Tutti gli articoli di Jacopo Simonetta

Laureato in Scienze Naturali, dal 1981 svolge attività professionale come ecologo, ma anche come volontario per varie associazioni ambientaliste. Da una ventina d'anni si dedica alla didattica ed alla divulgazione in materia di insostenibilità e di crisi globale.

La fine dell’economia: che ne è stato della profezia di Keynes?

La profezia di KeynesLe profezie sono sempre piaciute, sia quelle pessimiste che quelle ottimiste.   Fra queste ultime, una poco nota la dobbiamo ad un personaggio che oggi va di gran moda: nientedimeno che Lord John Maynard Keynes.

Mi riferisco ad una sua conferenza del 1928 (pubblicata nel 1930) dal titolo:”Quali saranno le possibilità economiche dei nostri pronipoti?”   Poiché quei pronipoti siamo noi, penso che sia interessante rileggere quelle pagine.

In sintesi, Keynes sostiene che un vero progresso cominciò solo con la massiccia importazione di oro ed argento saccheggiati nel Nuovo Mondo durante il XVI secolo.   Circa un secolo più tardi, cominciò la grande èra del progresso tecnologico, con un numero incalcolabile di grandi invenzioni e lo sviluppo di ogni tipo di macchine.

Il risultato fu un enorme incremento della popolazione mondiale e, dunque, dei consumi.   Specialmente in Europa ed negli Stati Uniti il tenore di vita quadruplicò ed il capitale centuplicò.
Punto importante, Keynes si aspettava che, a quel punto, la popolazione globale tendesse a stabilizzarsi sui 2 miliardi circa.   Mentre sia il miglioramento tecnologico che l’accumulo di capitale avrebbero continuato a crescere in maniera esponenziale.

Questo straordinario progresso, prevedeva, avrebbe creato un serio problema di disoccupazione, ma si sarebbe trattato di una fase temporanea.   Nel giro di un secolo da allora (dunque all’incirca adesso), il tenore di vita nei paesi avanzati sarebbe stato tale che l’economia avrebbe definitivamente cessato di interessare alla gente, ma attenzione!   Solo a condizione che nel frattempo non si fossero verificate né grosse guerre, né grossi incrementi di popolazione.

Quello che mi ha colpito del discorso è che non vi si fa neppure un minimo cenno alla disponibilità di risorse (energetiche e non).   E neppure alla possibilità che l’alterazione degli ecosistemi possa portare a controindicazioni gravi, finanche catastrofiche.
In sintesi, colpisce la totale assenza di ogni riferimento alla legge dei “ritorni decrescenti” che, peraltro, il nostro conosceva benissimo.
La seconda parte della conferenza si concentra sulle conseguenze sociali di questo straordinario benessere.
In particolare, Keynes paventa il rischio che il rapido venir meno di preoccupazioni e necessità pratiche possa provocare dei “crolli nervosi” in molte persone.   Analogamente a quanto, secondo lui, stava già allora accadendo alle donne della buona borghesia occidentale.   Infelici perché la ricchezza le aveva private di divertimenti quali pulire, lavare, cucinare, accudire i figli.   (Senza nulla togliere al piacere di accudire una famiglia, mi piacerebbe sapere cosa pensasse di questo Lady Keynes).

Dunque, prosegue l’insigne economista, sarebbe stato necessario ancora per molto tempo mantenere un minimo di orario lavorativo. Suggeriva che, probabilmente, 3 ore al giorno sarebbero state sufficienti.
Ma annunciava anche cambiamenti ben più importanti!   Una volta che l’accumulo di denaro fosse stato tale da perdere la sua importanza sociale, l’umanità avrebbe finalmente potuto sbarazzarsi dell’ipocrisia con cui si esaltano come virtù i vizi peggiori.
“Saremo liberi di tornare ad apprezzare i principi religiosi e le virtù tradizionali.   Di tornare a considerare che l’avarizia è un vizio, che l’usura è un crimine, che l’amore per i soldi è detestabile.   Potremmo tornare a valorizzare gli scopi più dei mezzi e preferire il buono ed il bello all’utile.   Ad apprezzare le deliziose persone che sanno metter gioia nella vita propria ed altri.”
“Ma attenzione.   Tutto questo non ancora.   Per altri cento anni (dunque all’incirca fino ai giorni nostri) dobbiamo pretendere da noi stessi e dagli altri che il giusto sia sbagliato e viceversa perché l’errore è utile e il giusto non lo è.   Bisogna che avarizia ed usura continuino ad essere i nostri dei ancora per un poco, perché solo loro possono condurci fuori dal tunnel  del bisogno, alla luce del benessere.”

Secondo Keynes, la velocità di avvicinamento a questo bengodi sarebbe stata governata da quattro cose:  “La capacità di controllo della popolazione, la determinazione nell’evitare guerre e rivolte, la volontà di dare alla scienza una direzione propriamente scientifica, il margine di accumulo al netto dei consumi.”
A difesa di Keynes, bisogna dire che, a pensarci bene, qualche grossa guerra nel frattempo c’è stata.   E che la popolazione umana sia più che triplicata spiega sicuramente molti dei nostri attuali problemi. Ma chissà cosa direbbe oggi se potesse vedere dove la smodata avidità sta portando i pronipoti di cui vagheggiava?

La cause della corruzione

La corruzione ha certamente molto a che fare con l’ingloriosa fine delle società.  La corruzione é un fenomeno che alimenta se stesso riducendo l’efficienza dell’amministrazione, cosa che favorisce la corruzione e via di seguito, come ben illustrato in un recente post da Pierfranceschi.

Come sempre quando si ha a che fare con dei fenomeni complessi, la domanda se è nato prima l’uovo oppure la gallina rischia di non avere senso.  Tuttavia, ci sono degli elementi che più di altri possono dare l’avvio a siffatti circoli viziosi (alias retroazioni positive e forzanti in termini scientifici).

Le diverse dimensioni della corruzione.

La corruzione in senso stretto è la classica “bustarella”, ma ne esistono altre forme, meno violente, ma anche molto più diffuse.

Intanto abbiamo spesso il caso di funzionari ed impiegati che fanno, o non fanno, determinate cose non in cambio di soldi sonanti, ma per procacciarsi utili benevolenze.   Ad esempio, il dirigente che insabbia una pratica non gradita ad uno che può influenzare la sua carriera, o viceversa.

Un’altra forma molto diffusa è favorire amici e parenti, variante chiamata “nepotismo”.   Ma in effetti questa forma non sempre è nefasta.  E’ infatti abbastanza naturale preferire di lavorare con chi si conosce e si sa come lavora.    Mettiamoci poi nei panni di qualcuno che, per esempio, ha lavorato per anni a gratis con tale professore e poi, quando finalmente si libera un posto, gli passa davanti un altro che, semplicemente, ha avuto un colpo di fortuna al concorso.
Il problema si pone quindi soprattutto quando questa radicata abitudine viene gestita per piazzare degli incapaci in posti di responsabilità.   Semplicemente perché fanno comodo a chi comanda più di loro.    Diciamo che è un’arma a doppio taglio i cui effetti dipendono da come la si adopera.

Ma la forma di corruzione più diffusa e nefasta e quella che è anche perfettamente legale e che, con termine tecnico, è chiamata “paraculismo”.   Vale a dire, usare il potere conferito dal proprio incarico non per far funzionare qualcosa, bensì per tenere bene al calduccio le natiche del soggetto.   Come se lo stipendio fosse qualcosa di dovuto e non qualcosa che deve essere guadagnato.    E’ particolarmente nefasta perché generalizzata, ma anche perché costituisce la matrice in cui facilmente si sviluppano forme più perverse di corruzione.

