Tutti gli articoli di Jacopo Simonetta

Laureato in Scienze Naturali, dal 1981 svolge attività professionale come ecologo, ma anche come volontario per varie associazioni ambientaliste. Da una ventina d'anni si dedica alla didattica ed alla divulgazione in materia di insostenibilità e di crisi globale.

Trappole 4: La paura

“ La paura fa 90”, si diceva un tempo.   In effetti poche cose funzionano bene come la paura per far correre la gente.   Il problema è che se mette il turbo ai piedi, lo toglie al cervello.   In altre parole, quando si ha paura si corre veloci, ma difficilmente si sceglie la buona direzione.

Facciamo un esempio d’attualità: il terrorismo.

La parola in origine significava una forma di governo basata sul terrore.   Gli esempi storici spaziano Dionigi (tiranno di Siracusa), a Nerone, fino a Pol Pot, passando per gli immancabili Adolf & Joseph.    Ai giorni nostri  la Corea del Nord, per capirsi.   Un uso giornalistico del termine lo ha esteso a gruppi criminali più o meno politicizzati che usano il terrore come strumento per perseguire i propri scopi.   Talvolta si tratta semplicemente di controllare il traffico di stupefacenti su di una certa rotta, talaltra di acquisire fama internazionale a buon mercato; fino alla destabilizzazione di interi stati, secondo i casi.

Una sola cosa hanno in comune questi e gli altri esempi possibili: ammazzare più gente possibile più o meno a caso, in modo che l’opinione pubblica, e dietro di essa i governi, facciano quello che i terroristi desiderano.   Può essere avere i titoloni gratis sulla stampa nazionale o mondiale, come l’elargizione di soldi e protezioni in cambio di tranquillità.   Oppure il varo di norme vessatorie che allarghino la base d’appoggio dei criminali e molto altro ancora.

Ci sono molte cose che si possono fare per contrastare il terrorismo.   Molte di queste sono appannaggio dello stato: polizia, servizi segreti, esercito, eccetera.   Ma la principale rimane in carico ad ogni cittadino: non lasciarsi terrorizzare.
Quando ci sono decine o centinaia di morti la rabbia ed il dolore sono normali, la paura anche, ma il terrore è un’altra cosa.

Quanta gente ammazzano i terroristi?

La figura 1 illustra i risultati di un sondaggio che stima il rischio reale ed il rischio percepito:

rischio reale e rischio percepito

Si capisce a colpo d’occhio che ciò che fa più paura (attacco terroristico, incidente aereo, elettrosmog) non ha niente a che fare con ciò che è più pericoloso (cancro, incidente d’auto, surriscaldamento climatico).

E come andavano le cose quando la maggior parte di noi era giovane?   Decisamente i venti anni dal ’70 al ’90 sono stati assai peggiori, eppure non ci sono state le crisi di nervi collettive, né lo stato di emergenza imposto ad intere nazioni a tempo indeterminato.

image (1)Se poi andiamo a vedere la percentuale di vittime, troviamo che l’Europa è un bersaglio del tutto marginale nelle diverse strategie terroristiche attualmente in atto nel mondo: 420 morti contro oltre 108.000 nel resto del mondo. (N.B. il dato relativo agli USA è sottostimato in quanto non considera i morti in sparatorie provocate da soggetti di estrema destra.   Il dato sulla Siria non comprende i morti nei bombardamenti governativi che sono l’80% dei civili uccisi).

Questo non significa che dobbiamo far finta di niente o minimizzare.   Significa però che la nostra abituale reazione (farsi prendere dal panico) è assolutamente ingiustificata.   Peggio: è probabilmente quello che i terroristi sperano che facciamo.   Dunque è il miglior incentivo alla loro azione.

Altre fonti e studi troveranno risultati un po’ diversi, ma la sostanza non cambia: ci stiamo comportando collettivamente in modo più sbagliato possibile.

Che facciamo?

Per essere chiari, non saranno certamente le marce per la pace che fermeranno il terrorismo, ma neppure le squadracce che picchiano chi gli capita a tiro.   Il terrorismo, inteso in senso moderno, è una parte inevitabile del nostro mondo e lo sarà ancora per decenni.   Possiamo fare molto per limitarlo, ma niente per eliminarlo.   Tant’è imparare a conviverci, pur senza smettere di ostacolarlo.   Il desiderio di sicurezza è legittimo e naturale, ma può facilmente condurre a qualcosa di infinitamente peggio di una certa dose di terrorismo criminale: un terrorismo di stato.   Perché dai criminali, almeno in parte, ti protegge lo stato, ma dallo stato, chi ti proteggerebbe?

E qui torniamo agli esempi storici di terrorismo.   Se è vero che probabilmente l’unico governo attuale autenticamente terrorista è quello di Kim Jong-Un, è altrettanto vero che sono molti i governi che stanno adottando la paura non solo come metodo di repressione del crimine, ma anche come strumento politico.   La fine di Regeni è abbastanza indicativa in questo senso, ma sono tanti i paesi dove essere all’opposizione costa la vita od il carcere.
Perfino nel cuore dell’Europa assistiamo ad una deriva simile.   I provvedimenti turchi contro la libertà di stampa, lo stato d’emergenza sine die in Francia sono solo la punta di un iceberg che stiamo assemblando pezzo per pezzo.   Siamo ancora molto lontani da governi terroristi, ma la distanza diminuisce e l’esperienza dimostra che la differenza fra protezione e prevaricazione tende a sfumare col tempo.

libertà versus sicurezza

La gradualità è il modo migliore per rendere impercettibile l’attraversamento di certe soglie che, viceversa, dovrebbero essere evitate a qualunque costo.   Anche a costo di morire per mano di una banda di pazzi criminali.

Il picco delle risorse

Di Jacopo Simonetta.

A giorni ci sarà un referendum che riguarda, sia pure in modo molto marginale, la principale delle nostre risorse: il petrolio!

Il picco del petrolio di buona qualità ed a buon mercato è stato nel 2005.   Quello di tutte le forme di energia fossile è probabilmente adesso perché il picco del petrolio si porta dietro, necessariamente, il picco di tutte le altre risorse.   Comprese quelle rinnovabili, che sfruttiamo in gran parte proprio grazie al petrolio

Al link qui sotto è possibile vedere le diapositive dell’incontro del 9 aprile 2016 dal titolo: Referendum 17 Aprile, una goccia nel mare.

picco delle risorse

 

Il picco delle risorse

Trappole 3: L’ efficienza

 

di Jacopo Simonetta

efficienzaCi fu un tempo non molto remoto in cui  “Fattore 4” era per me un testo di riferimento.   Per chi non lo conosce, è un libro scritto da tre dei più illustri studiosi in materia di sostenibilità.   Niente di meno che Amory B. Lovins, L. Hunter Lovins, Ernst U. von Weizsäcker.   Persone che hanno diretto istituzioni del calibro del Wuppertal Institut e del Rocky Mountain Institute.   Il massimo, insomma.

