Trappole 4: La paura

“ La paura fa 90”, si diceva un tempo.   In effetti poche cose funzionano bene come la paura per far correre la gente.   Il problema è che se mette il turbo ai piedi, lo toglie al cervello.   In altre parole, quando si ha paura si corre veloci, ma difficilmente si sceglie la buona direzione.

Facciamo un esempio d’attualità: il terrorismo.

La parola in origine significava una forma di governo basata sul terrore.   Gli esempi storici spaziano Dionigi (tiranno di Siracusa), a Nerone, fino a Pol Pot, passando per gli immancabili Adolf & Joseph.    Ai giorni nostri  la Corea del Nord, per capirsi.   Un uso giornalistico del termine lo ha esteso a gruppi criminali più o meno politicizzati che usano il terrore come strumento per perseguire i propri scopi.   Talvolta si tratta semplicemente di controllare il traffico di stupefacenti su di una certa rotta, talaltra di acquisire fama internazionale a buon mercato; fino alla destabilizzazione di interi stati, secondo i casi.

Una sola cosa hanno in comune questi e gli altri esempi possibili: ammazzare più gente possibile più o meno a caso, in modo che l’opinione pubblica, e dietro di essa i governi, facciano quello che i terroristi desiderano.   Può essere avere i titoloni gratis sulla stampa nazionale o mondiale, come l’elargizione di soldi e protezioni in cambio di tranquillità.   Oppure il varo di norme vessatorie che allarghino la base d’appoggio dei criminali e molto altro ancora.

Ci sono molte cose che si possono fare per contrastare il terrorismo.   Molte di queste sono appannaggio dello stato: polizia, servizi segreti, esercito, eccetera.   Ma la principale rimane in carico ad ogni cittadino: non lasciarsi terrorizzare.
Quando ci sono decine o centinaia di morti la rabbia ed il dolore sono normali, la paura anche, ma il terrore è un’altra cosa.

Quanta gente ammazzano i terroristi?

La figura 1 illustra i risultati di un sondaggio che stima il rischio reale ed il rischio percepito:

rischio reale e rischio percepito

Si capisce a colpo d’occhio che ciò che fa più paura (attacco terroristico, incidente aereo, elettrosmog) non ha niente a che fare con ciò che è più pericoloso (cancro, incidente d’auto, surriscaldamento climatico).

E come andavano le cose quando la maggior parte di noi era giovane?   Decisamente i venti anni dal ’70 al ’90 sono stati assai peggiori, eppure non ci sono state le crisi di nervi collettive, né lo stato di emergenza imposto ad intere nazioni a tempo indeterminato.

image (1)Se poi andiamo a vedere la percentuale di vittime, troviamo che l’Europa è un bersaglio del tutto marginale nelle diverse strategie terroristiche attualmente in atto nel mondo: 420 morti contro oltre 108.000 nel resto del mondo. (N.B. il dato relativo agli USA è sottostimato in quanto non considera i morti in sparatorie provocate da soggetti di estrema destra.   Il dato sulla Siria non comprende i morti nei bombardamenti governativi che sono l’80% dei civili uccisi).

Questo non significa che dobbiamo far finta di niente o minimizzare.   Significa però che la nostra abituale reazione (farsi prendere dal panico) è assolutamente ingiustificata.   Peggio: è probabilmente quello che i terroristi sperano che facciamo.   Dunque è il miglior incentivo alla loro azione.

Altre fonti e studi troveranno risultati un po’ diversi, ma la sostanza non cambia: ci stiamo comportando collettivamente in modo più sbagliato possibile.

Che facciamo?

Per essere chiari, non saranno certamente le marce per la pace che fermeranno il terrorismo, ma neppure le squadracce che picchiano chi gli capita a tiro.   Il terrorismo, inteso in senso moderno, è una parte inevitabile del nostro mondo e lo sarà ancora per decenni.   Possiamo fare molto per limitarlo, ma niente per eliminarlo.   Tant’è imparare a conviverci, pur senza smettere di ostacolarlo.   Il desiderio di sicurezza è legittimo e naturale, ma può facilmente condurre a qualcosa di infinitamente peggio di una certa dose di terrorismo criminale: un terrorismo di stato.   Perché dai criminali, almeno in parte, ti protegge lo stato, ma dallo stato, chi ti proteggerebbe?

E qui torniamo agli esempi storici di terrorismo.   Se è vero che probabilmente l’unico governo attuale autenticamente terrorista è quello di Kim Jong-Un, è altrettanto vero che sono molti i governi che stanno adottando la paura non solo come metodo di repressione del crimine, ma anche come strumento politico.   La fine di Regeni è abbastanza indicativa in questo senso, ma sono tanti i paesi dove essere all’opposizione costa la vita od il carcere.
Perfino nel cuore dell’Europa assistiamo ad una deriva simile.   I provvedimenti turchi contro la libertà di stampa, lo stato d’emergenza sine die in Francia sono solo la punta di un iceberg che stiamo assemblando pezzo per pezzo.   Siamo ancora molto lontani da governi terroristi, ma la distanza diminuisce e l’esperienza dimostra che la differenza fra protezione e prevaricazione tende a sfumare col tempo.

libertà versus sicurezza

La gradualità è il modo migliore per rendere impercettibile l’attraversamento di certe soglie che, viceversa, dovrebbero essere evitate a qualunque costo.   Anche a costo di morire per mano di una banda di pazzi criminali.

