la riforma mi pareva peggiorativa.   Il referendum è stato votato e ora tutti si ingegnano ad analizzarne il risultato.   Su di un blog come questo non possiamo esimerci dal fare la nostra piccola parte in questa discussione cercando, come al solito, di dare un punto di vista un tantino diverso da quelli più di moda.  Non migliore, semplicemente un pochino diverso.

Perciò qui non vorrei discutere nel merito della riforma che,  giusta o sbagliata che fosse, non si farà.   Vorrei invece dare un’occhiata agli errori che Renzi ha commesso nella campagna elettorale “peggiore di sempre” e quali lezioni politiche se ne possono eventualmente ricavare.

Sbaglio 1.   La sua riforma era tecnicamente pasticciata.   Al di la del merito, gli articoli erano scritti in modo da lasciare ampio margine di manovra ai giuristi ed ai costituzionalisti che la avversavano.  Era ovvio che la grande maggioranza dei magistrati e dei costituzionalisti avrebbero preso una posizione conservatrice, è il loro ruolo, e Renzi avrebbe fatto meglio a mandare in giro gente meglio preparata.   Al di là di questo, qui la lezione è che manipolare un sistema estremamente complesso come un moderno sistema normativo ed istituzionale è un compito pazzescamente difficile che può essere tentato solo sulla scorta di una competenza tecnica estrema di ogni dettaglio.   Altrimenti il rischio di fare danni imprevisti ed imprevedibili è molto alto, per quanto buone possano essere le intenzioni.

Sbaglio 2. Farsi dare sostegno ufficiale dalle istituzioni finanziarie, dalla confindustria, perfino dalla Merkel e da Schäuble, due dei soggetti meno popolari del momento (a buon diritto, peraltro).  Mica male per uno che nel frattempo si proponeva come paladino “contro il sistema”.   Stesso identico errore fatto dalla Clinton: ad ogni “endorsment” da parte di pezzi grossi dell’economia e della finanza ha perso voti.   Lo stesso ha fatto Cameron, mentre il contrario lo ha fatto Trump che, malgrado sia lui stesso un “big” ben piazzato nel cuore del sistema, ha vinto anche grazie al voto di protesta.
porte pericoloseA parte l’errore tattico, cosa ci dice questo? Una cosa estremamente allarmante: che le istituzioni ed i personaggi illustri hanno perso la fiducia e la credibilità.   Questo è estremamente pericoloso perché, letteralmente, spalanca porte da cui è molto più facile che passino diavoli piuttosto che angeli.

Sbaglio 3. Personalizzare il voto.   Come capo dell’esecutivo, Renzi avrebbe avuto il dovere istituzionale di essere (o perlomeno di fingersi) neutrale.   Cinicamente, avrebbe così evitato che, di fatto, si formasse una coalizione di tutti contro di lui, ma soprattutto avrebbe messo il governo al riparo dai risultati incerti della consultazione.  In altre parole, mentre tuonava contro l’instabilità, era lui il primo a destabilizzare.  Non predisporre una scappatoia in caso di sconfitta è un errore di una banalità disarmante.   Comunque, anche qui c’è una lezione da imparare: la popolarità si perde con estrema rapidità.   Renzi ha fatto una parabola per alcuni aspetti simile a quella di Berlusconi, ma che si è conclusa dopo 3 anni invece che in 20.   Molti sono gli elementi di diversità fra i due casi, ma comunque chi si pone come “leader carismatico” può oramai contare su pochi anni di autonomia, se non pochi mesi.   Parlare di stabilità in queste condizioni è possibile solamente se, anziché sulla faccia del leader, ci si basa sulle istituzioni.  Cioè proprio quella cosa che tutti gli aspiranti “capi” si affannano a picconare.   Aprendo altre porte molto pericolose.

Sbaglio 4.  Presentare gli avversari come imbecilli, retrogradi, ecc.   Non funziona, semmai motiva chi già propende per l’altro campo a diventare un attivista.   Ancora più grave, per avallare questa tesi la propaganda renziana ha dato risalto ai più fanfaroni dei suoi avversari, anziché a quelli più seri e competenti.   Col risultato di avere, ancora una volta, creato un sacco di polverone laddove ci sarebbe voluta lucida critica e puntuale analisi.
Altra lezioncina: nel dibattito politico meglio concentrarsi sugli avversari più credibili ed affidabili (in questo caso buona parte della magistratura).   Non per dar loro ragione, ma per alzare il livello del dibattito e marginalizzare quelli che sanno solo sbraitare.  Sempre che si sia in grado di competere su di un terreno di questo tipo.