Prima di tutto una questione di legittimità

In una società funzionale, la classe dirigente comanda perché un vasto numero di persone si riconoscono in dovere di ubbidirgli.   È quello che si chiama legittimità.   Può avere fondamento in un’infinità di narrative diverse, ma alla fine funziona finché la gente pensa che i loro capi abbiano a cuore l’interesse comune.   Che magari sacrifichino i loro gregari, ma non per disinteresse, ma perché è necessario per un bene ancor superiore.

Si vede bene in condizioni di stress estremo, come in combattimento.   I soldati si fidano dei loro ufficiali fino a farsi uccidere.   Ma se pensano che i loro superiori si disinteressino di loro e del loro sacrificio, cessano immediatamente di fidarsene e di ubbidire.   Smettono di pensare a combattere e cominciano a pensare a cavarsela.   Se possono disertano.   Non a caso, la prima cosa che si insegna ad un ufficiale è come guadagnare e mantenere la fiducia della truppa.   Cose semplici, ma essenziali come preoccuparsi delle loro necessità spicciole più che delle proprie e dimostrare di essere disposti a correre rischi superiori a quelli richiesti.    Non a caso, in ogni guerra, la mortalità degli ufficiali è percentualmente più alta di quella dei soldati.
Nella vita civile tutto è più mitigato ed ovattato, ma fondamentalmente funziona allo stesso modo.   Un impiegato che si sente apprezzato dal suo dirigente non esita a fare straordinari non pagati, pur di portare a buon fine un progetto importante.   Lo stesso individuo, se pensa che il principale tiri l’acqua a l suo mulino e basta, farà tutto il possibile per imboscarsi, dimenticando che il suo stipendio non lo paga il dirigente, bensì il contribuente.

E il fenomeno che una volta si definiva con l’adagio:  “Il pesce puzza dalla testa”.

Si badi bene che non è affatto detto che una classe dirigente altamente legittimata faccia davvero il bene della sua gente.   Semplicemente, la legittimità conferisce efficienza operativa.   Si pensi alla Germania nazista, per farsi un’idea degli effetti perversi che la legittimità può avere.
Comunque, l’egoismo e/o l’incapacità cronica erodono la legittimità.   In questo caso rimangono in piedi due opzioni per mantenere in moto la macchina pubblica: il tornaconto personale e la paura.    Le due cose possono anche in parte coesistere, ma di solito il primo prevale nelle prime fasi di disintegrazione di una società; la seconda nelle ultime.   Il difetto è che entrambe aumentano i costi e riducono l’efficienza.

Nel caso del tornaconto personale, è infatti necessario  che ogni funzionario od impiegato trovi il proprio vantaggio ad ogni passaggio.   Non necessariamente una bustarella od un buon posto.   Magari solo una seccatura in meno o fregare qualche minuto sull’orario che, moltiplicato per decine di migliaia di persone, rendono il meccanismo sempre più impastato.   Né nuove regole e controlli possono risolvere la situazione, se coloro che le dovranno applicare saranno ancora guidati dall’interesse personale, anziché de quello collettivo.    Direi che noi oggi siamo un fulgido esempio in questo campo.

La paura comporta la messa in opera di sistemi di controllo e repressione che a loro volta dovranno essere controllati e così via.   Il modo con cui si sono avvitati su sé stessi i regimi del “socialismo reale” è abbastanza emblematico da questo punto di vista.

Anche noi abbiamo perso la guerra fredda?

La corruzione (in senso lato) c’è sempre stata in tutte le società, ma non nella stessa misura.   In Europa, ha avuto un forte impulso a partire dagli anni ‘90.    Le forzanti che hanno contribuito ad accelerare il fenomeno sono parecchie.   A me ne vengono in mente due: la scomparsa di un pericolo comune e la scomparsa di un limite preciso fra affare e malaffare.

Il primo punto è raramente citato, ma fondamentale.   Se temere la propria classe dirigente di solito ha un effetto deprimente sulle società (con buona pace di Machiavelli), è però vero che la paura di un nemico esterno ha di solito l’effetto contrario.    Una minaccia esterna ha di solito il potere di aggregare la gente e di far passare il bene comune (reale o presunto che sia) davanti al proprio.   Non a caso i governi in difficoltà spesso virano verso un nazionalismo tanto più esacerbato, quanto maggiore è il loro bisogno di rinverdire la propria legittimità.   Talvolta non si esita neppure a creare degli incidenti ad hoc più o meno gravi.   Più spesso si sfruttano le occasioni offerte dall’imbecillità altrui, come attacchi terroristici, incidenti diplomatici ed altro.    Naturalmente, la cosa può funzionare o meno, ma il principio resta valido.
Per  40 anni l’unico pericolo che la maggioranza degli occidentali ha temuto è stata l’Unione Sovietica.   Pericolo reale e consistente che la propaganda ha poi saputo gestire molto bene.   Ma soprattutto un pericolo in grado di imporre dei limiti perfino all’avidità ed all’egoismo della classe dirigente economica.   Del resto, oltre cortina, il pericolo di un’invasione della NATO era parimenti il collante che contribuiva a tenere insieme una società sempre più disfunzionale, sia pure con uno stile diverso.   Quando è venuto meno, neppure la Stasi ed il KGB sono più bastate ad evitare la disintegrazione dell’impero.

Cessato il pericolo, il sistema sovietico si è infatti disintegrato e per una decina di anni la nicchia ecologica lasciata libera dallo stato è sta riempita da una miriade di organizzazioni mafiose o semi-mafiose.   Perlopiù nate da pezzi della macchina sovietica che si sono messi a lavorare in proprio.   E, privi oramai di ogni remora, hanno perlopiù trovato utile svendere l’eredità sovietica a imprenditori e faccendieri occidentali che non hanno esitato a fare man bassa.    Al di là dell’errore geo-strategico irreparabile, questo ha creato una contiguità assoluta fra affaristi delle due ex-sponde, finalmente affratellati dalla possibilità di saccheggiare impunemente intere nazioni.
Una situazione cui si è potuto mettere solo un parziale e tardivo rimedio e che, fra le altre conseguenze, ha contribuito non poco a rendere molto evanescente la linea di demarcazione tra affari leciti ed illeciti.   Tanto ad est, quanto ad ovest.

Il cane e le zecche.

Un cane in buona salute che vive in campagna ha sempre qualche pulce e di tanto in tanto una zecca.   Gli danno fastidio, ma non più di questo.   Ma se un cane si ammala, facilmente verrà attaccato dai parassiti in modo tanto più massiccio, quanto più grave è la sua malattia.   Ed il gran numero di succhiasangue lo debiliteranno, così da farlo aggravare, fino a morire.   In altre parole, come ogni buon contadino sa, i parassiti hanno una funzione ecologica precisa: finire i soggetti debilitati.    Togliere i pidocchi ad una pianta o le zecche ad un cane gli fa certo bene, ma se non lo si guarisce dalla sua malattia profonda, torneranno e lo finiranno.

Qualcosa del genere , credo, succeda alle società umane.

Quelli del NO a tutto

NO a tutto - NIMBY this is my back yard“Voi siete quelli del NO a tutto !” Quante volte lo sentiamo dire? In effetti, di qualcosa bisogna pur campare e se non si fa una cosa, bisognerà farne un’altra.   Almeno a buon senso.
C’è anche una definizione in inglese: “sindrome NIMBY” (significa Not In My Backyard – Non nel mio giardino).   Indica l’atteggiamento sterile ed egoista di chi si oppone a qualunque cosa nei suoi paraggi, infischiandosene dell’interesse collettivo.    OK, siamo sicuri che sia sempre così?

Sindrome NIMBY.   Sempre?

