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Il conto della serva

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Nel dibattito sulle infrastrutture per la ciclabilità raramente si discutono i motivi alla base della loro realizzazione. In un paese abituato ad affrontare i problemi reali con lo stesso approccio riservato alle discussioni sul calcio è, purtroppo, ormai abituale assistere alla contrapposizione di opposte tifoserie. Tra i favorevoli, ovviamente, i ciclisti, dall’altra parte gli automobilisti, in una guerra di posizione tesa a difendere il territorio conquistato, che sia spazio urbano o la priorità nell’assegnazione di fondi pubblici.

Se però guardiamo un attimo fuori dal ‘paesone Italia’ e proviamo a ragionare con la testa degli altri, ci rendiamo immediatamente conto delle reali argomentazioni a favore delle sistemazioni ciclabili e dell’uso della bicicletta, soprattutto nei contesti urbani. Per meglio contestualizzare il quadro complessivo farò un passo indietro e ragionerò sui motivi che hanno portato, in passato, ad investire così tanto sul trasporto automobilistico.

Negli anni del primo dopoguerra la priorità era risollevare il paese dalle devastazioni prodotte dalla seconda guerra mondiale e saltare in fretta sul ‘carro’ della crescita economica. L’Italia aveva un importante comparto meccanico/industriale che andava rimesso in moto ed un’industria petrolifera nazionale, oltre ad un territorio ancora per larghi versi mal collegato. In questo contesto promuovere l’utilizzo dell’automobile servì a ridare al paese la spinta, anche ideale, necessaria a dar vita al boom economico degli anni ’60 ed entrare a testa alta a far parte del mondo industrializzato.

Parliamo però di qualcosa come sessant’anni fa. In questi sei decenni la situazione è profondamente mutata. L’automobile, da sogno di libertà, si è trasformata in un insaziabile divoratore dello spazio urbano, fino al punto da saturare la rete viaria e produrre ingorghi e rallentamenti. Parallelamente a questo si è divenuti via via consapevoli del rovescio della medaglia, rappresentato da inquinamento, sedentarietà, incidentalità. Tutto questo mentre l’industria petrolifera nazionale perdeva terreno e la produzione di automobili si spostava all’estero, inseguendo l’opportunità di salari più bassi e privando il paese di un essenziale ricircolo di ricchezza. La mobilità a motore, col passare del tempo, si è trasformata per la collettività da risorsa a costo sociale.

Quello che, in tempi più o meno recenti, hanno fatto in Olanda, Germania, Danimarca, è stato darsi degli strumenti per contabilizzare quale ritorno per la collettività producano gli spostamenti in macchina. Su un piatto della bilancia c’è l’indotto fiscale derivante dalla vendita di automobili (vetture ed accessori), carburanti, assicurazioni, che rappresentano una buona fetta del PIL nazionale. Sull’altro piatto ci sono i costi di sviluppo e manutenzione della rete viaria e dei servizi connessi, i costi sanitari dell’incidentalità stradale, dell’inquinamento, della sedentarietà (sia in termini di malattie connesse che di mancato gettito per il tempo-vita e le ore lavoro perse), la perdita di ore lavorative generata dalle congestioni del traffico, il degrado dei centri urbani, lo stress prodotto dall’inquinamento acustico, la minor attrattività turistica delle città, il drenaggio monetario derivante dall’acquisto di carburanti dai paesi produttori e via elencando.

In uno studio del 2010  la città di Copenhagen quantifica queste analisi in termini di distanze: ogni chilometro percorso in bici comporta un guadagno economico netto di 42 centesimi alla società. Lo stesso chilometro, se percorso in auto, genera una perdita di 3 centesimi. Questo consente finalmente di ragionare sullo sviluppo della mobilità ciclabile in termini quantitativi, svincolandosi dal vicolo cieco delle opposte tifoserie: le infrastrutture ciclabili non solo servono, ma se ben realizzate producono un reddito per la collettività.

E qui facciamo un passo ulteriore, perché non tutte le infrastrutture ciclabili producono reddito, occorre che rispondano a requisiti stringenti. Il primo è che siano realmente utili ai cittadini per gli spostamenti quotidiani. Una pista realizzata male, poco fruibile, insicura, vandalizzabile (in questo includo tutta una serie di comportamenti che vanno dalla sosta di veicoli sulla sede ciclabile al passeggio di pedoni, cani, ecc… che ne frenano l’utilizzo da parte dei ciclisti), una pista che vaga ‘a zonzo’, senza condurre nei luoghi di interesse, sarà sicuramente poco utile e poco utilizzata, e non produrrà reddito.