Sbaglio 5.  Scimmiottare gli slogan antieuropeisti di Salvini e Grillo, oltre che infarcire la legge finanziaria di marchette che sai non essere fattibili.  Lo scopo era quello di blandire vari settori di elettorato, in particolare con gli  eurofobici.  Geniale per uno che avrebbe potuto essere il leader del secondo partito europeo se solo ci avesse fatto caso!   Ancora più geniale sparare su Junker (che per una volta è stato furbo), mentre chiedeva appoggio alla Merkel!  Comunque,  l’elettorato eurofobico ha già i suoi punti di riferimento consolidati nella Lega e nei 5stelle, cioè nei due principali avversari del PD.   Non poteva funzionare.
Ancora una volta, la lezione dovrebbe essere quella che conviene sempre cercare di tenere il dibattito il più in alto possibile, spiegando le cose nel merito e nel dettaglio, distinguendo e precisando in modo da lasciare un’utile eredità anche in caso di sconfitta.

Sbaglio 6.   Agitare la paura del caos che dovrebbe seguire la tua eventuale sconfitta.  Si sa, la paura del nemico aggrega e rende i cittadini consenzienti a molte cose altrimenti inaccettabili.   Una ricetta che, chi più chi meno, stanno usando un po’ tutti i governi del mondo.   Ma se in Russia la paura degli americani può funzionare, in Italia la paura di Grillo non basta.   Sono troppo diversi i contesti e la percentuale di realtà sottostante l’esagerazione propagandistica.   Inoltre, si da il caso che una grossa percentuale di elettorato abbia raggiunto un limite di esasperazione tale da desiderare il caos più della stabilità che pretendi di rappresentare (e che invece picconi per primo).   Questa è, secondo me, la lezione principale: soffiare sul fuoco per cavalcare le fiamme è un gioco che finisce molto più facilmente male che bene.   E fa perdere l’appoggio di quanti hanno invece l’abitudine di riflettere; cioè proprio della porzione di opinione pubblica su cui si può appoggiare un’azione politica costruttiva.

In sintesi, se mi potessi permettere di dare un consiglio non richiesto ai politici, direi questo:   Piantatela di sfruttare l’onda del malcontento per la vostra personale carriera.   Certo, l’onda vi può portare in alto, ma per gli stessi motivi per cui  vi favorisce finché siete all’opposizione, vi travolge quando siete al governo.
Se davvero volete stabilità, la prima cosa da fare è smettere di spararle grosse e concentrarsi sui fatti.   Pensare che calmare gli animi e spiegare le cose è più importante che vincere la prossima consultazione e che perdere bene può essere meglio che vincere male.
Chi vincerà cavalcando le onde della rabbia e della paura durerà comunque poco.   A meno che non sia in grado di cogliere un’occasione fugace per insediare un governo più o meno totalitario: un pericolo gravissimo e molto presente per tutti noi.   L’aver avuto 70 anni di sostanziale libertà personale non ci mette al riparo da niente, anzi ci rende particolarmente vulnerabili perché abbiamo dimenticato quanto facilmente certi fenomeni avvengono.  E quanto la rabbia, la paura e l’esasperazione facilitino la scalata al potere di personaggi pericolosi.

Il mio consiglio agli elettori è quindi questo: diffidate sempre di chi fomenta sentimenti forti e contagiosi come la rabbia e la paura.   I pericoli ci sono e sono molto più grandi di quel che molti di noi non sospettino, ma farsi prendere dalla furia o dal panico è il modo più sicuro per esserne travolti nel peggiore dei modi possibili.

REFERENDUM! Occhio che stavolta è diverso.

A proposito del referendum, vorrei profittare di questa pagina per ricordare alcuni punti ed esprimere un’opinione.

Il primo punto da ricordare bene è: qui non si tratta di abrogare o modificare una norma specifica, bensì di modificare in maniera sostanziale la Costituzione.   Ovvero la base stessa della legalità.   Si può essere a favore o contro, ma non si può pensare che sia poco importante.

Il secondo punto è che questo non è un referendum abrogativo, bensì propositivo.
Siamo abituati a delle consultazioni che intendono abrogare una norma già in vigore.   Dunque chi non vuole quella norma vota si e chi la vuole vota no.  Stavolta è il contrario!  Le modifiche proposte da Renzi non sono in vigore.   Chi le vuole deve votare SI e chi non le vuole deve votare NO.   Sembra banale, ma è meglio dirlo una volta di troppo.