Nella mia quarantennale esperienza sono cascato più volte su casi del genere.   Per esempio, si vuole costruire una nuova strada camionabile e vi sono due tracciati possibili.   Prontamente nascono due comitati dei residenti, ognuno dei quali sostiene che il tracciato giusto è quello che passa davanti alla casa degli altri.   Oppure si mettono d’accordo per individuare in terzo tracciato che, evitando le case, finisce di massacrare l’ultimo bosco o gli ultimi campi dalla zona.   “Tanto li non c’è niente.”
Naturalmente il tutto condito con altisonanti dichiarazioni sui diritti umani, la conservazione della natura e chi più ne ha, più ne metta.

Ma non è che le controparti (di solito industriali e/o enti locali) abbiano un atteggiamento molto diverso.   Per capirsi, farò un caso emblematico, pescato dal mio schedario.
Una grossa industria, insediata in una stretta valle montana, vuole costruire un inceneritore a piè di fabbrica per bruciare parte dei propri scarti recuperando energia da riutilizzare nel processo.   Sostiene che ciò ridurrà il numero di camion che portano via i rifiuti, inoltre consentirà risparmi e dunque lo sviluppo dell’azienda.   N.B. solo col cavatappi si riesce ad estrarre l’informazione che per alimentare la macchina si dovranno portare rifiuti analoghi da altri impianti della medesima impresa situati altrove.   Più un numero considerevole di tonnellate di legname per mantenere la temperatura di esercizio al livello desiderato.

Pronto il comitato contrario il quale, stavolta sindaci in testa,  sostiene che l’inceneritore avrebbe effetti mortali sulla qualità dell’aria, già molto scadente a causa del traffico.   NB. Si dimenticano di dire che proprio i residenti e le amministrazioni locali hanno recentemente ottenuto il raddoppio della strada di fondovalle, anziché  quello della ferrovia che serviva paesi ed industrie, insediate peraltro da decenni.

Apre la riunione generale il rappresentante della Provincia (storia di qualche anno fa) che sostiene che prima di tutto si debba controllare la qualità dell’aria mediante l’installazione di apposite centraline.   No del comitato perché le centraline potrebbero essere poste ad arte per far figurare una qualità superiore al reale.
Offerta della Provincia di posizionare le centraline secondo le indicazioni del comitato.
No perché i risultati potrebbero dar ragione agli industriali e il comitato l’inceneritore non lo vuole comunque.   Punto.
Parlano gli industriali offrendo la massima disponibilità a discutere e modificare ogni aspetto del progetto.
Parlo io e chiedo se non sia possibile trasportare il materiale almeno in parte per ferrovia che è vecchia, ma ancora funziona.
No perché il progetto è perfetto così.    Allora chiedo se si può sapere quanto legname dovrebbero bruciare e da dove pensano di procurarselo.   Forse hanno saputo che ci sono seri problemi di siccità cronica e che i boschi della valle sono in crisi?
No.   Quanto legname servirà non mi riguarda, tanto quel che serve si compra.   E non ci sono problemi coi boschi, parola di industriale!

E via di questo passo.   Come si dice, bisognava prenderne uno per picchiare l’altro.
Non sempre però è questo il caso.

Quando NO a tutto è l’unica risposta possibile.

Una discussione, per essere almeno teoricamente costruttiva, deve avvenire prima che sia presa una decisione.   Sembra logico, ma non nel modo di pensare delle amministrazioni che procedono esattamente al contrario.   Per abitudine, prima decidono, poi pubblicano gli atti relativi.   E’ legale, naturalmente, ma poi non si stupiscano se, puntualmente,  un manipolo più o meno consistente ed agguerrito di cittadini si mette a piantare tutte le grane possibili.   A torto od a ragione, a quel punto poco importa.

Certo, compito di chi si oppone a qualcosa dovrebbe essere l’avanzare una proposta alternativa.   Ma ha senso dopo che tutto è già stato deciso, magari gli appalti già banditi?    Quando si tratta di opere in una certa importanza, l’iter per la preparazione e l’approvazione dei progetti è logorroico, ci vogliono di solito anni.   Tutto tempo che potrebbe essere utile per discutere le cose, ma di solito no.    Oppure si discute si, ma fra sordi come nell’esempio citato.
Comunque, una volta che un’idea è partita, di solito la si porta avanti, qualunque cosa succeda.   E se si arriva a realizzarla quando oramai non serve più a niente, o magari è addirittura nociva, poco importa; non si può mica ricominciare tutto daccapo!

Dunque quel che bisognerebbe discutere è il modello di sviluppo.   Vale a dire il modello mentale in base al quale vengono elaborate idee e progetti.   A dire il vero, fin dai primi anni ’70 in parecchi hanno tentato di proporre un approccio diverso da quello che aveva funzionato fino ad allora (strade, industrie, case, ecc.).    Ma al di là dei discorsi di circostanza e di qualche solenne dichiarazione pubblica, non è cambiato assolutamente niente.
Nella mia esperienza, talvolta le proposte alternative vengono avanzate ed altre no, talvolta sono sensate ed altre no, ma fa davvero poca differenza perché è eccezionale che vengano anche solo prese in esame.

Ed a questo punto la guerra di trincea diventa l’unica alternativa possibile.

Un altro esempio con un’altra strada, che da 12 anni il mio comune vuole costruire per costruire nell’ultimo frammento di bosco esistente sul suo territorio, fra l’altro lungo un fiume, in area a rischio idraulico.    Non c’è mai stata discussione o proposta possibile, malgrado nel frattempo siano cambiate tre amministrazioni di tre colori diversi.   Semplicemente vuole così un associazione locale che conta per parecchi voti e tanto basta.    A questo punto, sobillare i pochi cittadini contrari per fare del boicottaggio è l’unica strategia possibile.   Non risolve nulla e non è costruttivo, ma fa guadagnare tempo, nella speranza che, crisi avanzando, non trovino mai i soldi necessari.

Ma c’è un altro fattore ancora, molto più profondo.   Nell’evoluzione di un sistema ci sono sempre dei momenti di instabilità in cui è possibile far cambiare rotta al sistema stesso.  Ma gli effetti cambiano moltissimo a seconda di quando avviene il cambiamento.   Cambiare rotta prima o dopo aver sbattuto sugli scogli non porta ai medesimi risultati.
Fuor di metafora, quando eravamo 3 miliardi con ampie riserve di risorse ed una consistente parte degli ecosistemi ancora funzionanti, aveva molto senso parlare di sostenibilità, di stabilizzazione delle economie e della popolazione, di modelli alternativi di sviluppo ecc.   Oggi che di miliardi siamo quasi 8 ed il “redde rationem” è cominciato, le opzioni possibili sono certamente meno e nessuna molto allettante. Per tornare alla metafora navale, ha senso discutere della rotta da prendere finché la nave galleggia.   Quando imbarca acqua e comincia a sbandare diventa prioritario cercare di impedire all’equipaggio di fare a pezzi le scialuppe per continuare ad alimentare la caldaia.   E se qualcuno lo fa dicendo fesserie, pazienza, talvolta anche le fesserie posso servire a qualcosa.

Pistolotto finale.

Vorrei concludere rivolgendomi direttamente ai coloro che prendono le decisioni ed a coloro che li demandano a ciò:

Signori, per 40 anni sono state avanzate proposte di ogni genere per cambiare la rotta del nostro sistema.  I casi in cui sono state sperimentate od anche solo discusse sono stati trascurabili.   Non vi meravigliate quindi se ora un numero crescente di persone semplicemente dice “ NO a tutto “.    Talvolta a ragione e talaltra a torto, ma è un effetto della frustrazione.   E forse è anche l’unica cosa che rimane de fare, nella speranza che qualcosa sopravviva alla macchina tritatutto che chiamate “Progresso”.

Ciao ciao BRICS ?