In estrema sintesi, la tesi sostenuta ed ampiamente documentata nel libro è che già con le tecnologie commercialmente disponibili negli anni ’90 era possibile quadruplicare la produzione di beni e servizi senza incrementare il prelievo di risorse e la produzione di scorie.   Oppure mantenere i livelli di produzione, riducendo del 75% i consumi ed i rifiuti.   Tombola!

Cosa di meglio?   A cominciare dal fatto che l’ambientalista cessava finalmente di presentarsi come una sorta di monaco verde che annunciava l’apocalisse se tutti non si fossero pentiti e dati ad un’esistenza di privazioni.   Al contrario, poteva trattare con sufficienza i retrogradi ed i reazionari, incapaci di vedere il sorgere di un’alba tecno-radiosa dietro le moribonde fuliggini di un’economia fossile in agonia.

Molto appagante, ma non ha funzionato.   E, col senno di poi,  la cosa drammatica è che neanche avrebbe potuto funzionare.   Possibile che persone di tale competenza si siano sbagliate così di grosso?   No, però si.

Un primo punto è che, storicamente, l’aumento dell’efficienza produttiva ha sempre comportato un aumento dei consumi.   Un fenomeno tipicamente contro-intuitivo su cui esiste un’ampia letteratura a cominciare dal 1865.   Magari ci torneremo un’altra volta.

Quello che qui vorrei mettere in risalto è invece che l’aumento dell’efficienza, se non controbilanciato da altri fattori limitanti, tende inevitabilmente a distruggere le basi ecologiche della sopravvivenza.
In una cultura compenetrata dal culto dell’efficienza questa è probabilmente una nozione difficile da accettare.   Vediamo quindi di capirla con l’aiuto di qualche esempio semplice.

Immaginiamo di sfruttare una risorsa rinnovabile, per esempio un banco di pesca.   Pescare rende e così investo per pescare di più.   Ma via via che pesco, la densità e la taglia dei pesci diminuiscono, mentre i miei costi in termini di lavoro, carburante, tempo eccetera, aumentano, finché non mi conviene più e rallento.   Diminuendo la pressione, i pesci si riproducono meglio e crescono di più, cosicché torna ad essere vantaggioso pescare.
Si crea così un approssimativo equilibrio in cui il tasso di sfruttamento tende ad adeguarsi al tasso di rinnovamento della risorsa.   Ma che succede se qualcuno trova il modo per individuare più in fretta i banchi di pesci?   Oppure costruisce dei motori navali che spingono di più consumando di meno?
Succede che i costi diminuiscono e diventa quindi interessante sfruttare la risorsa anche a densità e dimensioni medie che prima non erano convenienti.   Ma se una risorsa rinnovabile viene sfruttata ad un tasso superiore a quello con cui si rinnova diventa, di fatto, una risorsa non-rinnovabile a tutti gli effetti pratici.   All’incirca come il petrolio od il rame, con il suo picco ed il suo dirupo di Seneca.  eccesso di pescaCioè esattamente quello che è accaduto ai principali banchi di pesca del mondo.

 

Facciamo un altro esempio.    Un albero impiega dai 15 ai 20 anni per raggiungere una taglia utilizzabile per farne legna da ardere.   Dai 50 ai 100 per poterne fare tavole e carpenteria corrente.   Dagli 80 ai 300 per diventare utilizzabile come legname pregiato.   Per questo certe opere, come le cattedrali gotiche e le flotte della prima era coloniale sono state possibili solo distruggendo foreste vecchie di molti secoli.

Man mano che la frequenza dei tagli aumenta, alcune specie spariscono e la taglia media diminuisce, rendendo meno conveniente lo sfruttamento.   Ma se si inventano modi più efficienti di tagliare e trasportare i tronchi, oppure se la pressione economica e/o demografica aumenta, lo sfruttamento continua comunque.   Ed è così che, in molte zone, nel giro di un paio di secoli siamo passati dalla produzione di legnami pregiati a quella di legname da carpenteria, poi da ardere ed infine alla carbonella.
Nessuno amava i carbonai perché dopo il loro passaggio la “miniera di legname” era esaurita e restavano solo sassi fra i quali le capre cercavano qualche filo d’erba.    Gran parte dei deserti e dei sub-deserti del nord-Africa e del sud-Europa hanno avuto questa origine.

Finché il lavoro è stato fatto con le scuri, il fenomeno è stato necessariamente confinato ad aree relativamente limitate.   disboscamentoL’introduzione di motoseghe, camion e trattori ha permesso il disboscamento in pochi decenni di ben oltre la metà della superficie boscata ancora esistente.   I mezzi attualmente in uso sono in grado di tagliare, sfrascare ed accatastare alberi secolari nel giro di minuti.

Lo stesso è accaduto o sta accadendo a praticamente tutte le risorse teoricamente rinnovabili, dall’acqua, al suolo, alla biodiversità.

Dunque l’efficienza è male?   Ma non ci avevano spiegato a scuola che l’evoluzione è una costante tendenza ad aumentare l’efficienza nello sfruttamento delle risorse?

La risposta alla seconda domanda è: si, ma in un ecosistema tutti gli elementi che lo costituiscono coevolvono, interagendo in continuazione fra loro, e tutti con tempi di adattamento analoghi.   Quello che si verifica è quindi che il miglioramento nella capacità del parassita di attaccare l’ospite si sviluppa circa di pari passo con la capacità dell’ospite di resistere.   Lo stesso avviene fra prede e predatori, eccetera.  Ovviamente è un gioco in cui molti si fanno male e muoiono, ma l’ecosistema permane e si adatta.

Nel nostro caso, c’è un elemento, noi, che evolve con tempi che sono di parecchi ordini di grandezza più brevi di quelli della maggior parte degli altri elementi, ma non tutti.   Ne consegue che l’ecosistema viene completamente stravolto e rimaniamo solo noi, i nostri simbionti (perché siamo noi a garantirgli condizioni idonee) ed alcuni dei nostri parassiti (che sono ancora più svelti di noi).