Il terzo punto è che stavolta NON c’è quorum.   Facciano attenzione, tutti coloro che pensano che per boicottare un referendum basti non andare a votare.    Stavolta, se voterà una sola persona, tutti dovranno poi fare quello che a deciso quel tale.   Quindi, comunque la pensiate, dovete andare a votare.   O, in alternativa, rinunciate a qualunque lamentela circa il risultato.

Il quarto punto è che la Costituzione dovrebbe essere il testo di base cui tutte le altre leggi si riferiscono.   Il testo proposto da Renzi, al contrario, contiene paginate di riferimenti a leggi ordinarie, molte delle quali ancora da farsi.   Il che significa che, se passasse, sarebbe poi possibile ulteriormente modificare il funzionamento della costituzione manipolando leggi ordinarie con procedure ordinarie.

Un quinto punto richiede un po’ più di parole.    La campagna per il si di Renzi è fuffa.   Puro marketing che non ha niente a che vedere con i suoi piani per dopo.    Lo sappiamo perché ha assunto per la modica cifra di 400.000 euro ad un tal Jim Messina che non è un esperto di politica, bensì un esperto di marketing e di campagne pubblicitarie.   Quello che diresse la seconda campagna elettorale di Obama, per capirsi.   Dunque uno che  non sa niente della politica italiana ed europea e neanche gliene frega niente.   Fa solo pubblicità e per farla ha visto nei sondaggi che l’Europa è poco popolare (senza peraltro preoccuparsi di sapere cosa sia, né come funzioni).   Ed ecco che Matteo spara a zero sulle istituzioni comunitarie a casaccio, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Un esempio per capirsi.   La legge di bilancio che sarebbe stata bocciata dalla Commissione perché contiene dei fondi in più per le scuole e la ricostruzione.    Tanto che, per rappresaglia, il nostro sta rallentando e minaccia di bloccare l’approvazione del bilancio comunitario.     Si da però il caso che i soldi per le emergenze (ad es. terremoto e migranti) siano fuori dai parametri di Maastricht per trattato.   Anzi, nel bilancio che Matteo minaccia di bloccare ci sono anche i fondi speciali della Commissione Europea per ricostruire la cattedrale di Norcia.   Oltre a buona parte dei soldi che sta promettendo in giro “contro tutto e contro tutti” e che, invece, sono fondi europei già stanziati.
A Renzi ed a Mr. Messina tutto ciò non interessa.   L’importante per loro è che il 4 dicembre la riforma passi.   Poi cambieranno i toni, cambieranno le leggi di bilancio, cambierà tutto.  E se nel frattempo l’Italia avrà perso una buona parte delle residue possibilità che aveva per discutere una modifica dei trattati europei, “chissenefrega”!

Questi alcuni fatti.   Ora la mia opinione personale di individuo che non è né un giurista, né un costituzionalista.    Chi volesse studiarsi i dettagli, può andare a leggersi questo:  Raffronto Proposta Costituzione.pdf .

Tirando le somme, ciò che credo di aver capito è che si intende girare di 180° l’impostazione della costituzione vigente.
Nel 1946, i Costituenti si erano posti un doppio problema.  Uno, come impedire che il partito che avesse vinto le elezioni potesse avere il 100% del potere, mettendo alle corde tutti gli altri. Due, come impedire che un capo carismatico potesse prendere il controllo dello Stato grazie al suo fascino personale.
Già con l’ordinamento vigente questo tipo di impostazione fu radicalmente modificato, nei fatti, da Berlusconi che, grazie appunto al suo carisma personale ed ai suoi mezzi economici, per 20 anni tenne la politica italiana ostaggio della sua persona, anche quando era all’opposizione.    Adesso Renzi vuole sancire e rafforzare questa tendenza.   Se ho capito bene, il nocciolo della sua riforma è che chi vince fa cappotto e per 5 anni fa e disfa senza che nessuno possa ostacolarlo.
Questo qualcuno potrebbe essere Renzi o chiunque altro.    E non è nemmeno certo che, dopo 5 anni, questo tizio abbia tanta voglia di rifarle le elezioni.   Oppure potrebbe farle con una legge elettorale su misura per se.   Chi glielo impedirebbe?

Quando andrete a votare, pensateci bene per favore.

Brexit o mica brexit ?