BRICS

“ BRICS ” : parola magica capace di far sognare ad un tempo sia i più fanatici sostenitori del turbo-capitalismo, sia molti che lo odiano.   Mistero dell’opinione pubblica.

Nascita dei BRICS

L’acronimo è nato nel 2001 nel cuore del capitalismo d’alto bordo:  nientedimeno che in casa Goldman Sachs, ad opera di Jim O’Neill, uno dei suoi uomini più brillanti.   In effetti, in origine era solo BRIC, cioè Brasile, Russia, India e Cina che, garantiva mr. O’Neill, erano i “mattoni” su cui sarebbe stata fondata l’incredibile prosperità economica del XXI secolo.   In seguito fu aggiunto il Sudafrica.  Tutti avevano gli ingredienti per vincere: grandi territori Ed una rapida crescita del PIL, oltre che della popolazione (Russia esclusa).

Ancora nel 2014 i “magnifici 5 BRICS ” avevano fatto frullare le prime pagine dei giornali economici annunciando che erano stufi dell’obsoleto e razzista Fondo Monetario Internazionale (all’interno del quale sono comunque ben  presenti).   Avrebbero quindi fondato una banca mondiale alternativa che avrebbe davvero finanziato la crescita dei paesi emergenti: la New Development Bank.   Nuova ondata di entusiasmo bi-partisan sia dei fautori che dei detrattori del BAU (Business As Usual = globalizzazione), sia pure per motivi opposti.

Qualche scettico cronico, tipo il sottoscritto, sostenne che dietro lo smalto si vedevano già delle belle crepe in tutti e cinque i BRICS, ma nessun commentatore di rilievo, che io sappia, fece osservazioni analoghe.   In fondo siamo comunque umani e ci piace sognare.

I BRICS oggi.

A solo 15 anni dal loro battesimo in casa (o chiesa?) Goldman Sachs, che ne è dei cinque “enfant prodige” della crescita economica?   Diamogli un’occhiata.

Brasile.

crisi BRICS
Il PIL del Brasile

Nel medesimo fatidico 2014 in cui i BRICS annunciavano la loro nuova super-banca, si giocavano i mondiali di calcio in Brasile.    Mondiali destinati a passare alla storia per le spese iperboliche mai recuperate, la realizzazione di mega-stadi, alcuni dei quali subito abbandonati, e per le sommosse popolari contro tutto questo.    N.B.:  Sommosse contro il campionato di pallone in Brasile!
E per colmo di sventura, vinse la Germania.
Di per sé tutto ciò sarebbe trascurabile, ma qui ci interessa perché era un sintomo evidente di quello che stava per accadere: la peggiore recessione della storia brasiliana, il caos politico con il Presidente sotto processo, le alte sfere travolte dagli scandali ed in arrivo le olimpiadi più disastrate e disastrose della storia.   Per non farsi mancare nulla, siccità ed incendi stanno mettendo in ginocchio la rete elettrica nazionale e, di conseguenza, buona parte dell’industria.   Mentre San Paolo (la città più grande del l’emisfero australe) sta restando a corto di acqua.  Davvero Zika è l’ultimo dei loro problemi.

Russia.

Crisi BRICS - svalutazione rublo
Svalutazione del Rublo

Già di partenza era una presenza anomala.   Gli altri erano infatti “Paesi emergenti” e ruggenti (nel 2001), mentre la Russia era una super potenza sconfitta che aveva faticosamente recuperato un equilibrio e rimesso in piedi un’economia.   Soprattutto basandosi sull’esportazione di energia: petrolio sul mercato globale e gas su quello europeo.   In pratica quindi, un fornitore di materia prima per l’eventuale sviluppo altrui.    Non era un gran che, ma era il meglio che si  potesse fare e Putin lo aveva fatto, fermando il completo collasso del paese scatenato dalla sconfitta, ma soprattutto dalla disastrosa gestione del governo Eltsin.
Il problema è che non appena sono entrate in crisi le economie clienti, la Russia si è trovata di colpo con le spalle al muro.   Né la prospettiva di uno sviluppo delle forniture verso la Cina pare avere molte prospettive, sia per i tempi e gli investimenti necessari, sia per la crisi che nel frattempo ha raggiunto la Cina.   Anche in questo caso, il disastro ambientale contribuisce.   Molti tratti dei previsti metanodotti e delle strade di servizio dovrebbero infatti appoggiare sul permafrost che si sta sciogliendo.
Certo la Russia rimane la seconda forza armata a livello planetario e, di conseguenza, un attore politico di primo piano.   Ma le prospettive economiche rimangono quanto mai fosche.

India

siccità in india
Siccità in India

Per l’India, i dati ufficiali parlano di una crescita economica intorno al 7% ma intanto calore estremo e siccità stanno letteralmente distruggendo buona parte del paese.   La gente fugge in città per sopravvivere e per rifornire d’acqua le città si finiscono di prosciugare le campagne, i fiumi e le falde freatiche.  I tassi di inquinamento sono fra i più alti del mondo, con i conseguenti costi sanitari e sociali.
Più di tutto, l’India ha una popolazione di quasi 1,3 miliardi in rapida crescita (1,38%) ed un terzo della popolazione ha meno di 30 anni.   Sono impressionanti i livelli di violenza di tutti i tipi: da quella domestica e sulle donne a quella religiosa, passando per quella politica e dalla criminalità comune.   L’affermarsi di partiti nazionalisti e oltranzisti non è che un ulteriore indice di crisi strutturale e non potrà che aggravare la situazione.

Cina

Importazioni cinesi
Importazioni cinesi

E’ il pezzo forte della collezione.   Il paese più popoloso e più inquinante del mondo è adesso anche la seconda economia e la terza forza armata a livello mondiale.    Sul piano economico, i dati ufficiali proclamano una crescita fra il 6 ed il 7% negli anni peggiori, ma analizzando l’import/export (verificabile dai dati di tutti gli altri paesi) risulta evidente che non è vero.   La Cina è in recessione o, perlomeno, in stagnazione.  E si sta tirando dietro tutte le economie dell’est asiatico: dalla Corea del sud a Singapore.   Del resto, la crescente aggressività internazionale, ad esempio con le ricorrenti crisi militar-diplomatiche per il possesso di scogli inabitabili sparsi in giro, sono un indizio pesante di crisi grave.

Esportazioni cinesi
Esportazioni cinesi

Sul piano politico, il Partito Comunista continua ad avere un saldo controllo e l’opposizione pare limitata a pochi intellettuali, ambientalisti e minoranze etniche marginalizzate.  Ma i licenziamenti di massa in programma e la fine (o perlomeno il drastico rallentamento) della crescita economica potrebbero cambiare il quadro.   Così come il debito, esploso al 300% del PIL in pochi anni.    Anche i folli livelli di inquinamento, la desertificazione di vasti territori e la cronica mancanza d’acqua non mancheranno di avere effetti sul futuro del paese.

Sudafrica.

Andamento della crescita del PIL e della disoccupazione.
Andamento della crescita del PIL e della disoccupazione.

Passata la sbornia del dopo-apartheid, si cominciano a fare i conti con l’oste.   Al di la dei tecnicismi e dei trucchi contabili, la crisi cinese ha trascinato anche il Sudafrica in una crisi economica senza precedenti, assieme a tutti gli altri paesi esportatori di materie prime.  I titoli governativi e di molte imprese sono classificati “Junk” o quasi, l’inflazione galoppa ed il debito esplode.
La delinquenza aumenta, in particolare il bracconaggio che sta spazzando via buona parte della mega-fauna in questo, come in tutti gli altri paesi africani.    Ed intanto il presidente Zuma (quello dello storico accodo del 2014) è coinvolto in una serie di scandali per corruzione e simili.
A far le spese di tutto ciò, innanzitutto gli immigrati dai paesi circostanti che sono fuggiti in massa dopo una serie di attacchi xenofobi che hanno fatto diversi morti e molti feriti.