La risposta alla prima domanda è: dipende.   Se subentrano altri fattori che limitano lo sfruttamento della risorsa come tabù religiosi, tasse o leggi che limitano il prelievo, oppure vengono scoperte risorse alternative più economiche, l’aumento dell’efficienza può non avere effetti negativi.   Ma rimane sempre un gioco pericoloso perché l’aumento dell’efficienza tende comunque a trasformare le risorse da rinnovabili a non rinnovabili.

Teoricamente le risorse potrebbero essere salvaguardate ed in alcuni casi è anche possibile recuperare in parte del danno fatto.   Ma nella realtà dei fatti ogni aumento di efficienza nello sfruttamento di una risorsa si traduce sempre in un degrado della medesima, eventualmente fino alla sua completa distruzione.

Amen.

Rivoluzione pigra: keep calm e gufa

Post già pubblicato col titolo: “Davvero vuoi la rivoluzione ? Elogio del Luddismo pigro” su Effetto risorse il 11 marzo 2016

Una delle tante leggende metropolitane che circolano è che ci voglia una rivoluzione per rovesciare un sistema corrotto ed inefficiente.

Sbagliato.

In molto grossolana approssimazione le rivoluzioni storiche si possono dividere in due grandi categorie: quelle che hanno vinto e quelle che hanno perso.

Cominciamo dalle seconde.   Cosa hanno in comune sommosse avvenute in luoghi e tempi lontanissimi?   Due cose: la prima è che la gente si ribella quando non ne può più.    La seconda è che, alla fine,  la gente esausta accetta condizioni molto peggiori di quelle da cui era partita.

Le rivoluzioni che vincono, si dividono ancora in due categorie: quelle che ottengono qualcosa e quelle che stravolgono il sistema.   Le rivolte che portano a riforme, di fatto sono una dinamica interna al sistema stesso che, in questo modo, corregge alcuni errori e riesce a tirare avanti ancora.
Lo abbiamo visto, per esempio, con la lotta per il voto alle donne.

Le rivolte che stravolgono il sistema quasi sempre ne insediano un altro peggiore.    Ne hanno fatto l’esperimento i francesi che hanno ghigliottinato Luigi XVI per trovarsi nelle mani prima di un manipolo di terroristi ben peggiori dall’attuale ISIL; e poi per 20 anni in quelle di un dittatore megalomane.
Lo hanno sperimentato i russi che si sono sbarazzati del regime zarista per cuccarsi Stalin.    E si potrebbe andare avanti.

Gli esempi di rivoluzioni che hanno instaurato sistemi completamente diversi dal precedente e (almeno temporaneamente) migliori sono stati veramente pochi.   Per esempio la “Rivoluzione Meiji”, condotta dall’Imperatore in persona; roba da giapponesi.   Oppure la “non guerra di indipendenza indiana” che ha ottenuto l’indipendenza dall’Inghilterra proprio perché non è stata combattuta.

Dunque vogliamo rovesciare o vogliamo salvare il sistema?   Ognuno ci pensi bene perché cercare di correggerne le macroscopiche nefandezze non fa altro che aumentarne l’efficienza e , quindi, la durata.

Lo abbiamo ben visto noi stessi.    Uno dei fattori che ha favorito il capitalismo nel suo storico scontro col comunismo sono state le opposizioni ambientaliste e socialiste in occidente.   Sono loro, infatti, che hanno spuntato migliori condizioni per i lavoratori ed un minimo di tutela per l’ambiente, fattori risultati strategici per migliorare le generali condizioni di vita, dunque aumentare i consumi e consentire la crescita economica che c’è stata.

Dall’altro lato della cortina di ferro, il governo perseguiva sostanzialmente gli stessi scopi di sviluppo e di potenza dei governi occidentali, ma chi dava fastidio vinceva un viaggio premio di sola andata.    Il risultato è che il sistema, privo di una sostanziale opposizione, si è avvitato su sé stesso, finendo schiacciato sotto la propria inefficienza.

Stesso film, su scala ancor più vasta, è andato in onda dopo il parziale collasso sovietico.   Annichilite o marginalizzate le opposizioni (perlopiù con le buone, per carità), il sistema capitalista si è sviluppato liberamente, portando alle estreme conseguenze i propri presupposti.   E si è avvitato sempre più su se stesso.

Detto in termini tecnici: l’autodistruzione è il destino di qualunque sistema lasciato in balia delle proprie retrazioni positive.   In altri termini, sono i fattori limitanti che garantiscono la durata dei sistemi, proprio perché ne ostacolano la crescita.

Detto in parole povere, una società dove quelli che contano la pensano tutti alla stessa maniera non può che finire male.

E dunque che fare?    La rivoluzione !

Cosa succederebbe se perdessimo?   Che un sacco di gente avrebbe una dose supplementare di sofferenza non necessaria, in aggiunta a quella inevitabile che già non sarà poca.

E che succederebbe se vincessimo?   Che passerebbero delle riforme come il razionamento dell’energia e dell’acqua, la ridistribuzione dei redditi eccetera.   Tutti correttivi in grado di far durare il sistema per altri 50 anni.

Dunque, se davvero vuoi spaccare tutto, aderisci al “Luddismo Pigro”.   Il principio basilare è semplice: chi va in giro a spaccare robe prima o poi troverà qualcuno che spacca lui.   Se invece lasci che tutto fili esattamente come ora, il sistema non mancherà di disintegrarsi da solo il più rapidamente possibile.

E’ a quel punto che inizierà il gioco vero, che non sarà più puntellare una versione più o meno corretta del progressismo, ma costruire da zero qualcosa di completamente diverso.    Sarà un gioco molto duro, ma anche molto interessante che si farà col poco che sarà rimasto.   E che cosa è veramente indispensabile?

Biodiversità, fertilità, acqua e cultura; le civiltà si costruiscono con questo.

Dunque, invece di spaccare vetrine e bruciare macchine, bisogna cercare di guadagnare tempo e salvare il più possibile di queste quattro cose dalla mega-macchina tritatutto.

Ad esempio, riuscire posticipare la costruzione di una nuova strada sull’ultima striscia di bosco del tuo comune può essere utile.   Magari fra tre o quattro anni non ci saranno più i soldi per farlo.   Oppure restaurare un oggetto artistico od un monumento.    Prima o poi andranno comunque distrutti, ma più a lungo durano e più potranno ispirare gli artisti del futuro.

Biodiversità, fertilità, acqua e cultura sono le sole quattro eredità che contano.   

Invece di fare casino, cerchiamo di lasciarne il più possibile dietro di noi.