Sembra proprio che David Cameron si sia ficcato in una tipica “loose-loose situation”, vale a dire una situazione in cui, comunque vada, saranno guai grossi.   Purtroppo non solo per lui, che se ne meriterebbe a non finire, bensì per tutti.

Niente pronostici, tanto sono del tutto inutili e non ci si azzecca mai.   Invece qualche considerazione su alcune delle possibili conseguenze del voto britannico.

il primo punto da rimarcare è che, comunque vada, il risultato si giocherà su di un pugno di voti e, quindi, circa metà dei cittadini britannici saranno arrabbiati e probabilmente anche spaventati.
Ora diamo uno sguardo ai due possibili risultati.brexit Jacopo Simonetta

Se vince “Remain”.

Sul piano istituzionale ed organizzativo non cambierebbe nulla, le borse si calmerebbero e tutti tornerebbero a far finta di niente.   Sarebbe un errore drammatico.    Il fatto che circa metà della popolazione di uno dei maggiori paesi europei abbia comunque votato per uscire dall’Unione dovrebbe indurre i governi nazionali a finirla con gli attuali giochetti e varare una vera e profonda riforma dell’Unione.    Ce n’è un immenso bisogno.   Ma se fossero stati disposti a farlo lo avrebbero già fatto.   A mio avviso dunque, il risultato peggiore di una vittoria del “remain” sarebbe di proseguire l’attuale situazione di stallo.   Fino alla prossima crisi acuta che non tarderebbe ad arrivare da uno qualunque dei numerosi fronti politici aperti.

Se vince “Brexit”.

Qui gli scenari sarebbero più complessi.   Ma al di la dei festeggiamenti fra coloro che in tutta Europa odiano l’Unione, le conseguenze sarebbero imprevedibili.
Per citare solo una delle molte possibilità, una vittoria dei separatisti potrebbe avviare quell’”effetto domino” che gli “euroclasti” si augurano; inducendo una valanga di referendum separatisti che, indipendentemente dei risultati, paralizzerebbero l’attività politica a livello a livello comunitario per anni.

Ma  non sarebbe l’unico effetto dominio possibile.    Poco tempo fa in Scozia la separazione dall’Inghilterra ha perso di stretta misura, ma nel Regno di Scozia la larga maggioranza della popolazione è filo-europea ed è quindi quasi scontato che, a seguito di una brexit, i separatisti scozzesi riproporrebbero il loro referendum, stavolta con la quasi certezza di vincere.   E discorsi del genere circolano anche in Irlanda del Nord e perfino in Galles.   Insomma, la brexit potrebbe catalizzare la disintegrazione dell’EU, ma anche quella del Regno unito; o di entrambe.    Con quali conseguenze sulle numerose beghe separatiste pendenti in quasi tutti i paesi europei?   Gradualmente, potrebbe essere la fine di molti di quegli stati nazionali che hanno sempre impedito la nascita di una federazione europea.   Gran Bretagna in testa.

Anche sul piano economico gli esiti possibili sono molteplici.  Naturalmente i sostenitori della Brexit annunciano un’ età di rubicondo benessere, mentre gli altri annunciano ogni sorta di calamità economiche.   Chi dei due ha ragione?  Io certo non lo so, magari nessuno dei due.   Ma, comunque, se la brexit portasse un miglioramento nelle condizioni di vita degli inglesi, la spinta centrifuga se ne rafforzerebbe assai, anche se non è affatto detto che quel che succede in un paese succeda uguale in altri.    Ma se, invece, l’uscita dall’Unione davvero precipitasse l’Inghilterra in una grave crisi, molti che adesso sognano il ritorno alla lira od alla dracma cambierebbero parere.    In altre parole, la brexiti potrebbe anche cementare l’EU, anziché disintegrarla.

Infine, non dimentichiamoci che se davvero il Regno unito uscisse dall’EU senza sbriciolarsi, cambierebbero molte cose per le centinaia di migliaia di europei che lavorano in Inghilterra,  ma anche per gli inglesi che lavorano sul continente che sono davvero tanti.

Conclusioni (provvisorie)

Insomma, qualunque cosa accadrà, andrà male.
Se vincesse “remain” tutti ne approfitteranno per non cambiare nulla e provocare così altre e ancor peggiori crisi.

Se vincesse “brexit” e le cose andassero bene per gli inglesi, le istituzioni europee andrebbero nel caos ed il castello che per 50 anni ha evitato il risorgere di nazionalismi aggressivi nella pancia dell’Europa andrebbe almeno in parte in frantumi.   Spalancando la porta a sviluppi assolutamente imprevedibili.