E’ la fine dei BRICS ?

Prima di sparare pronostici, è sempre bene dare un’occhiata al contesto.   E il contesto è di impatto globale contro i limiti dello sviluppo.    Una cosa di cui si parla da 40 anni, ma cui ancora molti non vogliono credere.

Se davvero la crisi attuale non è un incidente, ma l’inizio della fine del BAU, è ben difficile che 5  paesi fra i “più BAU” del mondo possano uscire dal pantano in cui si sono cacciati.   Tuttavia non si può far d’ogni erba un fascio.   Se come blocco politico-economico i BRICS sono probabilmente finiti per sempre (ammesso che siano mai esistiti!), non è affatto detto che lo siano singolarmente.   Soprattutto non in un contesto in cui l’Europa sta facendo di tutto per suicidarsi e gli USA sembrano precipitare in una voragine di stupidità.

A mio  modesto avviso, quelli messi peggio sono il Sudafrica e l’India, sia per la pressione demografica che per la rapida evoluzione del clima.  Segue il Brasile che, pur avendo una popolazione relativamente modesta rispetto al territorio, ha fatto della sistematica distruzione di questo il suo settore trainante.   Inoltre, sia il Brasile che il Sudafrica sono, fondamentalmente, fornitori della Cina.   Se questa sprofonderà li trascinerà con sé, mentre se la Cina riprenderà fiato ricomincerà a comprare, ma ciò non farà che accelerare il tasso di distruzione delle risorse ed il degrado del territorio dei suoi fornitori.

La Russia è un caso a parte.   Se sul piano strettamente economico non può far molto altro che sperare che il prezzo dell’energia torni a salire, sul piano politico ha parecchie frecce al suo arco.  Finora ne ha scoccata qualcuna giusta e qualcuna sbagliata.   Se saprà giocare bene le sue carte, potrebbe cavarsela meno peggio degli altri, anche grazie alla bassa densità di popolazione (tendente alla diminuzione) ed al vasto territorio.   Anche il fatto che la maggior parte della gente sia abituata cavarsela con poco potrebbe aiutare questo paese ad essere fra quelli che cadranno in cima e non in fondo al cumulo di macerie della civiltà industriale.   Se, invece, opterà per diventare una periferia cinese, farà la fine di tutte le periferie di tutti gli imperi in declino.

In ultimo l’Impero Cinese.     Direi che è sicuramente troppo presto per darlo per spacciato.   Anche se la tendenza globale è verso la fine dell’economia industriale, la Cina ha ancora molti margini di manovra sul piano politico e militare.  Ed ha una popolazione relativamente stabile, anche se malsana.    Il rischio che una potenza in crisi cerchi la scappatoia attraverso l’avventura militare è sempre presente.  Del resto USA e, su scala minore, Russia stanno facendo esattamente questo.   Lo farà anche la Cina?   Non possiamo saperlo, ma diciamo che è abbastanza probabile.   Il contesto ed i mezzi sono però molto diversi e non è prevedibile come possa finire.
In sintesi, credo che finché il sistema partito-esercito rimarrà saldo e coeso, la Cina potrà attraversare crisi terribili al suo interno e scatenarne di ancor peggiori fuori, ma non si disintegrerà.

Un’ultima osservazione.   Il destino di questi paesi è in gran parte nelle nostre mani.   Più stupidaggini faremo noi, più si apriranno spazi di manovra per loro.   Personalmente, credo che la strategia migliore sarebbe cercare (se possibile) un accordo strategico con la Russia per tenere sotto controllo la Cina.   Non che l’Europa abbia molto da fidarsi della Russia, né la Russia dell’Europa, ma credo che una sospettosa alleanza gioverebbe ad entrambi.   Noi abbiamo urgente bisogno di prendere pacificamente le distanze dagli USA e loro stanno rischiando di diventare una colonia cinese.
Forse, potremmo darci una mano l’un l’altro per farsi il meno male possibile rotolando giù per la parte discendente del “Picco di tutto“.

Equità e sostenibilità sono sinergiche?

Equità e sostenibilitàUna maggiore equità nella distribuzione dei redditi viene sempre più spesso invocata dai piani basali ed intermedi della piramide sociale.   Con ottime ragioni.   Un simile livello di disparità non si era mai visto nella storia, probabilmente neppure all’epoca dell’impero Han o di quello romano.   Certamente Carlo Magno era un poveraccio rispetto ai fratelli Koch.
Fin qui credo che ci sia poco da aggiungere e, a scanso di equivoci, preciso subito che sono d’accordissimo che sia uno schifo che deve finire.   Il punto che vorrei discutere è però un altro: alcuni (fra cui nientemeno che il papa) sostengono che migliorare l’ equità sociale migliorerebbe anche la situazione ambientale.   Siamo sicuri che sia così?

Redditi e consumi

Il punto principale di chi sostiene la sinergia fra aumento dell’equità e riduzione degli impatti è il fatto (verissimo) che i ricchi consumano molto di più dei poveri.

Dunque, tanto per farsi un’idea di come potrebbe funzionare, immaginiamo di distribuire la metà dei patrimoni dei 50 uomini (e donne) più ricchi del mondo  (1.250 miliardi secondo Forbes) fra il miliardo di persone più povere della Terra.   Farebbero circa 600 dollari a testa, cioè circa il doppio di quello che attualmente guadagnano in un anno intero.   Cosa farebbero?   Ovviamente li spenderebbero per togliersi la fame, curare i malati, vestirsi decentemente, riparare la baracca dove vivono, magari mandare i bambini a scuola.
Tutte cose sacrosante che raddoppierebbero secco il loro impatto ambientale ed imprimerebbero una brusca accelerazione alla crescita demografica.
Viceversa, quando Carlos Slim, che già aveva 69 miliardi, nel 2012 ne ha intascati 4 netti non ha aumentato i suoi consumi e le sue emissioni, semplicemente perché aveva già tutto ciò che è possibile avere e consumava già tutto ciò che si può umanamente consumare.

Per dirla in termini scientifici, la correlazione fra aumento del reddito ed aumento dei consumi non è lineare.   E l’aumento dei consumi è tanto maggiore, quanto più basso è il reddito di partenza.
Ne consegue che aumentare la quota di PIL nei piani bassi favorisce la crescita economica e demografica assai più che non la crescita nei piani alti.    Anzi, si potrebbe addirittura considerare il meccanismo perverso di concentrazione in corso una sorta di reazione immunitaria del sistema “Umanità” alla propria ipertrofia: più la ricchezza si concentra nei piani alti, più l’economia reale affanna e con essa rallentano sia la crescita dei consumi, sia quella demografica.

Equità e sostenibilità nei modelli

limiti dello sviluppo scenario 8Molti non troveranno convincente  il ragionamento, quindi vediamo cosa ci dicono i modelli disponibili che, in qualche misura, prendono in considerazione l’ipotesi di una ridistribuzione dei redditi.
Ad oggi, il più affidabile continua ad essere l’autorevolissimo Word3 che, nell’edizione del 2004 (Limits to Growth: The 30-Year Update) propone, fra gli altri, un scenario in cui si ipotizza che dal 2002 la natalità globale si si stabilizzi sulla media di due figli per coppia e che venga praticata una distribuzione dei prodotti industriali uguale per tutti ad un livello del 10% superiore rispetto alla media globale del 2.000.   Vale a dire molto meno per i ricchi e molto di più per i poveri.
Sorvolando sui dettagli,  è interessante che queste condizioni allungano la fase di picco delle curve di produzione e della popolazione, prolungando il periodo di benessere per una ventina d’anni rispetto a scenari meno egualitari (e più realistici).   Dopodiché avviene comunque un collasso sistemico analogo a quello dello scenario BAU.
Si badi bene che la maggior parte di coloro che reclamano una maggiore equità si guardano bene dal parlare di limitare la popolazione.   Nel libro non viene illustrato lo scenario con ridistribuzione dei beni senza controllo della natalità, ma non ci vuole molto a capire che la popolazione crescerebbe molto rapidamente, mandando in collasso il sistema in quattro e quattr’otto.