Trappole 2: L’ innovazione

innovazione

Uno dei mantra con cui si cerca di esorcizzare la crisi è quello dell’ innovazione.   Se un paese, un’impresa, un singolo lavoratore vuole essere competitivo deve innovare.   Più fai innovazione e più fulgido è il tuo futuro.  Chi rimane indietro verrà fatto fuori dalla concorrenza a tutto vantaggio della collettività perché questo è il meccanismo che rilancia costantemente il progresso, la crescita ed il benessere.   Ma siamo sicuri?

Effettivamente, fra due imprese in concorrenza è probabile che venda di più quella che ha i prodotti più alla moda e che sviluppa i processi più efficienti.   Ma se per innovare ha fatto dei debiti ed il mercato non tira abbastanza, non è detto che vada a finire bene.   Personalmente, ho conosciuto più di un caso in cui, nell’ambito di un settore in crisi, sono sopravvissute proprio le aziende più “all’antica” perché usano impianti già ammortizzati ed hanno processi produttivi più elastici.

Salendo di scala, buona parte della storia è fatta di come popoli più innovativi sul piano organizzativo, tecnico e militare abbiano fatto fuori gli altri.   Ma anche in questo caso, se l’ innovazione sicuramente conferisce un maggiore potere, genera anche ulteriori necessità.   Ad esempio, la precoce e spinta petrolizzazione dell’economia USA è stata uno dei fattori che ne hanno fatto la giga-potenza mondiale.   Ma ha anche condotto gli americani ad impantanarsi nel caos medio – orientale (fra l’altro).   Contemporaneamente, ha dato un contributo fondamentale all’inquinamento globale, che adesso sta erodendo le basi dell’economia.

Salendo ancora di scala, quale può essere l’effetto dell’ innovazione sul capitalismo globale?

Semplificando al massimo, il fondamento del sistema è l’accumulazione di capitale, non solo sotto forma di denaro, ma anche e soprattutto in forma di impianti, macchine, infrastrutture, maestranze, conoscenze, eccetera che costituiscono l’autentica ricchezza di una società.

Sappiamo che il capitale si accresce mediante investimenti e si erode mediante consunzione ed obsolescenza.   Cioè, il capitale cresce perché una parte del suo prodotto viene reinvestito per produrre nuovo capitale.   E man mano che il capitale cresce, cresce la quantità di risorse che possono essere investite e così via.   E’ la “crescita” tanto amata da tutti.
Ma per mantenere in efficienza il capitale è necessario investire una parte della produttività del medesimo.    Le macchine hanno bisogno di manutenzione, le maestranze mangiano, le strade vanno periodicamente asfaltate eccetera.   Perfino per conservare un simbolo come il denaro ci vogliono banche, polizia e molto altro.
Dunque più cresce il capitale, più cresce il suo prodotto, ma anche i suoi costi energetici di manutenzione, finché questi diventano tali da mettere in crisi il sistema.    E’ uno degli infiniti esempi di come i Ritorni Decrescenti rallentano ed infine bloccano la crescita dei sistemi.

Ma niente paura!   L’innovazione ci permette di rendere sempre più produttivo il nostro capitale, così come di ridurre le risorse necessarie alla manutenzione.    Vero, ma anche qui si pone un problema di Ritorni Decrescenti.   “Accelerare l’ innovazione” è esattamente sinonimo di “accelerare l’obsolescenza”.   Più rapidamente si innova, più rapidamente si dovranno sostituire pezzi di capitale, anche trascurando la truffa dell’obsolescenza programmata.   Lo vediamo in maniera esagerata con i computer, ma lo stesso fenomeno riguarda qualunque parte del capitale materiale che sostiene una società: strade, impianti industriali, immobili, macchine, eccetera.   Ma succede anche col capitale immateriale: più rapidamente vengono superate le conoscenze tecniche e scientifiche, più bisogna investire in aggiornamento e/o sostituzione del personale, adeguamento dei programmi scolastici e via di seguito.

E’ pur vero che in molti campi (anche se non tutti) le nuove tecnologie hanno bisogno di una minore manutenzione o (soprattutto) di meno personale addetto.   Ma anche quando effettivamente si riducono i costi di manutenzione, accelerando il ricambio si aumentano quelli di ammortamento.   Anche in questo caso, arriva quindi un punto in cui lo scapito è maggiore del guadagno ed ogni ulteriore progresso tecnologico aumenta e non riduce i costi aggregati.

Infine, è necessario fare almeno un cenno al fatto che con il termine “innovazione dei processi produttivi” di solito si intende dire “licenziamo un po’ di gente”.    Anche in questo caso, finché vi sono i presupposti per una rapida crescita economica poco male, perché la gente che perde un impiego di solito ne trova un altro.   Ma quando i presupposti sono per una stagnazione, o peggio, dell’economia, chi perde il lavoro diventa suo malgrado un peso per la società.

Questa è la trappola:
L’innovazione è ciò che ha consentito alla nostra specie prima ed alla nostra civiltà poi di dominare il Pianeta.
A livello di singoli soggetti, può anche continuare ad essere una strategia vincente.   Ma da quando siamo entrati in una fase di stagnazione (o più probabilmente di recessione) di lungo periodo, l’innovazione rischia di giocare un ruolo fortemente negativo a livello generale.

In pratica, quello che favorisce i singoli soggetti danneggia il sistema di cui questi stessi fanno parte.

Trappola 1: buoni e cattivi.

Di Jacopo Simonetta.