Se, infine, vincesse la “brexit” e le cose girassero poi male per i sudditi di Queem Elisabeth, la UE potrebbe uscirne rafforzata, ma non per questo migliorata.  E, comunque, indebolita, poiché il Regno Unito, malgrado tutto, è ancora un paese relativamente importante.

Complimenti Mr. Cameron.   Ne valeva la pena, solo per vincere le elezioni scorse!

 

Non abbiamo Perso!

Pubblico una risposta di Luca Pardi, presidente di  Aspo italia  al post di Jacopo sul risultato del referendum.

Abbiamo sbagliato, ma non abbiamo perso.

Il mio amico Jacopo Simonetta è uno di quei pessimisti che, vista la luce in fondo al tunnel la vanno a spengere (la battuta è di Lercio.it e so che lui l’ha apprezzata). Nel suo commento dopo il referendum sulle trivelle ne dice molte giuste, ma legge tutto in chiave negativa. Non è solo. Altri, dopo la sconfitta, si sono incaricati di criticare le scelte sbagliate del movimento ambientalista in questa campagna elettorale e spesso hanno etichettato questo evento politico come l’ennesima sconfitta dell’ecologismo politico. Non sono d’accordo. Ma partiamo dall’inizio e, quindi, dall’istituto del referendum abrogativo. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta, la sua esistenza non è, come è stato detto, “la prova che la democrazia non funziona”, ma un modo in cui si consente ai cittadini di modificare le scelte legislative del parlamento. È in costituzione ed è uno strumento utile quando i quesiti sono chiari e semplici, o comunque semplificabili come nel caso: abrogazione del divorzio: SI o NO? L’insieme dei referendum promossi dalle nove regioni costituivano un corpo di quesiti che, nell’insieme, poteva essere semplificato. Chi avesse votato a favore dell’abrogazione avrebbe fatto una scelta chiara sulla politica energetica nazionale. Il governo si è impegnato a disinnescare l’eventualità di un pronunciamento in questo senso e ha legiferato, accogliendo, almeno in parte, le finalità delle regioni. Dunque già su questo punto sconfitta non c’è stata. Ricordiamoci che a parte le poche decine di piattaforme su cui eravamo chiamati a pronunciarci il 17 aprile, non si potrà più trivellare entro le 12 miglia.

L’errore principale del fronte del SI, che poi coincideva all’80% con il fronte della partecipazione al voto, è stato quello di dare troppa importanza al referendum e attaccarsi agli argomenti meno solidi.  Ci sono argomenti, in campo energetico, sui quali gli “ottimisti razionali” hanno un vantaggio. Sono argomenti marginali come quelli economici (si per me, di fronte alla catastrofe ecologica in atto i temi economici sono marginali). È chiaro che è più facile attrarre consenso parlando delle potenziali perdite occupazionali di attività industriali esistenti piuttosto che contrapporre potenziali vantaggi occupazionali di attività che sono percepite come futuribili. È facile contrapporre ai rischi potenziali o reali dell’inquinamento poco visibile, causato dalle attività estrattive, quello visibilissimo dei liquami in mare a Rimini e in altre località. È inoltre facile per i conformisti energetici solleticare il nazionalismo energetico dei macchinomani del fine settimana. Sappi che dovrai rinunciare alla gita al mare la domenica (quella che da quando c’è la crisi molti italiani fanno dalla mattina alla sera per risparmiare sul costo di pernottamento). Per ogni contestazione di questo tipo si possono trovare esperti autorevoli, professori di questa o quella università, tecnici valenti e scienziati pluridecorati che possono smentire qualsiasi dato.