Perché si? Perché no!

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L’avete già capito. E ve l’aspettavate. Noi di Crisis da sempre siamo per uscire dal petrolitico, l’era del petrolio bruciato. Da sempre siamo per uno sviluppo accelerato delle energie rinnovabili e di una economia evolutiva, ovvero re distributiva e non della crescita. Per l’abbandono del concetto di consumatore, base, manco a dirlo del consumismo e inesorabilmente dell’economia del debito. QUINDI è ovvio che, in merito al prossimo referendum, siamo per votare sì, per tutti gli ottimi motivi esposti da tutti i fautori del si. Do per scontato che sappiate di cosa si tratti. In fondo siamo su Crisis, mica su casabella&cento cose cool della prossima estate.

Quindi: perché votare sì? Perché no. Non è una buona idea continuare a cavare petrolio nei nostri mari. Ma questo, già ve l’hanno detto.

Bene. Ok. E ALLORA?

Allora, per dare un contributo un filo controcorrente, mettiamoci, per un attimo, il cappello con su scritto: i love oil.

Bene: se ami davvero il petrolio, se trivellare madre terra e’il tuo personale modo di interagire con il mondo in mancanza di donne, se conservi con amore una fiala di petrolio di Gawar, beh, proprio in questo caso, perfino in questo caso, il tuo amatissimo petrolio lo dovresti lasciare sotto terra. Intanto perché bruciare una cosa preziosa ed indispensabile come il petrolio, una cosa dalla quale si fanno fertilizzanti, medicine e la base plastica del tuo civilizzatissimo mondo, e’ da idioti. Eh sì, perché oltre i due terzi del petrolio viene bruciato subito, ho idea che lo sappiate, ed il terzo rimanente, venendo riciclato in minima parte,  finisce comunque bruciato, con grande gioia degli alveoli polmonari di qualche vivente nei dintorni.

Che peccato, no, per chi ama tanto il petrolio, il mistero della sua origine, il suo ancestrale olezzo di distillato invecchiato milioni di anni in geo barrique? E poi, non è certo un grande affare. Trivellare e produrre oggi significa rinunciare ai due terzi, forse all’80%, dei guadagni possibili. Perché il prezzo del barile( e quindi del metro cubo di metano) risalirà, statene certi e risalirà a livelli ancora più alti di quelli rivisti negli anni passati. Conviene, quindi, lasciarlo dormire sottoterra. Tenerselo buono buono per un decennio o due. Magari cinque o sei. Sarà un affare migliore tirarlo fuori quando sarà finalmente compreso, l’oro nero. Quando a nessuno passerà più per la testa di bruciarlo o sprecarlo.  Quando il suo costo al litro sarà più alto di quello di un litro di buon rosso di carmignano.

Si vabbe, torna sulla Terra, dai.

Hai ragione, coraggioso lettore di Crisis ed eccomi di nuovo qui.

Restando tra di noi mi pare ancora più semplice. La produzione metanifera e petrolifera nostrana, mai lontanamente in grado di renderci autosufficienti, e’ da anni in forte calo, per puri motivi di sfiga geologica. Abbiamo una geologia vivace e piuttosto attiva ed interessante nel senso della maledizione cinese e questo mal si accorda con succulenti giacimenti. Far fuori il poco che resta non è quindi una buona idea in termini strategici. Non supereremo mai la produzione attuale, che vale qualche per cento dei nostri fabbisogni. Quindi tanto vale aspettare quando, in un futuro, avremo fortemente ridotto la nostra dipendenza dalla combustione di krill morto milioni di anni fa.

La stessa identica produzione di petrolio e metano  sarà allora una percentuale assai più importante dei nostri fabbisogni e darà un contributo proporzionalmente maggiore al benessere della nostra bilancia dei pagamenti.

Eh, ma i posti di lavoro…nessuna paura.