lavagna-buoni-e-cattiviAi bambini si insegna che ci sono buoni e cattivi, sarebbe difficile fare diversamente. Ma il problema è che molti mantengono questo modo di pensare anche da grandi e questo è un problema serio, fra i tanti altri.    Il fatto che se “A” è cattivo, “B” nemico di “A” deve essere buono traspare spessissimo nell’atteggiamento di persone anche di ragguardevole cultura.   Quel che è peggio, in quello di persone di ragguardevole potere.
Forse l’esempio più macroscopico e drammatico è stato il parziale collasso dell’impero sovietico.   Dopo 50 anni di Guerra Fredda, il fallimento del comunismo è stato letto dai più come la dimostrazione della validità del capitalismo.   Che potessero essere sbagliati entrambi ha sfiorato ben poche e del tutto marginali meningi.   Oggi si cominciano a pagare le conseguenze di questo catastrofico errore.
Un esempio meno drammatico, ma istruttivo, ci viene dal discorso tenuto da Sergei Lavrov alla 31 sessione del Consiglio sui Diritti dell’Uomo tenutosi a Ginevra il 29 febbraio 2016.  Un discorso che è stato accolto con rabbia od entusiasmo dalle opposte fazioni.   A mio avviso un discorso interessante proprio per verificare come si può agevolmente mentire dicendo il vero.
Vediamo, in sintesi che ha detto:
1 – Le “primavere arabe” hanno portato disastri umanitari, anziché libertà e benessere. Vero (con la parziale eccezione della Tunisia e solo per il momento), ma lo si sapeva da subito.   Le rivolte sono nate per l’esasperazione di situazioni maturate nei decenni ed afferenti perlopiù alla sovrappopolazione.   Rovesciare  regimi corrotti e più meno feroci non poteva certo risolvere la situazione.
I francesi e gli inglesi (con il supporto USA) hanno sostenuto la rivolta in Libia ed i russi hanno sostenuto il governo in Siria.   Non mi sembra che i risultati siano esaltanti in nessuno dei due casi.
2 – I Diritti dell’uomo vengono regolarmente strumentalizzati per fini politici. Vero anche questo. Gli occidentali non hanno infatti lesinato aiuti a personaggi del calibro di Saddam Hussein e Gheddafi, quando gli facevano comodo, per poi farli fuori quando lo hanno ritenuto opportuno. Quando la Russia ha semi-distrutto la Cecenia abbiamo lasciato fare perché ci faceva comodo, mentre ci siamo precipitati in Kosovo, sempre perché ci serviva.  Del resto, non penso proprio che Putin e Lavrov abbiano grande stima di Assad, ma per ora gli è utile. Lo stesso hanno sempre fatto e fanno i governi “imperialisti” in senso molto lato.
Ci sono alternative?   Non lo so, ma non è rinfacciandoci l’un l’altro di fare le stesse cose che troveremo una soluzione. E, d’altronde, in Kosovo come in Cecenia e altrove, è vero che una potenza imperialista si è imposta con la violenza, ma le truppe sconfitte non erano certamente delle dame di carità.
3 – In Europa orientale ed in particolare in Ucraina e Polonia stanno risorgendo partiti neonazisti fanaticamente anti-russi che le autorità europee tollerano. Vero anche questo, come è vero che la Russia intrattiene rapporti di stretta collaborazione con Forza Nuova, Fronte Nazionale, Jobbik ed altri partiti apertamente filo-russi.  Svoboda ha mandato miliziani anti-russi nel Donbass, mentre Forza Nuova ne ha mandati a sostegno dei filo-russi.    Chi sostiene l’estrema destra fascistoide in Europa?
4 – La Turchia arma i miliziani dell’ISIS. Di questo sono personalmente convinto, ma non può darsi per certo.   Diciamo che è probabile, perlomeno fino ad un certo punto.   E certamente la Turchia sta giocando su molti tavoli contemporaneamente con il duplice scopo di far fuori sia i curdi che Assad. Ma l’aereo russo abbattuto dai turchi non stava bombardando posizioni dell’ISIL, bensì i ribelli turcomanni. Una delle tante milizie etniche afferenti al cosiddetto “Esercito Siriano Libero”. Definiti in occidente “ribelli moderati”, ma sulla cui moderazione mi permetto di avere dei dubbi. Certo, dai dati disponibili risulta che circa l’80% dei civili li ha ammazzati il governo, ma forse solo perché è l’unico a disporre di aviazione ed artiglieria.
Alla fin fine, la “moderazione” dipende prevalentemente da due fattori. Uno militare: quale è il volume di fuoco di cui disponi? Il secondo è politico: a chi e quanto fai comodo?
Basti pensare che fino poco tempo fa ci sentivamo dire che l’Arabia Saudita è un paese moderato! Mentre da qualche mese comincia a diventare moderato l’Iran.   Staranno cambiando le alleanze, oppure i governi in questione?
5 – Gli occidentali sono degli ipocriti che dicono di voler accogliere i profughi per poi maltrattarli in modo che smettano di venire. Verissimo anche questo, ma come mai il flusso di profughi aumenta con l’avanzare delle truppe di Assad?   E come mai i profughi siriani che arrivano in Russia poi cercano di arrivare in Scandinavia?  Certo bombardamenti e combattimenti non sono l’unico fattore in gioco. Molto del flusso è infatti prodotto dai turchi per fare pressione sull’UE.   Ma è anche vero che molti siriani temono il ritorno dell’ordine quanto e più del disordine. Non dimentichiamoci che tutti i fattori scatenanti la rivolta del 2011 sono uguali o molto peggiori di allora e che l’unico modo realistico per imporre l’ordine pubblico in una simile situazione è il terrorismo.
Con ciò i russi sono cattivi e noi buoni?   Oppure viceversa?   Magari nessuno dei due.   Allora, siccome sono tutti cattivi sono tutti uguali? Neppure.
Intanto se i buoni scarseggiano alquanto, esistono comunque i cattivi ed i pessimi, ma soprattutto esistono gli intelligenti ed i fessi. Ancor più, le stesse persone e gli stessi governi fanno a volte cose intelligenti ed altre cose stupide.   Infine, ci sono cose che giovano il mio Paese e cose che lo danneggiano e non sta ai governanti esteri provvedere alle nostre necessità, bensì ai nostri.

Il populismo è di moda, ma sappiamo cos’è?

 

George OrwellOggi  “pupulista” è un insulto e lo era spesso anche in passato.   Eppure proprio questa eterogenea matrice ha prodotto l’unica seria opposizione a quegli ideali di “progresso” perseguendo i quali siamo giunti esattamente dove siamo oggi.

Con questo non intendo certo idealizzare i populisti del passato.   Chi ha vissuto in un paese ancora 40 o 50 anni fa, ha un’idea di quando schiacciante può essere quella “common decency” tanto cara ad Orwell.   Ma tengo a far presente è che il populismo odierno ha ben poco in comune con quello del passato.   In particolare per la tendenza che i movimenti populisti odierni hanno per i capi autoritari, le fantasie nazionaliste e l’ assistenzialismo di stato.   Tutti elementi che i populisti del passato disprezzavano profondamente.

Una differenza che probabilmente dipende in parte del fatto che i movimenti del passato sorsero ed insorsero a difesa di una tradizione antica e, all’epoca, ben viva.   Una tradizione che la trasformazione dei lavoratori in proletari o consumatori, a seconda dei casi, ha completamente distrutto, lasciando un sentimento di rivalsa che non riesce ad avere costrutto.

Il populismo ieri.

A scuola, sembra che il storia del pensiero politico moderno si riassuma nello scontro fra due grandi scuole: quella liberal-capitalista e quella socialista che né è uscita sconfitta.   La realtà è, come sempre, parecchio più complicata.