Si doveva puntare su altro. Ci sono due argomenti che nessun “ottimista razionale” può confutare credibilmente senza venire a patti con la propria onesta intellettuale. Cioè senza mentire sapendo di mentire. E questi due argomenti sono: il cambiamento climatico e l’esaurimento delle fonti fossili di energia. Credo che chi legge sappia già tutto su questi argomenti. La forzante umana è la causa principale del cambiamento climatico, l’uso dei combustibili fossili è il motore di questa causa. Se a Parigi non abbiamo scherzato ogni paese deve varare rapidamente una politica di uscita dalle fonti fossili. E per uscire dalle fonti fossili senza passare per un collasso della nostra civiltà è necessario rinforzare di almeno due ordini di grandezza (un fattore 100) l’attuale infrastruttura basata sulle nuove fonti rinnovabili di energia. Si deve passare dalle centinaia di Giga Watt alle decine di Tera Watt (attualmente il metabolismo sociale ed economico umano è una macchina che consuma 17 Tera Watt) in un paio di decenni. Il programma deve essere chiaro e stringente e si deve sapere due cose, anche gli ambientalisti lo devono sapere: 1) non si può fare questo salto senza accettare il relativo impatto e 2) l’impresa deve essere fatta utilizzando le fonti energetiche esistenti, cioè quelle fossili. Ci sarebbe un terzo punto, politicamente più scabroso, questa transizione non può essere condotta esclusivamente con le regole (ammesso che ve ne siano) del mercato.

Questa affermazione mi scatenerà contro i fautori dell’arbitrio travestito da libertà economica, ma posso farmene una ragione. Il fatto è che nella transizione si dovranno privilegiare usi utili delle fonti fossili perché una quota prossima al 50% delle loro riserve note dovrà restare dov’è per non causare un aumento catastrofico della temperatura terrestre. L’altro argomento inconfutabile è il processo di esaurimento dei combustibili fossili stessi. Avremmo dovuto usare la campagna referendaria per chiarire al grande pubblico il fatto che la vulgata sul crollo del prezzo del petrolio come sinonimo di abbondanza e “morte della teorie del picco del petrolio” è una vera bufala. Il prezzo misura il flusso della materia prima sul mercato e non dice nulla sulla qualità e quantità della riserva. Dalla metà del primo decennio di questo secolo i costi estrattivi crescono costantemente ad un tasso che è dieci volte quello del decennio precedente (i dati vengono dall’IEA e dal FMI), le nuove categorie di petrolio portate sul mercato, che hanno garantito la tenuta del livello produttivo di liquidi combustibili, sono più problematiche da estrarre, più costose e anche più inquinanti.

L’urgenza della transizione energetica è tanto evidente a chi la vuol vedere quanto ineluttabile. Il fatto che questi temi siano rimasti marginali mostra l’immaturità dell’ecologismo che tende a baloccarsi con argomenti ormai superati e spesso tutti sul lato difensivo. Al contrario è arrivato il momento in cui l’ecologismo politico deve rivendicare il punto centrale che l’ecologia ha rispetto all’economia. Una campagna referendaria era un’occasione d’oro per parlare di queste cose al massimo numero di cittadini piuttosto che perdersi a confutare i numeri demenziali di Renzi sull’occupazione o le contraddizioni dei geologi petroliferi sulle trivelle.

Riconosciamo l’errore, ma non buttiamo via tutto correndo a spengere la luce in fondo al tunnel. Un terzo degli italiani comincia a capire, non siamo più l’1 per mille. Proprio perché questo quesito era marginale e difficile rispetto a quello del 2011, sull’acqua e il nucleare, nelle more del disastro di Fukushima, l’affluenza registrata è incoraggiante e significativo il fatto che l’unica regione petrolifera del paese, la Basilicata, ha superato il quorum. Si comincia a capire che da opzione vicente gli idrocarburi sono diventati un’opzione perdente. Per questo i sostenitori degli interessi legati al blocco di potere economico delle fonti fossili sono disperatamente scatenati. E pazienza se trovano il sostegno dei benpensanti che si sono autoproclamati ottimisti e razionali. Siamo sempre una minoranza? Forse. In questi casi mi piace ricorrere ad una citazione attribuita ad Amedeo Bordiga: “noi non siamo pochi, siamo quanti il momento storico richiede”. Tranquilli e “alla via così”, ma sapendo che ci sono argomenti su cui non ci possono dire nulla: clima ed esaurimento delle risorse. Non hanno scampo!

Abbiamo perso; un’altra volta.

pandaCome da pronostico, un terzo scarso degli aventi diritto è andato a votare ed il referendum non è passato.   Sorpresi?   Quante volte abbiamo già visto questo film?   Non credo che nessuno fra quelli che si sono attivati per il “SI” credesse davvero di poter vincere.

Ora è la fase dei commenti e, tra chi brinda e chi si arrampica sugli specchi, vorrei proporre alcune riflessioni personali.