Se c’è un settore che non conoscerà crisi se non momentanee e’quello delle estrazioni. Tocchera’ girare il mondo, certo. Ma l’hai scelto tu, bellezza, un ben remunerato lavoro di merda. E poi…andiamo, non si può usare la stessa scusa tutte le volte. L’hanno già usata per il salvataggio di Banca Etruria, degli&dagli amici babbioni del babbino della madrina della madre di tutte le riforme costituzionali…

Il cielo sopra il mondo

Aracoeli(tra l’Altare della Patria e la piazza del Campidoglio sorge la Basilica di Santa Maria in Aracoeli, eretta nel VI secolo sul sito di un preesistente tempio romano. Vi si accede per mezzo di una lunga e ripida scalinata e fu luogo, diversi anni fa, di una delle esperienze più profonde, intense e spiazzanti della mia vita)

È un sabato pomeriggio. Con mia moglie abbiamo deciso di fare un po’ i ‘turisti in casa’, andando a passeggiare nel centro storico, senza una meta precisa. Quando ci ritroviamo a passare sotto la chiesa dell’Aracoeli vediamo un’ambulanza ferma, e mi rendo conto che in cima alla scalinata sta accadendo qualcosa. Un gruppo di paramedici si sta dando da fare su di un corpo steso a terra. Non so esattamente cosa mi muove, Emanuela vuole andar via, io sento che il mio posto è lassù. La convinco e saliamo lentamente le scale.

Giunti in cima ci troviamo di fronte una scena surreale. I paramedici stanno praticando il massaggio cardiaco sul corpo di un uomo a terra. Accanto a loro due donne, di età diversa (moglie e figlia, penso) li osservano ammutolite. Nessuno osa parlare. Sotto di noi, lontani, i suoni attutiti della città ci raggiungono da una distanza che appare incolmabile. Sopra le nostre teste, nere nuvole temporalesche creano una luce cupa, rarissima da osservare. Sembra la scena di un film. Non un film qualsiasi. È Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.

Wenders
Nel film il protagonista è un angelo. La realtà degli angeli coesiste con la nostra, ma su un piano diverso. Gli angeli vedono un mondo in bianco e nero, privo di suoni. Non sentono le parole degli uomini, ma ne ascoltano i pensieri. Non possono interagire né interferire. Provano a consolarli quando sono disperati, ma molto spesso sono semplici testimoni dei fatti che accadono: della vita, del dolore, della morte. In cima a quella scalinata, sotto un cielo plumbeo, mentre abbraccio mia moglie senza parlare, mi sento così: mero testimone di un momento di passaggio, forse l’ultimo, per un mio simile. Il passaggio del confine tra la vita e la morte.

Cerco di immaginare i momenti precedenti. La famiglia in vacanza. La decisione di salire a vedere quella chiesa. La scalinata, forse troppo lunga e ripida per quell’uomo corpulento, di mezza età. Sull’ultimo gradino l’arresto cardiaco. Le due donne, poco prima allegre, improvvisamente sole di fronte alla tragedia inaspettata. Il mondo, sotto di loro, che indifferente va avanti con le sue routines. Osservo commosso questa scena cercando di darle un senso. Un senso difficile da trovare.

Dopo un tempo non quantificabile, dieci minuti, forse venti, i paramedici smettono di praticare i tentativi di rianimazione. Si fermano stremati a contemplare il corpo esanime. Io ed Emanuela entriamo in chiesa, storditi, lei per pregare, io per riflettere. All’interno della chiesa è in corso una funzione religiosa: una messa del sabato pomeriggio celebrata per una manciata di astanti, in prevalenza anziani. Dopo poco il sacerdote, informato dell’accaduto, interrompe la funzione. Avvisa che deve recarsi all’esterno per impartire l’estrema unzione al defunto, si allontana dall’altare a passi lenti e gravi.

Da ateo non posso partecipare alla dimensione trascendente della celebrazione, ma mi colpisce, all’improvviso, quel grumo di umanità, quel piccolo popolo legato a riti antichi. Percepisco la loro esigenza di una dimensione umana che travalichi il consumismo, il mero desiderio di oggetti inanimati. Comprendo, almeno in parte, la contrapposizione tra materialismo e trascendenza in una chiave di conflitto ideologico.

Pur ateo, la filosofia cristiana all’interno della quale sono stato cresciuto (e che ho introiettato, nonostante la rinuncia alla dimensione teologica) mi spinge ad agire in termini cooperativi, solidali, a considerare le dinamiche egoistiche e competitive come una strategia erronea dell’agire umano. Nonostante ciò devo riconoscere in questo momento storico il primato della sopraffazione. Come conciliare teoria e realtà?

Seguendo un filo di analisi che avevo già introdotto nel finale di un precedente post, la mia conclusione attuale è che competizione e cooperazione restano le due dinamiche portanti del comportamento umano, ma il punto di equilibrio è determinato dal contesto, ed il contesto che abbiamo sviluppato nell’arco dei millenni è totalmente diverso da quello che ha dato origine all’etica ebraica prima, e cristiana in seguito.

L’etica ebraico-cristiana, elaborata in seno ad un popolo disperso di pastori nomadi, fornisce indirizzi efficaci in situazioni di povertà di risorse e scarsità d’individui. Dato un simile contesto, la solidarietà, la condivisione, l’aiuto reciproco contribuiscono fattivamente al benessere delle comunità ed alla loro prosperità. Ma il mondo che ha visto la luce in seguito alla rivoluzione industriale non presenta più queste caratteristiche.