Tanto per cominciare, le due citate scuole di pensiero non erano poi così antitetiche.   Condividevano infatti una comune ideologia di fondo: il progresso inteso come inarrestabile processo di miglioramento della condizione umana.   Del resto, entrambe si rivendicavano legittime eredi dell’Illuminismo, visto come la grande rottura fra un “prima” fatto di miseria morale e materiale, oscurantismo, persecuzione e quant’altro; ed un “dopo” proiettato in un futuro radioso.

Dunque lo scontro fra le due scuole, non di rado sanguinoso, fu sostanzialmente su quali fossero i mezzi più efficaci per raggiungere lo scopo comune.   Se mediante un’accumulazione di capitale privato oppure di capitale statale, se tramite una liberalizzazione delle attività economiche, oppure una pianificazione delle medesime, eccetera.   Ma per entrambe contrastare il progresso era affare di aristocratici parassiti, nostalgici, romantici perdigiorno, retrogradi, corporazioni oscurantiste, borghesi bigotti, masse abbrutite dall’ignoranza o nemici del popolo, secondo il caso.

In una serie di post pubblicati su “Effetto Risorse” (qui, e qui) ho cercato di tracciare l’origine di questa singolare visione del mondo.   Qui vorrei accennare invece a quelle “forze oscure della reazione in agguato” che le si opposero.

Secondo la vulgata, in prima fila ci sarebbe stata l’aristocrazia molle e parassita dell’”Ancien régime”, retaggio di un mondo feudale sinonimo di ogni orrore.   Solo che, sorpresa, l’Ancien Régime era quanto mai moderno.   Ed era nato proprio dallo sforzo di molti stati di chiudere definitivamente i conti con gli ultimi strascichi di una tradizione feudale oramai decotta.   La modernità, teorizzata e caldeggiata dai progressisti, nella seconda metà del XVIII secolo erano gli stati nazionali retti da autocrati “illuminati”.   Vale a dire promotori a tempo pieno di quella rivoluzione industriale che cominciava a delinearsi.   Del resto, le grandi famiglie dell’epoca erano composte perlopiù da banchieri, industriali ed alti funzionari.   Le proprietà terriere ed i castelli in qualche caso erano una pittoresca eredità, in altri un acquisto recente destinato a dare lustro a nomi e cognomi privi di storia.

Chi, invece, si oppose fieramente, da subito e per oltre un secolo alla visione progressista del mondo fu un’eterogenea accozzaglia di movimenti in cui confluirono e defluirono personaggi molto diversi.   Anche un certo numero di latifondisti ed intellettuali certo, ma principalmente artigiani, operai e contadini proprietari della terra.   Ivi compresa parte della piccola aristocrazia di campagna, marginalizzata ed impoverita dallo sviluppo dell’industria e della finanza.

rivolte luddisteUno dei primi e più famosi di questi movimenti fu quello dei “Luddisti” che sfociò in vere e proprie sommosse represse nel sangue.   Lo scopo che animava questi ribelli era soprattutto la salvaguardia della dignità del lavoro artigianale e manuale.   La meccanizzazione e la specializzazione dei ruoli in fabbrica erano visti infatti come degradanti per i lavoratori.   Ma ancor più era avversata l’istituzione del lavoro dipendente salariato.

Oggi che sempre più gente anela ad un salario che non può avere sembra incredibile.   Ma fin’oltre la metà del XIX secolo l’imposizione del regime salariale era visto da molti dei diretti interessati come una vera e propria forma di schiavitù.

Solo in alcuni casi da questi movimenti nacquero dei veri partiti, come il People’s Party in USA ed il Narodničestvo in Russia, spesso confusi con partiti socialisti.   Ma al contrario di questi, i populisti vedevano nella grande industria, nella meccanizzazione ed elettrificazione nient’altro che potenti mezzi per meglio proletarizzare e sfruttare i lavoratori.

Come fondamento dell’edificio sociale proponevano non già la dittatura del proletariato od il benessere, bensì quell’insieme di valori e comportamenti radicati nella tradizione popolare che davano identità, struttura sociale e resilienza alle classi lavoratrici.   Difendevano quindi la proprietà privata e gli antichi diritti d’uso civico;  avversavano invece i monopoli ed il latifondo, come pure la statalizzazione dei mezzi di produzione.   In alternativa, tentarono di costituire cooperative che quasi sempre fallirono perché avversate sia dai liberali che dai socialisti, sia pure per opposte ragioni.   Rifiutavano l’ingerenza dello stato, come anche dei sindacati di partito, nelle loro faccende, preferendo organizzarsi autonomamente in strutture di remota tradizione e spesso divenute illegali come le ghilde, le confraternite e le società di mutuo soccorso.

StalinSicuramente il più tragico evento legato a questa tradizione fu l’Holomodor (dai 3 ai 9 milioni di morti secondo le stime) con cui tra il 1932 ed 1933 Stalin chiuse definitivamente la partita con la pretesa di contadini ucraini di rimanere economicamente autonomi.

 

Il populismo domani?

Nei due secoli che hanno preceduto la totale egemonia dell’ideologia progressista ci furono anche altri ed importanti movimenti politici, basti citare gli anarchici ed i monarchici, su barricate opposte.   Qui ho voluto rievocare fugacemente il populismo delle origini perché tutti noi stiamo scivolando giù per la china del “dirupo di Seneca” senza reagire.   Le ragioni sono molte e una fra queste penso sia che siamo terribilmente a corto di idee politiche; forse conoscere meglio il passato potrebbe stimolare la nostra creatività.

Purtroppo, il fallimento dei sistemi socialisti è stato erroneamente interpretato come la dimostrazione della giustezza del sistema capitalista.

Perfino il movimento ambientalista, che avrebbe potuto rappresentare la vera novità politica del XX secolo, si è dissolto nella matrice progressista, disgregato in un ala filo socialista (maggioritaria in Europa occidentale) ed una filo-liberale (maggioritaria in Europa orientale).

E man mano che diventa evidente che anche il capitalismo ha fallito e con lui il progressismo tutto, ci troviamo nel vuoto completo.

E dal vuoto, come diceva Gramsci, nascono i mostri.

neonazisti

 

 

Elezioni e democrazia sono sinonimi?


democraziaItaliaPer consolidata abitudine mentale, consideriamo che la democrazia consista nell’esercizio del voto, ma sempre meno gente va a votare e praticamente più nessuno si sente rappresentato da chi viene eletto.  Men che meno gli eletti si fidano di coloro che rappresentano.    Evidentemente qualcosa è andato molto storto e vorrei affrontare il tema in una prospettiva storica, sia pure in versione telegrafica per restare nei limiti di un post.