Innanzitutto direi che bisogna distinguere i due fiaschi che il 17 si sono assemblati: il fiasco dell’istituto referendario ed il fiasco del movimento ambientalista.

referendum 17 aprile 2016Per quanto riguarda il primo, c’è poco da dire se non “Grazie Pannella”.   Fu infatti il leader radicale che, oramai tanto tempo fa, tentò di scardinare la macchina del potere partitico subissando il governo con una massa di referendum che, sperava, avrebbe obnubilato le capacità di reazione dei partiti.   Invece accadde il contrario.   Da un lato, fu messa a punto una tecnica estremamente efficace per boicottare i referendum, come abbiamo visto anche nei mesi scorsi.   Dall’altro, la maggior parte della gente si è stufata di troppe domande, troppo frequenti e troppo tecniche.   Risultato, il più democratico degli istituti è morto ammazzato dal suo più ardente paladino.   Si sapeva anche la settimana scorsa.   Amen.

Il secondo punto è più complicato, a cominciare dal fatto che questo referendum è nato nell’ambito di una lotta per il potere interna al PD ed alla macchina statale.   Tuttavia aveva delle implicazioni ambientali ed il movimento ci si è buttato.   Ha perso, ma quello che mi interessa qui è che non abbiamo perso ieri: abbiamo perso sempre.    Un movimento che 50 anni fa sembrava capace di cambiare l’agenda politico-economica globale si sta disintegrando senza aver ottenuto praticamente nulla.

Un dato questo inoppugnabile alla luce dei fatti: rispetto al 1970, la situazione ambientale del mondo è peggiorata in modo terrificante.   E’ vero, il panda non si è ancora estinto, anzi è in lieve ripresa.   Ma attenzione: ciò non è accaduto in forza di norme ed interventi del governo o di una presa di coscienza popolare.   Bensì come “sottoprodotto” del boom economico ed edilizio cinese che ha drenato verso le grandi città decine di milioni di contadini e montanari.   Questo ha dato temporaneo respiro ai boschi dove vivono i panda, ma intanto è raddoppiato l’inquinamento mondiale e con ogni probabilità abbiamo oramai superato il punto di rottura climatico.   Un po’ quello che è accaduto in Europa negli anni ’50 e ’60, più in grande ed in un contesto globale ben peggiore.

indicatori di crisi

E mentre quasi tutti gli indicatori mondiali di qualità ambientale peggiorano in maniera esponenziale (andate a leggere questo link), perfino sul piano culturale l’ambientalismo ha perso buona parte della la sua forza propositiva.   Ad oggi, in Italia ed in Europa esiste una piccola e radicata nicchia di persone preoccupata per l’ambiente, ma le associazioni storiche stanno scomparendo, quelle nuove non decollano ed alle riunioni si vedono sempre le stesse teste, sempre più bianche.   E mentre sui teleschermi assistiamo alla telecronaca in diretta del collasso della nostra civiltà, continuiamo a ripetere come dei mantra parole ormai prive di senso, come “sostenibilità” ed “efficienza”.   Né servono a molto quei pochi che, viceversa, accettano il ruolo di “foglia di fico” del sistema economico, sempre senza preoccuparsi minimamente di come questo si interfacci con la realtà.

Non è un caso se tutti i testi fondamentali per l’ambientalismo sono vecchi di 50 anni: “Silent Spring” 1962, “The Population Bomb” 1968, “The Entropy Law and Economic Process” 1971, “Limits to Growth” 1972.
Dopo è stato scritto molto e molto a proposito, ma i termini fondamentali della questione erano chiari allora ben più di ora.
Le opzioni possibili invece sono cambiate perché il tempo è passato e molte delle cose che non sono state fatte in passato non potranno essere fatte in futuro.

D’altronde, sull’altro fronte le cose vanno perfino peggio.   Se nel 1970 le principali industrie europee finanziavano lo studio che portò ai “Limiti dello sviluppo”, oggi il panorama economico è dominato da individui che si occupano di grattare il fondo del barile.   Oppure da ingenui che davvero credono che eliminando i pochi brandelli di tutele ambientali e sociali ancora esistenti si possa rilanciare una crescita economica che per noi è finita da anni e per il mondo (probabilmente) sta finendo proprio adesso.   Amen (un’altra volta).

Dunque la domanda che mi pongo è questa:   Ha ancora senso che esista un movimento ambientalista?   Se si, quali gli scopi che si dovrebbe prefiggere?

Non è una domanda nata oggi dalla sconfitta di ieri.   E’ una domanda nata 10 anni or sono dalla sconfitta di 50 anni consecutivi in cui non è stato possibile modificare di un millimetro la traiettoria suicida della civiltà umana.   Oggi semplicemente la ripropongo, perché ancora non ho trovato una risposta.

post-apocalypse-300x200La aspetto, non ho fretta.