Il mondo in cui viviamo oggi è dominato dalla sovrabbondanza di beni e di popolazione, animato da collegamenti veloci che consentono di trasferire rapidamente persone e beni materiali da un paese all’altro, da un continente all’altro. Regolato da legislazioni che favoriscono l’accumulo di ricchezza in poche mani, perfettamente compatibili con pesanti disparità sociali che producono masse sfruttate da un lato ed oligarchie economico-finanziarie dall’altro.

In questo contesto l’etica solidale cristiana risulta ancora premiante al livello dei singoli individui, delle relazioni interpersonali, ma le modalità predatorie tipiche dell’accumulazione capitalista offrono vantaggi sconfinati per quanto riguarda le manipolazioni su vasta scala, dai singoli paesi ad interi continenti. Nella modernità globalizzata, singoli egoismi individuali possono arrivare a disporre di un potere di gran lunga superiore a quello esercitabile dalla vasta maggioranza della popolazione, grazie al controllo sulla politica e sui mezzi di comunicazione, alla propaganda strisciante ed onnipresente, alla menzogna reiterata.

Eppure anche questo momento storico  folle, estemporaneo ed esplosivo, si schianterà di fronte ai limiti fisici del pianeta che ci ospita. La cultura dell’accumulo egoistico dovrà sperabilmente far posto a quella della ridistribuzione, perché l’alternativa produrrebbe paesi spopolati ed indeboliti. Non possiamo dare per scontato che questo avvenga nell’immediato.  Nel secolo scorso il crollo dei mercati degli anni ’20, ed il conseguente impoverimento delle popolazioni, produssero al contrario ideologie fortemente aggressive come il Fascismo in Italia e il Nazismo in Germania.

Quale tipo di etica, o di ideologia, o di religione potrà guidare la transizione verso una cultura a minor impatto ambientale non ci è dato sapere, probabilmente deve ancora essere formulata. Abbiamo accumulato negli anni una lunga serie di tesi puramente razionali, ma sappiamo bene quanto poco la razionalità riesca a pesare nei momenti di crisi sociale. Converrà trovare il modo di elaborare una nuova Idea del Mondo nel tempo che ancora ci resta, a rischio di non poterne disporre quando ne avremo un disperato bisogno.

Il picco delle risorse

Di Jacopo Simonetta.

A giorni ci sarà un referendum che riguarda, sia pure in modo molto marginale, la principale delle nostre risorse: il petrolio!

Il picco del petrolio di buona qualità ed a buon mercato è stato nel 2005.   Quello di tutte le forme di energia fossile è probabilmente adesso perché il picco del petrolio si porta dietro, necessariamente, il picco di tutte le altre risorse.   Comprese quelle rinnovabili, che sfruttiamo in gran parte proprio grazie al petrolio

Al link qui sotto è possibile vedere le diapositive dell’incontro del 9 aprile 2016 dal titolo: Referendum 17 Aprile, una goccia nel mare.

picco delle risorse

 

Il picco delle risorse

Il blindato più caro del mondo? È’ italiano ed e’ una “sola”

Il Freccia
Il Freccia

Riconosco che può sembrare strano, su Crisis, un post dedicato ad un blindato.

Il punto è che la mamma di tutte le crisi si lega in modo indissolubile con malversazioni, manovre lobbistiche, proiezioni di sterile Potenza, pie illusioni di risoluzione armata dei conflitti sistemici per le risorse, mantenimento dello status quo mondiale e affaristico, etc etc.

Semplicemente, su questo non tanto piccolo, viste le cifre coinvolte, scandalo, mi è caduto l’occhio, leggendo un post sui numerosi conflitti di interesse affrontati e risolti con discreta soddisfazione delle lobbies di volta in volta coinvolte, da parte del governo Renzi, in buona continuità con quelli precedenti.

Manco a dirlo, l’acquisto di qualche miliardo di sistemi d’arma nuovi nuovi rende felici o almeno parecchio soddisfatte un bel po’ di lobbies  assortite. Ma andiamo con ordine.

Con due atti successivi, il governo italiano ha deliberato di acquistare 249 e poi 381 blindati ( erroneamente definiti da molti giornali carri armati) Freccia, per un totale di 630 mezzi. per una coincidenza strepitosa uno per ogni parlamentare.