Il secondo modello che in qualche modo prende in conto il livello di equità sociale è il popolarissimo HANDY,  il cui successo di pubblico dipende largamente dal fatto che dice cose che fa piacere sentire.
Purtroppo però, sotto il profilo scientifico il modello ha parecchi e vertiginosi buchi.   A cominciare dal fatto che è eccessivamente semplificato, così da delineare scenari del tutto impossibili, come quello in cui i predatori (l’élite) crescono anche dopo che hanno fatto estinguere le prede (la gente comune).   Oppure, ancora più grave, considera la capacità di carico una costante, indipendente dalle altre variabili.  O ancora non considera le fondamentali retroazioni fra sviluppo delle élite, la specializzazione del lavoro, l’aumento della complessità dei sistemi economici, la capacità dei sistemi di dissipare energia, eccetera.
Tuttavia, a parte queste ed altre gravi lacune, il modello ha l’indubbio pregio di inserire l’elemento sociale in questo tipo di modelli.   In attesa di meglio, possiamo penso prendere per buona l’indicazione di larga massima secondo cui livelli moderati di disuguaglianza tendono a rendere più stabili e resilienti le società.   A braccio, direi che un’occhiata alla storia conferma l’ipotesi, a condizione di prendere il termine “moderata disuguaglianza” in senso molto relativo.

Conclusioni.

In sintesi, una parziale ridistribuzione dei redditi avvantaggerebbe primi fra tutti i ricchi, consolidandone il potere.   Le élite del passato che sono rimaste in sella a lungo lo sapevano bene, come lo sapevano Karl Marx e gli anarchici dell’800.
In secondo luogo, favorirebbe i poveri la cui vita migliorerebbe non solo sul piano materiale, ma anche per il ridursi della snervante sensazione di essere quotidianamente defraudati ed ingannati.
Tuttavia sarebbe un miglioramento molto temporaneo.   La crescita dei consumi globali e la crescita demografica che ne deriverebbe si rimangerebbero il vantaggio nel giro al massimo di un paio di decenni, per poi precipitare tutti in un baratro ancora peggiore.  Amen.

A dire il vero una scappatoia ci sarebbe.   Si ridurrebbero sia l’iniquità che gli impatti se si abbassassero i redditi dei ricchi, senza incrementare quelli dei poveri e, contemporaneamente, adottando drastici sistemi di controllo demografico.    Ma questa è l’unica opzione su cui tutti sono d’accordo per essere contro.

SpaceX e la nuova frontiera

SpaceX atterraggioSpaceX è una società aerospaziale privata che sta mettendo a punto una serie di vettori economici per la messa in orbita di satelliti.   Al di la di qualche inevitabile fiasco, il programma sta riscuotendo un notevole successo.    L’ultimo: un atterraggio riuscito su di una piattaforma telecomandata in mezzo all’oceano, a conclusione di una missione reale di messa in orbita di un satellite.

L’idea di base è la riutilizzabilità dei vettori, cioè è la stessa che fu alla base del programma “Space Shuttle” che, invece, si è dimostrato rovinosamente costoso.   Il segreto è nell’altissimo grado di automazione, nella riduzione all’osso del personale e, soprattutto, nell’assenza di equipaggi.

Lo spazio come nuova Frontiera

Come sempre a seguito di qualche impresa spaziale di successo, rinascono le speranze per una colonizzazione almeno parziale del cosmo da parte della nostra specie.   Il sogno della “frontiera” è evidentemente uno degli archetipi fondanti della nostra civiltà e, forse, della nostra specie.

Questa sarà la volta buona?

Poco probabile, considerato il rapido peggioramento della situazione economica e ambientale a livello planetario, ma nessuno può dire con certezza cosa succederà.   Dunque facciamo l’ipotesi che il programma vada avanti abbastanza rapidamente da consentire l’avvio di uno sfruttamento commerciale delle spazio.   Per esempio per il reperimento di minerali rari, necessari per le tecnologie d’avanguardia, come quelle largamente usate da SpaceX.
Dunque, se un simile programma avesse successo, potrebbe forse una diffusione di tecnologie avanzate molto superiore a quella attualmente fattibile, forse frenando in extremis il “Picco di Seneca” sul quale stiamo sdrucciolando.
OK, ammettiamolo, ma con quali conseguenze?

Tanto per cambiare, la traccia più consistente ce la può dare ancora una volta LtG che, quasi 50 anni dopo la sua elaborazione, continua a dimostrarsi un potente strumento di analisi.
In questi ultimi anni, di tutto lo studio è stato da più parti riesumato e verificato lo scenario BaU (business as usual) perché descrive in modo sorprendentemente preciso l’effettiva evoluzione del’nostro mondo.   Ma non era questo lo scopo del lavoro ed i ricercatori del MIT avevano delineato anche altri scenari possibili, perfino più interessanti.
Ad esempio, come evolverebbe il sistema se le risorse disponibili risultassero essere il doppie di quelle allora stimate? Oppure il quadruplo?
Sulla Terra queste risorse extra pare proprio che non ci siano, ma se fossimo in grado di reperirle nello spazio il risultato sarebbe alla fine analogo.   E dunque?

E dunque sarebbe enormemente peggio!    Una conclusione tipicamente contro intuitiva e dura da digerire, ma assolutamente affidabile.
Ipotizzando di poter attivare un apporto consistente di risorse extra ad un costo energetico appena decente, molto probabilmente potremmo avere qualche decennio di relativa crescita economica in più.   Ma questo comporterebbe un ancor maggiore incremento demografico, un molto maggiore inquinamento ed un’ulteriore distruzione di biodiversità.   Dunque il collasso verrebbe si rimandato, ma sarebbe ancora peggiore, con un numero molto minore di sopravvissuti su di un pianeta in condizioni ancora peggiori.

limits.standard
In sintesi, lo scenario BaU prevede un collasso economico ed ambientale fra il 2020 ed il 2030, seguito a ruota dal collasso della popolazione umana.
LtG, scenario risorse abbondanti
Ipotizzando una disponibilità di risorse doppia a quella attualmente stimata, il collasso avverrebbe intorno al 2050, ma in compenso sarebbe molto più grave.

 

Certo, si può facilmente obbiettare che, mentre si sfruttano le risorse minerarie del cosmo, l’umanità potrebbe decidere di adottare un sistema economico basato su retroazioni negative, anziché positive come avviene adesso, così da impedire ogni ulteriore crescita economica.   Contemporaneamente, la politica del figlio unico (testé abolita in Cina) potrebbe essere di buon grado adottata da tutti ed avviasi così ad un lieto fine: un’umanità stabile e ragionevolmente prospera, finalmente cosciente dei limiti che non deve superare.

Ma un simile scenario mi pare manchi di coerenza interna.   Da una parte, infatti, si fa appello a tutte le forze del mercato e del progresso tecnologico per poter sfruttare il cosmo, dopo aver svuotato la Terra.   SpaceX è un’impresa commerciale tipicamente BaU.   Ed il progresso tecnologico può avvenire solamente a fronte di una massiccia dissipazione di energia, con tutte le conseguenze del caso.
Dall’altra e contemporaneamente, si fa appello a tutte le forze sociali e culturali per spazzare via l’economia di mercato e sostituirla con qualcosa che, forse, potrebbe somigliare alla “steady state economy” teorizzata da Herman Daly.