Pertanto, a monte della progettazione e realizzazione, andrà fatta una valutazione costi/benefici per ogni singola infrastruttura, che comprenda oltre ai costi vivi una stima sull’utilizzo e le tempistiche di rientro dell’investimento. A 42 centesimi a chilometro, un segmento di infrastruttura ciclabile lungo un chilometro restituisce alla collettività 42 euro ogni 100 ciclisti che lo percorrano. Se viene utilizzato in media da 1000 persone al giorno (i numeri nel centro di Copenhagen sono ancora maggiori) realizzerà un utile di 420€/giorno, pari a oltre 150.000€ l’anno. Su questa base è facile stimare il tempo di ammortamento delle infrastrutture.

È anche più facile comprendere perché nelle grandi città europee si trovino tanti contatori di ciclisti: il numero di utenti è il fine ultimo della realizzazione. Se un’infrastruttura risulta poco usata non si da la colpa ai ciclisti ‘che non la vogliono utilizzare’, come accade qui da noi: se ne chiede conto all’urbanista che ne ha decretato la necessità, o al progettista che l’ha realizzata. Perché alla fine di tutto lo sviluppo dell’uso della bici, il trasferimento di utenza dalla mobilità motorizzata alla mobilità attiva, è una cosa che conviene a tutti noi, automobilisti compresi, indipendentemente dal fatto che ad una fetta di popolazione ‘piaccia’ andare in bicicletta.

E soprattutto noi ciclisti dobbiamo smetterla di atteggiarci a filosofi ed amanti del bello e scendere sul piano del ‘vile danaro’. La ciclabilità nelle città non è tanto una questione di soddisfazione personale o di convincere gli altri che abbiamo capito qualcosa più di loro (pensiero che peraltro rivendico), quanto di ‘saccoccia’, che è un argomento comprensibile all’intero universo mondo.

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Figli di un Dio Motore

Come vado da tempo spiegando, l’organizzazione della mobilità urbana nelle città italiane risponde a logiche diverse da quelle che regolano le altre grandi capitali del mondo industrializzato. Partendo dall’esempio di recenti fatti romani illustrerò come lo sviluppo di forme di mobilità sostenibile venga non solo ignorato, bensì scientemente ostacolato dalle nostre istituzioni .

I mass media ci raccontano ormai da decenni  di città soffocate dal traffico e dall’inquinamento, con progressivo aumento di patologie: allergie, malattie delle vie respiratorie, tumori, complicazioni cardiovascolari legate alla vita sedentaria, malattie da stress e via elencando. A completare questo quadro drammatico c’è poi l’incidentalità, che sforna un computo di morti, feriti ed invalidi tipico di una guerra a bassa intensità. Ci si potrebbe aspettare che una situazione tanto grave attivi reazioni urgenti da parte delle varie entità di governo del paese, tuttavia questo non avviene. Per l’esattezza non è mai avvenuto.

Continuiamo a vivere in città regolate da un Codice della Strada emanato negli anni ’50 e, a giudicare dagli effetti, direttamente redatto dagli allora dirigenti della FIAT. Un’organizzazione delle strade già in partenza molto discutibile che, proiettata ad oltre mezzo secolo di distanza, ha letteralmente intasato gli spazi urbani di veicoli privati in transito a velocità eccessive.

Ridurre il carico di veicoli che circolano nelle città è ovviamente possibile. Gli interventi da porre in atto ricadono in due grandi tipologie: limitazioni degli accessi veicolari da un lato, facilitazione dell’utilizzo di modalità di trasporto alternative all’automobile dall’altro. L’imposizione di limitazioni agli automobilisti ottiene per solito una levata di scudi da parte della cittadinanza, ed è facilmente strumentalizzabile come ‘liberticida’ dai conservatori dello status quo (anche se quella che si intende limitare è la libertà di far male agli altri). Una strategia meno apertamente conflittuale comporta la messa in sicurezza degli utenti leggeri (ciclisti, pedoni ed utenti del trasporto pubblico) nell’idea di ridurre il carico veicolare sulle strade semplicemente favorendo modalità diverse di spostamento. Nelle principali capitali dei paesi occidentali si va operando ormai da anni un mix delle due opzioni.

L’intervento più semplice di sistemazione ciclabile prende il nome di ‘bike lane’ e consiste nella separazione dei flussi a mezzo di  semplice segnaletica orizzontale: una riga bianca disegnata a terra con pittogrammi di bici intervallati fra loro. Questa sistemazione non modifica l’ampiezza della sede stradale, ma consente di indicare la porzione di suolo utilizzata dai ciclisti ed ottenere che gli automobilisti se ne tengano a debita distanza. Ovviamente la convivenza di veicoli tanto diversi in assenza di una separazione fisica richiede che le velocità relative siano relativamente basse, e non è pertanto applicabile sulle tratte stradali ‘ad alto scorrimento’.
Gli antesignani di questa soluzione sono stati olandesi e danesi, questo è un esempio di ‘bike lane’ a Copenhagen.

Copenhagen
Qui invece siamo a Parigi, dove nel corso degli ultimi dieci anni le corsie ciclabili si sono moltiplicate rapidamente.