Un po’ di storia.

Di solito, si cita la Repubblica di Atene come diretto antenato delle democrazie moderne.  Non credo che sia corretto.   Organi di governo risalgono infatti al nostro passato paleolitico e probabilmente anche a quello pre-umano.   Tutti i mammiferi sociali hanno gerarchie precise ed i capi-branco sono quelli che mangiano per primi, scelgono il posto dove dormire, si accoppiano con i partner migliori; in molti casi sono gli unici che si riproducono.   Sono quindi quelli che lasciano la maggiore discendenza, ma non sono quelli che vivono più a lungo perché più di tutti si espongono al pericolo ed alla fatica quando il bisogno stringe ed il nemico incalza.   In pratica, i capi sono quasi sempre figli di capi, ma il loro ruolo deve essere costantemente accettato dagli altri, altrimenti si cambia.   Si chiama “legittimità”.

Nelle piccole bande di cacciatori-raccoglitori il capo è (o meglio era) un uomo giovane e robusto, ma anche stimato per la sua intelligenza e la sua capacità di parlare in pubblico.   Ed è qui che nasce la politica: il capo deve essere uno bravo in battaglia e nella caccia, ma anche saggio e capace di relazionarsi con gli altri.   Società più numerose e hanno richiesto strutture sociali più complesse ed elaborati sistemi di selezione delle gerarchie, ma con la stessa costante che troviamo nei lupi:la legittimità.   Il che significa che delle persone si riconoscono il dovere di ubbidire ad altri, mentre questi si riconoscono la responsabilità dei gregari.   I criteri per stabilire la legittimità possono cambiare molto, ma comunque se cessano di funzionare la società si disintegra.

atene-assembleaPer tornare ala repubblica ateniese, gli ingredienti con cui confezionare la dirigenza erano sostanzialmente 4: ereditarietà, partecipazione, sorteggio e voto.   Coloro che avevano i diritti politici erano solo i discendenti diretti di cittadini ateniesi residenti in città, maschi adulti liberi, proprietari di immobili, in regola con le tasse e che avessero completato l’addestramento militare.    In pratica circa il 10% della popolazione.

Costoro si conoscevano almeno di vista e passavano parecchio tempo a discutere fra di loro e non solo dei giochi olimpici.   Dunque era gente che partecipava quotidianamente alla vita politica della città, con un controllo sociale incrociato molto stretto e soggetta ad una fiera e frequente selezione.   Erano infatti loro a costituire la prima linea di battaglia nelle guerre che decidevano di fare.   Come erano loro che pagavano per intero le tasse che decidevano di imporre.

Tutti insieme costituivano l’Ekklesia, vale a dire l’assemblea che aveva sostanzialmente la funzione di votare le leggi proposte da altri cittadini, eleggere i comandanti militari ed un centinaio di funzionari, votare le dichiarazioni di guerra ed i trattati internazionali.   In questo gioco, evidentemente, contavano moltissimo il prestigio personale e familiare, la ricchezza e la capacità oratoria.   Si formavano quindi dei “partiti” che non si riferivano a differenti ideologie, bensì alle famiglie principali.   Proprio per limitare questo fenomeno, quasi tutti i magistrati ed i funzionari (circa un migliaio) erano designati per sorteggio e turnati rapidamente.
Su questo elemento vorrei attirare l’attenzione perché forse fu proprio l’invenzione chiave del funzionamento delle repubbliche urbane della Grecia classica e di moltissime altre forme di governo nella storia europea.

re medievaleFacciamo un salto di un migliaio di anni diamo un occhiata molto superficiale al funzionamento delle istituzioni feudali.   Non propriamente un esempio di democrazia, eppure vi troviamo gli stessi ingredienti visti ad Atene, sia pure confezionati in diverso modo.

Tanto per cominciare, il monarca veniva eletto dall’assemblea dei nobili e dei vescovi, la quale poteva anche, in casi estremi, revocare la designazione.   Di solito il nuovo re era uno dei figli del precedente monarca, ma non necessariamente e, comunque, neppure l’Imperatore poteva diventare tale se non veniva designato da un parlamento cui doveva poi rendere conto delle decisioni principali, specialmente in materia di tasse, politica estera e guerra.   In epoca merovingia i nobili laici erano nominati dal re, mentre i vescovi erano eletti dalle assemblee cittadine (tutti gli adulti: uomini e donne).   Vi furono anche parecchi vescovi figli di vescovi.   Successivamente e gradualmente, i feudi divennero prevalentemente ereditari, mentre la nomina dei vescovi passò al papato e/o a re ed imperatori.

Un aspetto importante è che la guerra era un affare esclusivo per coloro che decidevano in proposito, il che ne limitava efficacemente il numero.   Viceversa, sugli affari quotidiani della gente comune la chiave di volta del sistema era il “costume”.   Vale a dire la tradizione, così come ricordata dagli anziani e dai “prudent’uomini” che erano dei notabili, ma mai dei nobili.   Perlopiù contadini ed artigiani particolarmente stimati.   Qualunque questione rilevante si discuteva in un tribunale che in città era presieduto da un funzionario del re o del vescovo, mentre in campagna dal signorotto locale.   Ma la decisione era presa da una giuria di persone scelte per sorteggio.

Dunque un sistema in cui la politica è appannaggio esclusivo di una classe che perlopiù gode di un diritto ereditario e vi partecipa attivamente come già i cittadini ateniesi, ma percentualmente meno numerosa.   Viceversa, l’amministrazione quotidiana era largamente sotto controllo di una tradizione in costante evoluzione, ma vincolante anche per le massime autorità.

Non tutti gli stati medievali erano monarchie.    Vi furono anche diverse repubbliche, due delle quali, Andorra e S. Marino, esistono ancora.   Defunta, ma molto più importante fu la Repubblica di Venezia.    Anche questa retta su di una complicata combinazione di partecipazione, ereditarietà, elezioni e sorteggio.    Aveva una sua logica e, infatti, funzionò bene molto a lungo.   L’ereditarietà aveva la funzione di fornire persone preparate e conosciute, non ricattabili in quanto non potevano essere private del loro privilegi.   La partecipazione di un numero consistente di persone garantiva la più ampia visione possibile dei problemi.   L’elezione consentiva di selezionare le persone più stimate per i differenti ruoli.   Il sorteggio serviva, come sempre, a spezzare gli incuici, le camarille e le “lobby” che, allora come oggi, costantemente insidiavano il buon funzionamento degli organismi statali.