Quanto ci costano? Presto detto: il primo lotto, nel 2009, ci era costato 1,6 miliardi per 249 mezzi, ma aveva compreso, ovviamente, anche la ricerca e lo sviluppo ( anche se il freccia deriva strettamente, pregi e difetti, dal blindo centauro). 6.43 milioni per  blindato. La nuova fornitura, per altri 2.6 miliardi complessivi, e’ stata approvata a gennaio 2015, dal governo Renzi tanto impermeabile alle lobbies da vedere il Capogruppo PD in commissione difesa tentare invano di bloccare la decisione del governo, presa lo stesso giorno in cui si coronava, tra l’altro, il sogno da oltre 5 miliardi di euro dell’Ammiraglio De Giorgi, proprio perché a suo dire pesantemente inquinata dalle  pressioni delle aziende di armamenti. Ci sarebbe da parlare anche di questi sogni di gloria e deliri proiettivi di potenza di una marina che non riesce a garantire sufficienti mezzi e carburante alla guardia costiera per evitare centinaia di morti in mare all’anno, ma rimaniamo su QUESTO delirio terrestre.

intanto ecco qui la scheda tecnica.

Poi affrontiamo, una buona volta, il costo unitario del veicolo.

2.6 miliardi per 381 mezzi  sono, in apparenza, 6.8 milioni a blindato. Il secondo lotto costerà quindi ancora di più del primo.

Piu’ di un teutonico Leopard II. 5.74 milioni di dollari.

Piu’ di un  celeberrimo americano Abrams m1a2, da 6.2 a 4 milioni di dollari, o meno se comprato come “usato garantito”

Piu di un avanzatissimo israeliano  Merkava IV. 4.5 milioni di dollari

Piu’ di un corazzatissimo inglese Challenger 2.  4.2 milioni di sterline.

Sono i migliori mezzi blindati occidentali in circolazione, i più potenti e sofisticati, con i sistemi di offesa e difesa più costosi e complessi. Possono resistere a qualunque cosa o quasi ( in realtà i razzi a doppia testata cava, che cominciano ad essere in dotazione a molti gruppi, sono in grado di bucare, in certe condizioni, anche le loro corazze).  Hanno cannoni precisissimi. Sistemi avanzatissimi di stabilizzazione del tiro, motori da 1500 cavalli, corazze stratificate e reattive….insomma stanno al freccia come una Jaguar sta ad un pulmino Volkswagen.

i freccia costano perfino di più, ed è tutto dire,, visto gli elevati costi di sviluppo spalmati su un esiguo numero di esemplari, dei carri ariete, che questo documento riporta con un costo unitario di 6.8 miliardi di lire, che potremmo rivalutare spannometricamente come 6.8 milioni di euro.

Lo stesso documento riporta, sulla riga immediatamente successiva, il costo del blindo centauro di cui, ripeto, il freccia e’una derivazione da trasporto truppe, decisamente meno potente e costosa, dal punto di vista dell’armamento.  3.8 miliardi di lire, che possiamo tradurre con 3. 8 milioni di euro, per riportarlo ai nostri giorni. Caro, come si vede dal confronto con veri carri armati, ma pur sempre poco più della metà’ degli irresistibili Freccia.

Vi sembrano conti dubbi? Allora che ne dite dei 10 milioni stanziati nel 2011  per la progettazione lo studio e la realizzazione di due prototipi del centauro II, un veicolo ovviamente più sofisticato e moderno del centauro ed almeno alla pari con il freccia ( senza contare le differenze di armamento) Si tratta di prototipi, quindi la costruzione non è in serie, molti apparati sono integrati per la prima volta etc etc etc. Eppure costano 5 milioni di euro l’uno. Oltre un milione di euro meno degli esemplari di serie del fantasmagorico veicolo “corazzato”.

A questo punto, credo ci aspetteremmo una via di mezzo tra la macchina di Batman e l’astronave di capitan harlock.

Invece no. I veicoli in questione non sono in grado difendere i soldati che trasportano in caso di attacco con bazooka, missili spalleggiati o grossi calibri. Al più possono salvarli da uno ied. ( Improvvised Explosive Device) non troppo potente o dalle raffiche di kalashnikov. Per resistere ad un cannoncino come il loro, da 25 millimetri ( da confrontare con i 105 o 120 dei vecchi e nuovi carri) o da una mitragliata di una camionetta “tecnica” di qualche milizia, devono essere dotati di blindature aggiuntive, che ovviamente fanno lievitare il costo.

I blindo centauro , utilizzati in Somalia e in Afghanistan sono stati in qualche modo ricoperti con piastrelle reattive in grado almeno di difendere gli occupanti da proiettili fino a 30 mm o razzi spalleggiati di modesta potenza. Di fatto, dei 250 mezzi realizzati solo 17 sono stati collaudati sul campo in Afghanistan e questo per il banal motivo che in realtà non sono particolarmente più sicuri di una camionetta blindata come il lince, dato che costituiscono un bersaglio più pagante per i gruppi dotati di razzi, dai quali, come visto, non possono difendersi. Dalla loro, grazie alla relativa leggerezza, hanno una velocità massima di oltre 100 km l’ora che però risulta di scarsa utilità sul terreno urbano e fuoristrada, tipici dell utilizzo di questi mezzi.