Perché si? Perché no!

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L’avete già capito. E ve l’aspettavate. Noi di Crisis da sempre siamo per uscire dal petrolitico, l’era del petrolio bruciato. Da sempre siamo per uno sviluppo accelerato delle energie rinnovabili e di una economia evolutiva, ovvero re distributiva e non della crescita. Per l’abbandono del concetto di consumatore, base, manco a dirlo del consumismo e inesorabilmente dell’economia del debito. QUINDI è ovvio che, in merito al prossimo referendum, siamo per votare sì, per tutti gli ottimi motivi esposti da tutti i fautori del si. Do per scontato che sappiate di cosa si tratti. In fondo siamo su Crisis, mica su casabella&cento cose cool della prossima estate.

Quindi: perché votare sì? Perché no. Non è una buona idea continuare a cavare petrolio nei nostri mari. Ma questo, già ve l’hanno detto.

Bene. Ok. E ALLORA?

Allora, per dare un contributo un filo controcorrente, mettiamoci, per un attimo, il cappello con su scritto: i love oil.

Bene: se ami davvero il petrolio, se trivellare madre terra e’il tuo personale modo di interagire con il mondo in mancanza di donne, se conservi con amore una fiala di petrolio di Gawar, beh, proprio in questo caso, perfino in questo caso, il tuo amatissimo petrolio lo dovresti lasciare sotto terra. Intanto perché bruciare una cosa preziosa ed indispensabile come il petrolio, una cosa dalla quale si fanno fertilizzanti, medicine e la base plastica del tuo civilizzatissimo mondo, e’ da idioti. Eh sì, perché oltre i due terzi del petrolio viene bruciato subito, ho idea che lo sappiate, ed il terzo rimanente, venendo riciclato in minima parte,  finisce comunque bruciato, con grande gioia degli alveoli polmonari di qualche vivente nei dintorni.

Che peccato, no, per chi ama tanto il petrolio, il mistero della sua origine, il suo ancestrale olezzo di distillato invecchiato milioni di anni in geo barrique? E poi, non è certo un grande affare. Trivellare e produrre oggi significa rinunciare ai due terzi, forse all’80%, dei guadagni possibili. Perché il prezzo del barile( e quindi del metro cubo di metano) risalirà, statene certi e risalirà a livelli ancora più alti di quelli rivisti negli anni passati. Conviene, quindi, lasciarlo dormire sottoterra. Tenerselo buono buono per un decennio o due. Magari cinque o sei. Sarà un affare migliore tirarlo fuori quando sarà finalmente compreso, l’oro nero. Quando a nessuno passerà più per la testa di bruciarlo o sprecarlo.  Quando il suo costo al litro sarà più alto di quello di un litro di buon rosso di carmignano.

Si vabbe, torna sulla Terra, dai.

Hai ragione, coraggioso lettore di Crisis ed eccomi di nuovo qui.

Restando tra di noi mi pare ancora più semplice. La produzione metanifera e petrolifera nostrana, mai lontanamente in grado di renderci autosufficienti, e’ da anni in forte calo, per puri motivi di sfiga geologica. Abbiamo una geologia vivace e piuttosto attiva ed interessante nel senso della maledizione cinese e questo mal si accorda con succulenti giacimenti. Far fuori il poco che resta non è quindi una buona idea in termini strategici. Non supereremo mai la produzione attuale, che vale qualche per cento dei nostri fabbisogni. Quindi tanto vale aspettare quando, in un futuro, avremo fortemente ridotto la nostra dipendenza dalla combustione di krill morto milioni di anni fa.

La stessa identica produzione di petrolio e metano  sarà allora una percentuale assai più importante dei nostri fabbisogni e darà un contributo proporzionalmente maggiore al benessere della nostra bilancia dei pagamenti.

Eh, ma i posti di lavoro…nessuna paura.

Se c’è un settore che non conoscerà crisi se non momentanee e’quello delle estrazioni. Tocchera’ girare il mondo, certo. Ma l’hai scelto tu, bellezza, un ben remunerato lavoro di merda. E poi…andiamo, non si può usare la stessa scusa tutte le volte. L’hanno già usata per il salvataggio di Banca Etruria, degli&dagli amici babbioni del babbino della madrina della madre di tutte le riforme costituzionali…