Nascita della democrazia moderna.

Con un altro salto giungiamo nel XVIII secolo.   La Serenissima esiste ancora, ma profittando dell’utopia illuminista del “dispotismo illuminato” gli stati principali sono diventati delle monarchie assolute.   Con la parziale eccezione dell’Inghilterra che più degli altri aveva conservato la tradizione medioevale.   Eppure proprio in Inghilterra scoppiò la prima e più importante rivoluzione della storia moderna: la Rivoluzione Americana.   Una pietra miliare non solo perché ne nacque lo stato più potente della storia (per ora), ma anche perché ne nacque l’identificazione fra democrazia ed elezioni che oggi diamo per scontata.   Dei quattro ingredienti base degli ordinamenti precedenti: partecipazione, ereditarietà, elezione e sorteggio, la costituzione americana ne conservò uno solo: l’elezione.  Il sorteggio rimase, ma solo per le giurie dei tribunali e con un ruolo molto ridotto rispetto al passato.  Tutte le cariche pubbliche, a partire dallo sceriffo, furono assegnate per elezione, tranne quelle che divennero appannaggio del governo, a sua volta nominato mediante votazione.

Una scelta fatta sostanzialmente per due ragioni.  La prima furono le distanze enormi e le difficoltà di comunicazione.   Gli ordinamenti europei erano relativi a comunità in cui le persone si conoscevano almeno di vista e, comunque, potevano comunicare fra loro.   Una cosa che in America era molto difficile, al netto di alcune città principali.  La seconda fu che i padri fondatori non avevano nessuna fiducia nella capacità di autogoverno delle plebe raccogliticcia che stava popolando il continente.   Ancor meno quando gli ordinamenti attuali presero forma definitiva, mentre masse crescenti di avventurieri e disgraziati sbarcavano a migliaia e dilagavano sul continente.   Un sistema esclusivamente elettorale, si pensò, avrebbe necessariamente favorito le poche persone capaci di raggiungere una certa notorietà in ambiti sufficientemente vasti.  Quindi persone presumibilmente capaci e motivate, sostenute da famiglie importanti o da gruppi consistenti di cittadini.

Fu proprio in questo periodo che il Visconte Alexis de Tocqueville visitò gli Stati Uniti per studiare questo strano fenomeno politico.   Il suo rapporto (La democrazia in America) è del massimo interesse perché, già allora, l’acume del francese aveva individuato il pericolo che, disse, avrebbe potuto portare al disastro un sistema siffatto.   Tocqueville lo chiamò “la dittatura della maggioranza”.   In un sistema esclusivamente elettivo, disse, il rischio maggiore era rappresentato dal fatto che si potesse catalizzare un blocco di opinione pubblica abbastanza coeso ed esteso da marginalizzare qualunque opposizione.    In una tale situazione, le libertà civili sarebbero venute meno e il rischio di decisioni dissennate alto.   Un pericolo che avrebbe dovuto essere contrastato dalla libertà di stampa, ma il nostro era abbastanza smaliziato da aver capito che l’alfabetizzazione di massa e la diffusione dei giornali potevano anche essere usati per costruire una tale dittatura.   Molto di più egli contava quindi sul più antico dei quattro elementi base: la partecipazione.  Cioè, ai suoi tempi, sulla rete ufficiosa di comitati locali ed associazioni mediante cui i cittadini si auto-organizzavano per far fronte alle difficoltà.    Questo tessuto non istituzionale, sosteneva, aveva infatti il compito di mantenere viva la coscienza collettiva ed alta la guardia contro le derive autoritarie ad ogni livello.

Circa un secolo più tardi la repubblica americana servì da esempio per la democratizzazione degli stati europei, con risultati finora tutto sommato positivi.  In effetti, è un fatto che le democrazie hanno assicurato ai loro cittadini una vita migliore e maggiori livelli di libertà rispetto agli altri paesi.   E, nel frattempo, hanno vinto sia contro le dittature di matrice nazi-fasciste, sia contro le oligarchie comuniste.   Ma  quando si è trattato di affrontare pericoli provenienti dalla propria struttura sociale ed economica , questi sistemi si sono dimostrati del tutto incapaci sia di prevenire, sia di reagire al pericolo.

Con una classe dirigente composta da professionisti dell’intrallazzo e della propaganda; ed una popolazione atomizzata in individui che lottano disperatamente per sé stessi, sognando un impossibile ritorno della prosperità,  non ci sono segni di luce in fondo al tunnel.

La dittatura della maggioranza alla fine si è verificata ed è quella che ha deciso che la crescita economica e demografica erano la strada maestra da seguire.   Adesso è facile scagliarsi contro l’esigua minoranza di coloro che, più spregiudicati e fortunati, continuano ad arricchirsi a scapito di tutti gli altri; ma la decisione di seguire questa strada è stata condivisa da tutti: ricchi e poveri, nord e sud.   Molto democraticamente.

La conseguenza di questo fiasco storico sono oggi le derive autoritarie e lo spionaggio di massa che ovunque stanno svuotando di significato gli ordinamenti democratici.   Se la storia davvero ci può insegnare qualcosa, abbiamo due strumenti per cercare di contrastare il fenomeno: sviluppare la democrazia di base e ripristinare il sorteggio per l’assegnazione di molti ruoli.

Purtroppo, il tentativo di reintrodurre elementi di democrazia diretta si scontra con la capacità dei poteri elettivi e delle lobby economiche di manipolare e/o vanificare questi processi.
Il sorteggio non viene neppure preso in considerazione, mentre potrebbe essere proprio il grimaldello per spezzare i meccanismi perversi e ridare senso anche alle elezioni.    L’ereditarietà oggi suona anacronistica perché era basata su di una tradizione completamente perduta, ma nomine a vita di persone particolarmente capaci, lungi dall’essere poco democratiche, potrebbero mettere in circolazione persone non ricattabili e non interessate al prossimo turno elettorale.

Democrazia-vignettaOvviamente, non esiste nessuna garanzia che una riforma radicale degli ordinamenti funzionerebbe.   Tanto più che dovrebbe essere fatta dalle stesse persone ed organizzazioni che sarebbe necessario scaricare.  Dunque non accadrà.   Ma intanto ci sono gruppi di persone che cercano di organizzarsi fra di loro.  A costoro vorrei semplicemente ricordare che, da quando esistono e finché sono esistite, le forme di governo non autocratiche sono stata basate su diverse combinazioni di quattro ingredienti: partecipazione, ereditarietà, votazione e sorteggio.  Era così nel paleolitico e credo che sarà così anche in futuro.