Parigi
Ed ecco Londra, dove pure, a partire dall’ingresso nel 21° secolo, le politiche di incentivazione della mobilità ciclistica e pedonale sono state diffuse e radicali.

London
Perfino a New York, capitale morale del continente che ha visto il più alto tasso di motorizzazione globale, le amministrazioni più recenti stanno operando un ridisegno della viabilità cittadina per favorire la scelta, ormai diffusa, di muoversi in bicicletta e a piedi.

New York
Al contrario a Roma, la città in cui vivo, l’amministrazione comunale ha scelto di fare orecchie da mercante, manifestando la più totale sordità alle richieste massicciamente avanzate dai cittadini ciclisti. Le ultime realizzazioni ciclabili, costose e dalla discutibile efficacia, risalgono alle giunte Veltroni. Dalla successiva consiliatura Alemanno alla caduca giunta Marino si è assistito ad un vero e proprio valzer di assessori, nella media totalmente disinteressati alla promozione dell’uso della bici ed alla salute dei cittadini, quando non apertamente contrari.

Gli attivisti romani hanno perciò preso spunto dal lavoro svolto in un’altra grande capitale nordamericana, Seattle. Si sono rimboccati le maniche ed hanno iniziato a tracciare segmenti di bike-lanes in tratti particolarmente a rischio della città. L’individuazione dei punti sui quali intervenire si è avvalsa in parte dell’esperienza diretta, in parte di un’analisi delle criticità urbane sviluppata dal sottoscritto.

La prima infrastruttura di questo tipo, apparsa all’interno del sottopasso di Santa Bibiana, è stata prontamente cancellata e, a breve distanza di tempo, ripristinata dai cicloattivisti. Ne sono seguite altre sotto la Stazione Tuscolana e su via Prenestina che, ignorate dall’amministrazione, sono state utilizzate a lungo dai ciclisti romani. Diverso destino per l’ultima nata, la “5th Avenue” (perché quinta in ordine di tempo e come rimando all’omonima via newyorchese, recentemente dotata di una apposita bike lane), realizzata pochi giorni fa su Ponte Principe Amedeo d’Aosta. Ecco come appariva l’opera appena completata.

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A differenza delle precedenti (se si esclude Santa Bibiana), quest’ultima realizzazione è durata pochissimo. Le ‘truppe cammellate’ della manutenzione stradale, capaci di lasciare buche aperte per mesi e di ridipingere le strisce pedonali solo nella porzione di strada lasciata libera dalle auto in sosta vietata, a distanza di sole quarantott’ore sono corse a cancellarla, con un’urgenza altamente sospetta.

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Questo è l’effetto finale della sistemazione dopo la cancellazione. Notare come il flusso di traffico ‘rispetti’ ugualmente il corridoio nonostante la cancellazione della linea bianca. Segno evidente che la scelta di destinare l’intera ampiezza della carreggiata al transito veicolare non è dettato da alcuna reale necessità, ma solo un portato della volontà di assegnare tutto lo spazio disponibile ad un’unica tipologia di veicoli.

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Seattle, a differenza di Roma, ha mostrato una maggior intelligenza nell’accogliere le istanze dei cicloattivisti cittadini. Le bike lanes realizzate ‘clandestinamente’ sono state lasciate in funzione in via sperimentale, per verificarne la validità, ed in seguito acquisite come sistemazioni definitive della viabilità cittadina. Questo è quanto ci si potrebbe aspettare da un’amministrazione illuminata.

Seattle
Il comportamento di quella romana, al contrario, manifesta unicamente la stolida volontà di continuare ad affermare un potere assoluto, esercitato a difesa di sistemazioni stradali ormai palesemente disfunzionali ed antistoriche, baluardo di una modalità di trasporto inefficiente, energivora e per più di un motivo ormai insostenibile e da ridimensionare. Cosa che tutte le altre grandi città del pianeta hanno compreso da tempo.

La sorte dei cicloattivisti romani continua a rimandarmi alla mente la scena della donna ingegnere ebrea nel film Schindler’s List, che corre dal comandante del campo per segnalare un rischio di instabilità strutturale nelle nuove costruzioni, e viene per questo giustiziata sul posto. Una volta avvenuta l’esecuzione, lo stesso comandante ordina che la struttura venga modificata come da lei indicato.

Schindler's list
Che le modalità d’uso delle città siano destinate a cambiare in chiave di riduzione del traffico motorizzato è evidente a chiunque segua da un po’ le trasformazioni urbane in corso nelle grandi metropoli. Quello che le città italiane otterranno con questo ostruzionismo nel preservare utilizzi obsoleti dello spazio pubblico è altrettanto evidente: magri vantaggi per pochi soggetti economicamente forti ed un danno enorme in termini finanziari e di salute per l’intera popolazione. Personalmente avrei tanto desiderato un destino diverso per questo disgraziato paese.