Non è ancora chiaro? Il Merkava ha dimostrato di non essere sempre in grado di difendere i soldati trasportati ( sì perché può portare alcuni soldati oltre all’equipaggio, all’interno) pur avendo una resistenza equivalente ad oltre 600 millimetri di acciaio, ottenuta con una corazza complessa, cariche reattive, etc etc etc.

QUINDI l’esercito israeliano ha deciso di realizzare un trasporto truppe ANCORA PIÙ PROTETTO del Merkava, ma da esso derivato. A quanto pare il veicolo corazzato più protetto e sicuro al mondo.

si tratta del Namer.

Namer
Namer

costo: 3 milioni di dollari, meno della metà di un freccia. Con un calcolo approssimativo basato sulla capacità di resistere delle sue corazze, circa dieci volte più sicuro.

Breve sintesi: L’Italia ha quindi deciso di dotarsi del più caro veicolo blindato del mondo e, probabilmente, di tutti i tempi e un ragazzino con un  qualunque residuato bellico e’in grado di bucarlo.

con un lievissimo underststement: 4 miliardi e spiccioli certamente malspesi.

Intanto, a priori, per il motivo ovvio che con 4 miliardi si risolvono i problemi del sistema pensionistico italico almeno nel 2016, o si ricostruisce il centro dell’Aquila, o si chiude la vergogna degli esodati. Secondariamente perché dovremmo deciderci, una buona volta, a comprendere che la secolare battaglia tra corazza e proiettile e’stata vinta. Dal proiettile. E se non bastasse, dall’elettronica.

Il post si potrebbe chiudere qui, ma credo che ci vadano un paio di altre righe: 4 miliardi divisi i circa 30 milioni di contribuenti italici sono 133 euro a testa.

Non so voi ma il sottoscritto vorrebbe che fosse chiarito chi ha così facilmente convinto la nostra commissione difesa ad approvare, senza un fiato, una spesa ovviamente incongrua per un mezzo che, a parte le ovvie considerazioni sull’opportunità di mandare soldati nel mondo, costa ALMENO dal doppio al triplo del dovuto. E non serve allo scopo per cui e’realizzato, salvare la vita ai nostri soldati trasportati. Il fatto che su 250 ne siano stati utilizzati solo 17 in Afghanistan, la dice lunga sulla fiducia riposta nel mezzo. Pare evidente che, proprio in conseguenza dei costi, dei risultati di utilizzo non brillanti e dell’esistenza di alternative più economiche e molto ma molto più sicure, si sarebbe dovuto attendere prima di dare il via al secondo lotto. Con un pessimo affare per noi cittadini e per i soldati italiani.

Per dirla tutta: una “sola”,  almeno in apparenza.

Pressioni? Lobbies? Naaaa, giammai,  maddeche’, vade retro, gufi gufacci e rosiconi immobilizzatori del paese.

Gli idoli della modernità

Dopo Armi, acciaio e malattie, breve storia degli ultimi tredicimila anni non ho potuto resistere alla tentazione di leggermi al più presto anche il successivo libro di Jared Diamond: Collasso, come le società scelgono di morire o vivere. Se nel precedente l’attenzione era concentrata sull’evoluzione delle civiltà, qui l’autore cerca di comprendere i meccanismi alla base della loro fine.

Il nostro pianeta conserva i resti di innumerevoli civiltà, fiorite in luoghi diversi solo per poi sparire completamente, in modi misteriosi, lasciando dietro di sé templi ed idoli di una magnificenza sconcertante se si considera che furono prodotti da popoli in grado di maneggiare unicamente strumenti di legno e pietra.

Gli strumenti scientifici attuali ci consentono di ricostruire molta della storia di questi popoli con tecniche incredibili, fino a comprendere l’evoluzione dell’habitat naturale e delle abitudini alimentari nell’arco di secoli a partire dall’analisi microscopica dei resti abbandonati di antiche discariche e cimiteri.

La sconcertante civiltà dell’isola di Pasqua compare già nei primi capitoli del libro. Lontanissima da tutte le altre terre, circondata dal Pacifico per migliaia di chilometri, fu popolata intorno all’anno 1000 d.c. dai polinesiani, solo per perdere quasi subito ogni contatto con le isole da cui la colonizzazione partì.

Sull’isola si sviluppo’ una bizzarra civiltà, che costruì ed innalzò centinaia di enormi statue per ingraziarsi la benevolenza degli antenati, i Moai. La fabbricazione ed il trasporto di questi idoli di pietra causò la totale deforestazione dell’isola, finendo col rappresentare un enigma insolubile per i secoli a venire dopo la sua riscoperta da parte degli europei.

Nell’arco di circa sette secoli, un’isola che ora sappiamo coperta originariamente da una lussureggiante foresta di enormi palme (una specie endemica dell’isola, ora completamente estinta) e popolata da sterminate colonie di uccelli marini, fu ridotta ad una landa brulla e desolata in cui poche centinaia di abitanti si arrabattavano a sopravvivere coltivando poche varietà commestibili e ricorrendo di necessità, per colmare il deficit di proteine nell’alimentazione, al cannibalismo.