Ma se la prima ipotesi mi pare molto improbabile, ritengo la seconda impossibile.   Da almeno 50.000 anni a questa parte l’uomo non ha fatto che cercare nuove frontiere dove espandersi ed ogni volta che le ha trovate il risultato è stato sempre esattamente lo stesso: crescita demografica – impoverimento delle risorse e degrado degli ecosistemi – collasso della popolazione umana.
Collasso talvolta totale, assai più spesso parziale seguito, eventualmente, da un nuovo ciclo.   Dopo qualche secolo necessario per un parziale recupero delle risorse e per lo smaltimento delle scorie.
Nella storia ci sono stati alcuni tentativi di contrastare questa dinamica, ma anche questi hanno sortito risultati parziali e temporanei.

Dunque, personalmente, non credo che uno sfruttamento minerario del cosmo sia possibile.   Ma soprattutto non me lo auguro.

 

Euroscettici

euroscetticiGli euroscettici vanno di moda, ma chi sono?    Secondo la vulgata sarebbero un variegato assemblaggio di movimenti sia di destra che di sinistra, nemici su tutto tranne che sul fatto che bisogna ridurre il potere degli organismi comunitari.   Anzi, per parecchi di loro sarebbe meglio abolirli proprio.
Ma sono davvero loro gli euroscettici?

Per discutere l’argomento, conviene cominciare con un ripassino-lampo di storia patria:

 

Un po’ di storia

All’inizio del XX secolo le potenze europee avevano, complessivamente, il mondo in pugno.   Una solida alleanza fra Inghilterra, Francia e Germania avrebbe avuto la forza di tenere incantonati Stati Uniti, Russia e Giappone, nonché di risolvere tutti i problemi interni di povertà continuando a sfruttare spudoratamente il resto del mondo.
Certo, non era etico, ma non fu per uno scrupolo morale, bensì per un desiderio folle di predominio che gli europei decisero di suicidarsi scatenando la più terribile guerra mai vista fino ad allora.

Anche i vincitori ne uscirono molto peggio di come ci erano entrati ed il fiume di sangue fu così impressionante che ne  scaturì il progetto della “Paneuropa”.   Un progetto che ebbe un notevole successo iniziale, ma che fu presto soffocato dall’arrivo in Europa della Grande Depressione degli anni’30, nata in USA.   Il precipitare della situazione economica riportò al governo partiti nazionalisti che tentarono di arginare i danni dei propri paesi a scapito dei vicini.   Particolarmente feroci furono i francesi a danno dei tedeschi, cosa che aiutò non poco la carriera politica di Adolf Hitler.

Fu così che gli europei si gettarono in un secondo ed ancor più devastante suicidio collettivo; il più grandioso dell’intera storia.   Come andò lo sappiamo e, scavalcando forse 50 milioni di morti, giungiamo al 1945, con noi ridotti ad un cumulo di macerie, mentre USA ed URSS si spartivano il mondo e quel che restava di noi.

Fu in questo desolante paesaggio che Robert Schuman ebbe l’idea geniale di sostituire lo sfruttamento dei vinti con la collaborazione economica.   Un processo che nelle sue intenzioni doveva gradualmente sanare le ferite reciproche e creare quel clima di fiducia e fratellanza che era indispensabile per giungere alla creazione di quegli Stati Uniti d’Europa, tante volte vagheggiati e mai realizzati.

Funzionò e così giungemmo al 1989: collasso dell’Impero Sovietico.   Occasione per gli europei per un nuovo suicidio.
Con la Russia a pezzi e l’America troppo ebbra di vittoria per preoccuparsi di noi, abbiamo avuto una finestra di buoni 10 anni per fare due cose:
– Guidare l’economia in uno stato il più possibile stazionario;
– Creare una EU politicamente molto coesa ed integrata da subito, diluendo invece l’integrazione economica nei decenni a venire.
In altre parole, politica e difesa comuni; economie tendenti all’unificazione, ma con i tempi e le protezioni di cui ognuno aveva bisogno.

Ancor più importante: basare l’integrazione dei paesi dell’est sulla necessità di fare fronte comune alle immense difficoltà che non avrebbero tardato ad arrivare, anziché sulla prosopopea dell’arricchito che “educa al benessere” il suo vicino di casa povero.

Esattamente il contrario di quanto fecero i partiti al potere allora (ed ora).

euro-crisisLo stesso progetto della moneta unica, nacque come grimaldello per costringere le oligarchie nazionali a cedere effettiva sovranità ad un livello federale.    L’idea era, infatti, che poiché una moneta unica non potrà mai funzionare senza un governo unico, l’adesione all’Euro avrebbe poi costretto i vari “ras” ad accettare almeno un embrione di federazione.
Sbagliato.    Non ci hanno pensato due volte a mandare ai pesci il più importante esperimento politico del secolo per non rinunciare ad una fetta del loro potere.    Signora Merkel in testa al corteo.

Quel che non capisco è perché proprio lei ora si lamenti del fatto che il corteo cui ha dato l’avvio sta avendo tanto successo.

Comunque, non ci bastò: perseguendo un sogno neocoloniale assolutamente folle, assieme agli USA abbiamo promosso e spinto la globalizzazione economica planetaria.

Il sogno era affascinante: un Europa faro di civiltà che gestisce buona parte dell’economia mondiale (a proprio vantaggio), mentre le fabbriche, l’inquinamento, il proletariato urbano e tutte le altre cose sgradevoli connesse con lo sviluppo se le prendevano gli altri che, per di più, ce ne sarebbero stati grati.
E’ andata un po’ diversamente ed ora che la realtà bussa alle porte dei nostri sogni possiamo scegliere fra molte opzioni, ma ancora una volta riemergono gli spettri di un nazionalismo che, evidentemente, non ci è ancora costato abbastanza.    Sembra che stiamo nuovamente scegliendo di scannarci fra di noi, anche se sul piano economico e commerciale, anziché su quello militare, probabilmente perché non abbiamo più forze armate in grado di combattere se non come supporto a quelle USA.

 

Chi sono gli euroscettici?

Fenomeni complessi come questo hanno sempre cause altrettanto complesse, ma una di queste è facile da identificare: i partiti che controllano i governi nazionali controllano anche il Consiglio Europeo che è il vero organo decisionale comunitario.   E da 30 anni questi partiti sono impegnati in un gioco di prestigio: far funzionare un’economia integrata, ma senza integrare le politiche; anzi, spesso tirando a farsi l’un l’altro le scarpe.
Non funziona e non può funzionare, ma questa semplice constatazione non riesce a scalfire i processi decisionali interni agli stati che poi, tramite il Consiglio, si riverberano a livello comunitario.

Il paradosso sta tutto qui: gli stessi partiti che nel Parlamento europeo spingono per una sempre maggiore integrazione, nelle rispettive capitali locali e nel Consiglio Europeo remano invece contro, chi più chi meno.
Del resto è sempre così: le comunità sono più forti dei singoli e danno quindi dei vantaggi, ma per farle funzionare occorre che ognuno sia disponibile a far passare l’interesse collettivo avanti a quello individuale.   E questo non sembra che nessun governo abbia voglia di farlo.

Dunque, se proprio coloro che da sempre stanno seduti nelle “stanze dei bottoni” hanno estrema cura che certe cose non funzionino, è ovvio che non funzioneranno.    Ed è altrettanto ovvio che questo provocherà problemi, scontento e la precisa sensazione di essere presi in giro.   Sentimenti più che giustificati su cui estrema destra e sinistra hanno facile presa.