L’immensa foresta dovette sembrare, ai primi colonizzatori, una ricchezza enorme ed inesauribile, la crescita della popolazione un fatto inevitabile ed anzi ben accetto, la costruzione dei primi Moai una semplice forma di ringraziamento degli antenati. Poi qualcosa andò storto, o forse andò nell’unico modo in cui poteva andare: la fabbricazione delle statue divenne essenziale per la conservazione della struttura sociale che si era venuta a creare.

La costruzione dei Moai e delle piattaforme che li sostenevano divenne la principale attività “industriale” dell’isola, coinvolgendo migliaia di persone. Ciò rese il processo inarrestabile e portò al completo annientamento della foresta ed al conseguente esaurimento del legname indispensabile al trasporto. Nella cava di Rano Raraku restano ad oggi quasi 400 statue incomplete, segno che la popolazione era totalmente inconsapevole del destino cui stava andando incontro.

Con l’abbattimento della foresta di palme, che offriva cibo e rifugio agli uccelli marini, le condizioni di vita divennero ben presto insostenibili, la carenza di cibo innescò guerre tra le diverse fazioni dell’isola, ed anche tutti i Moai innalzati fin lì, in una forma di rabbiosa quanto sciocca vendetta, vennero abbattuti. La popolazione precipitò dai 15-20.000 individui del momento di massimo splendore a poche centinaia al momento del contatto con gli europei, che ne completarono la decimazione con le deportazioni e la trasmissione di malattie mortali.

Che insegnamento possiamo trarre da questa vicenda che ci riguardi direttamente? Certo è che i comportamenti umani sono tutti molto simili, e come gli abitanti dell’isola di Pasqua non si resero conto delle conseguenze a lungo termine delle loro attività, anche noi potremmo fare altrettanto: condurre la nostra società ad un tale livello di sovrappopolazione e sfruttamento di risorse non rinnovabili da rendere impossibile invertire o arrestare il processo.

Ed, al pari dei Moai, anche noi potremmo aver prodotto delle entità totemiche alle quali tutti guardano con venerazione e rispetto, la cui “necessità” non può essere messa in discussione, che rappresentano la principale attività industriale del mondo moderno (la prima voce nel consumo di risorse non rinnovabili) e che tendono a crescere in dimensioni, “status” e consumi man mano che si va avanti negli anni.

A voi questa descrizione cosa fa venire in mente?

Trappole 3: L’ efficienza

 

di Jacopo Simonetta

efficienzaCi fu un tempo non molto remoto in cui  “Fattore 4” era per me un testo di riferimento.   Per chi non lo conosce, è un libro scritto da tre dei più illustri studiosi in materia di sostenibilità.   Niente di meno che Amory B. Lovins, L. Hunter Lovins, Ernst U. von Weizsäcker.   Persone che hanno diretto istituzioni del calibro del Wuppertal Institut e del Rocky Mountain Institute.   Il massimo, insomma.

In estrema sintesi, la tesi sostenuta ed ampiamente documentata nel libro è che già con le tecnologie commercialmente disponibili negli anni ’90 era possibile quadruplicare la produzione di beni e servizi senza incrementare il prelievo di risorse e la produzione di scorie.   Oppure mantenere i livelli di produzione, riducendo del 75% i consumi ed i rifiuti.   Tombola!

Cosa di meglio?   A cominciare dal fatto che l’ambientalista cessava finalmente di presentarsi come una sorta di monaco verde che annunciava l’apocalisse se tutti non si fossero pentiti e dati ad un’esistenza di privazioni.   Al contrario, poteva trattare con sufficienza i retrogradi ed i reazionari, incapaci di vedere il sorgere di un’alba tecno-radiosa dietro le moribonde fuliggini di un’economia fossile in agonia.

Molto appagante, ma non ha funzionato.   E, col senno di poi,  la cosa drammatica è che neanche avrebbe potuto funzionare.   Possibile che persone di tale competenza si siano sbagliate così di grosso?   No, però si.

Un primo punto è che, storicamente, l’aumento dell’efficienza produttiva ha sempre comportato un aumento dei consumi.   Un fenomeno tipicamente contro-intuitivo su cui esiste un’ampia letteratura a cominciare dal 1865.   Magari ci torneremo un’altra volta.

Quello che qui vorrei mettere in risalto è invece che l’aumento dell’efficienza, se non controbilanciato da altri fattori limitanti, tende inevitabilmente a distruggere le basi ecologiche della sopravvivenza.
In una cultura compenetrata dal culto dell’efficienza questa è probabilmente una nozione difficile da accettare.   Vediamo quindi di capirla con l’aiuto di qualche esempio semplice.

Immaginiamo di sfruttare una risorsa rinnovabile, per esempio un banco di pesca.   Pescare rende e così investo per pescare di più.   Ma via via che pesco, la densità e la taglia dei pesci diminuiscono, mentre i miei costi in termini di lavoro, carburante, tempo eccetera, aumentano, finché non mi conviene più e rallento.   Diminuendo la pressione, i pesci si riproducono meglio e crescono di più, cosicché torna ad essere vantaggioso pescare.
Si crea così un approssimativo equilibrio in cui il tasso di sfruttamento tende ad adeguarsi al tasso di rinnovamento della risorsa.   Ma che succede se qualcuno trova il modo per individuare più in fretta i banchi di pesci?   Oppure costruisce dei motori navali che spingono di più consumando di meno?
Succede che i costi diminuiscono e diventa quindi interessante sfruttare la risorsa anche a densità e dimensioni medie che prima non erano convenienti.   Ma se una risorsa rinnovabile viene sfruttata ad un tasso superiore a quello con cui si rinnova diventa, di fatto, una risorsa non-rinnovabile a tutti gli effetti pratici.   All’incirca come il petrolio od il rame, con il suo picco ed il suo dirupo di Seneca.  eccesso di pescaCioè esattamente quello che è accaduto ai principali banchi di pesca del mondo.

 

Facciamo un altro esempio.    Un albero impiega dai 15 ai 20 anni per raggiungere una taglia utilizzabile per farne legna da ardere.   Dai 50 ai 100 per poterne fare tavole e carpenteria corrente.   Dagli 80 ai 300 per diventare utilizzabile come legname pregiato.   Per questo certe opere, come le cattedrali gotiche e le flotte della prima era coloniale sono state possibili solo distruggendo foreste vecchie di molti secoli.

Man mano che la frequenza dei tagli aumenta, alcune specie spariscono e la taglia media diminuisce, rendendo meno conveniente lo sfruttamento.   Ma se si inventano modi più efficienti di tagliare e trasportare i tronchi, oppure se la pressione economica e/o demografica aumenta, lo sfruttamento continua comunque.   Ed è così che, in molte zone, nel giro di un paio di secoli siamo passati dalla produzione di legnami pregiati a quella di legname da carpenteria, poi da ardere ed infine alla carbonella.
Nessuno amava i carbonai perché dopo il loro passaggio la “miniera di legname” era esaurita e restavano solo sassi fra i quali le capre cercavano qualche filo d’erba.    Gran parte dei deserti e dei sub-deserti del nord-Africa e del sud-Europa hanno avuto questa origine.

Finché il lavoro è stato fatto con le scuri, il fenomeno è stato necessariamente confinato ad aree relativamente limitate.   disboscamentoL’introduzione di motoseghe, camion e trattori ha permesso il disboscamento in pochi decenni di ben oltre la metà della superficie boscata ancora esistente.   I mezzi attualmente in uso sono in grado di tagliare, sfrascare ed accatastare alberi secolari nel giro di minuti.

Lo stesso è accaduto o sta accadendo a praticamente tutte le risorse teoricamente rinnovabili, dall’acqua, al suolo, alla biodiversità.

Dunque l’efficienza è male?   Ma non ci avevano spiegato a scuola che l’evoluzione è una costante tendenza ad aumentare l’efficienza nello sfruttamento delle risorse?

La risposta alla seconda domanda è: si, ma in un ecosistema tutti gli elementi che lo costituiscono coevolvono, interagendo in continuazione fra loro, e tutti con tempi di adattamento analoghi.   Quello che si verifica è quindi che il miglioramento nella capacità del parassita di attaccare l’ospite si sviluppa circa di pari passo con la capacità dell’ospite di resistere.   Lo stesso avviene fra prede e predatori, eccetera.  Ovviamente è un gioco in cui molti si fanno male e muoiono, ma l’ecosistema permane e si adatta.

Nel nostro caso, c’è un elemento, noi, che evolve con tempi che sono di parecchi ordini di grandezza più brevi di quelli della maggior parte degli altri elementi, ma non tutti.   Ne consegue che l’ecosistema viene completamente stravolto e rimaniamo solo noi, i nostri simbionti (perché siamo noi a garantirgli condizioni idonee) ed alcuni dei nostri parassiti (che sono ancora più svelti di noi).

La risposta alla prima domanda è: dipende.   Se subentrano altri fattori che limitano lo sfruttamento della risorsa come tabù religiosi, tasse o leggi che limitano il prelievo, oppure vengono scoperte risorse alternative più economiche, l’aumento dell’efficienza può non avere effetti negativi.   Ma rimane sempre un gioco pericoloso perché l’aumento dell’efficienza tende comunque a trasformare le risorse da rinnovabili a non rinnovabili.

Teoricamente le risorse potrebbero essere salvaguardate ed in alcuni casi è anche possibile recuperare in parte del danno fatto.   Ma nella realtà dei fatti ogni aumento di efficienza nello sfruttamento di una risorsa si traduce sempre in un degrado della medesima, eventualmente fino alla sua completa distruzione.

Amen.