Io visualizzo la situazione in questi termini: siamo in mezzo ad un mare in tempesta e l’occhio del ciclone si avvicina.   La nostra barca è apparentemente robusta, ma chi la ha governata finora ha smontato gran parte delle strutture portanti per farci delle sovrastrutture inutili e pesanti che fanno beccheggiare pericolosamente lo scafo, mentre imbarchiamo acqua da diverse falle.   Gli ufficiali si picchiano intorno al timone, mentre i membri dell’equipaggio vagano con grosse canne in bocca e bottiglie di whisky mezze vuote in mano.   A questo punto un certo numero di passeggeri si ribella ed ha un’idea: affondiamo la barca ed andiamocene ognuno per conto suo, vedrete come sarà bello nuotare!

In conclusione, chi sono gli euroscettici?

Quelli che per 30 anni si sono rifiutati di fare davvero l’Europa, o quelli che in questi giorni si stanno costruendo delle carriere politiche sugli errori commessi da altri?

Comunque, almeno una cosa nessun euroscettico potrà negare: tutti i popoli d’Europa sono accomunati da almeno due cose: la smisurata superbia ed una spiccata tendenza al masochismo.

euroscettici-2

Estrema destra ancora vittoriosa! Domande?

MerkelDomenica scorsa il partito austriaco di estrema destra è diventato il primo del Paese.   Socialisti e democristiani, tradizionali partiti di riferimento, sono praticamente scomparsi.   Ci sono domande?    Penso parecchie.
La cavalcata dell’ estrema destra non solo europea, ma anche americana, cominciò in sordina negli anni ’90.   Considerato allora un fenomeno marginale, oggi sta riempiendo le agende delle think tank e degli analisti; turbando i sonni di un sacco di gente.   Non tenterò qui un riassunto di una tale mole di analisi su di un soggetto così complesso.    Semplicemente vorrei proporre qualche considerazione personale che spero possa contribuire, sia pure minimamente, ad arginare il fenomeno.

destra franceseLa prima è questa: di turno elettorale in turno elettorale l’ estrema destra avanza.  Possibile che tanta gente che votava socialista o democristiano (intesi in senso europeo, molto lato) si stia svegliando nazista o fascista?   Personalmente penso che sia poco probabile.   L’ estrema destra ha sempre avuto una sua nicchia, ma marginale era e penso che marginale rimanga.   La massa di voti che raccoglie ha tutta l’aria di essere un voto di protesta e/o di paura.   Niente di particolarmente nuovo, dunque, ma che rischia di generare degli effetti a medio termine perversi.

destra austriacaSospinti dal voto di protesta, i leader dell’ estrema destra andranno probabilmente al potere, dove potrebbero fare dei danni irreparabili.   Specialmente se i governi moderati in carica continueranno a preparare loro in terreno.
Dunque la prima cosa da fare sarebbe capire quali sono i principali argomenti che suscitano nella cittadinanza questo tipo di rischiosa protesta.   Per farsene un’idea, il modo più semplice è osservare quali sono i pochi punti che accomunano la maggior parte dei partiti e dei movimenti di maggior successo, peraltro assai eterogenei.   Direi che i principali sono i seguenti: la recessione con annessi e connessi, la corruzione, l’immigrazione, la sicurezza, il nazionalismo.   Non necessariamente in quest’ordine.

Dunque vediamoli brevemente uno alla volta per vedere se sono possibile delle parate, almeno parziali.

Recessione.

recessioneQuesta è la “madre di tutte le grane”.   Abbiamo costruito il nostro sistema politico basandoci sul presupposto che la crescita economica sarebbe durata per sempre e che, gradualmente, avrebbe coinvolto tutti.   50 anni fa già si sapeva benissimo che si tratta di una favola, ma nessun politico importante ha avuto il coraggio di spiegarlo ai suoi elettori.   E nessun corpo elettorale era ed è disposto a sentirselo dire.   Ne consegue questo sempre più frenetico arrampicarsi sugli specchi che inganna sempre meno gente, offrendo buon gioco a chi propone ricette tanto semplici quanto improbabili (ad es. usciamo dall’Euro).   Paradossalmente, proprio perché semplici ed improbabili, simili proposte fanno presa su chi, giustamente, sente di essere stato pesantemente preso per il culo.   Di qui l’inevitabile altalena di politici che ascendono promettendo di avere la ricetta giusta, per poi immancabilmente deludere.

Qui la parata sarebbe particolarmente difficile perché bisognerebbe spiegare come e perché la crescita non tornerà mai più e che questo, fra tutti i mali possibili, è il minore.   Molto difficile che possa funzionare.   Credo che sia persa, anche se mi piacerebbe vedere qualcuno che ci prova.

Corruzione.

corruzioneUna certa percentuale di parassiti ci sono sempre stati, ma quando diventano tanti e sfrontati scatta la modalità “Sono tutti ladri” che è esattamente quello di cui ha bisogno chi si propone come “quello che farà pulizia”.   Sappiamo già che non è vero ma ci piace illuderci.

Qui la parata sarebbe teoricamente facile: piantarla con gli interessi privati in politica.   Ma visto che in parecchi non lo fanno, forse è meno facile di quel che sembra da fuori.   Forse, una parziale spiegazione è che per salire di molto sulla la scala gerarchica è necessario disporre di un sacco di soldi, propri o di sostenitori.   E per avere i soldi ti devi legare ad un mondo economico in cui il limite fra l’economia “pulita” e quella “canaglia” sfuma di giorno in giorno.   Una volta che sei arrivato in alto, non solo non puoi abbandonare gli “amici degli amici”, ma oramai sei diventato uno di loro.

Immigrazione

immigrazioneQuesto è forse il punto in cui la classe dirigente sta fallendo nel modo più spettacolare.   Un sacco di poteri forti e deboli hanno un sacco di interessi legittimi e non in quest’affare ed ognuno tira il governo dalla sua parte, col risultato che assolutamente niente di quello che è stato fatto dai primi anni ’90 ad oggi ha il benché minimo senso logico.   I risultati non possono che peggiorare man mano che il fenomeno cresce all’interno di sistemi sociali progressivamente fragilizzati dalla crisi economica.

In generale io rifiuto la logica binaria, ma in questo caso credo che potrebbe esserci di aiuto.   Credo che ognuno, nel silenzio della sua cameretta, dovrebbe porsi questa domanda: L’Italia (o l’Europa) è sovrappopolata?   Si o no?   Barrare la casella.   Se si sceglie “Si”, allora è vitale stabilire un efficace controllo delle frontiere esterne e decidere chi facciamo passare e chi no.   Fra “tutti” e ”nessuno” ci sono parecchie opzioni possibili, ma nessuna con tutti sono contenti e nessuno si fa male.   Qualunque scelta facciamo ci saranno dolore e morte.   Se si sceglie “No”, allora l’unica cosa sensata da fare è un servizio regolare di traghetti che prendono la gente e la porti qui.   Ma anche in questo caso ci saranno dolore e morte.
Questo perché, purtroppo, la risposta corretta è “Si, parecchio” e continuare a negare che abbiamo un drammatico problema di quantità di gente serve solo ad aprire la strada chi sostiene che il problema è la qualità.
Il mio parere di ecologo professionista e storico dilettante è che società multietniche e multiculturali sono difficili, ma gestibili (con qualche incidente) ed è vero che la diversità è ricchezza.   Ma e’ anche vero che la nostra economia ed i nostri ecosistemi stanno collassando e che ogni persona in più, anche se rimane nel novero dei poveri, non fa che accrescere un’impronta ecologica già esorbitante.   E non è neanche vero che si potrebbe compensare riducendo lo standard di vita degli autoctoni.   Cosa che, fra l’altro, sta già accadendo (v. recessione) e non sono in molti a rallegrarsene.
Ridurre i propri consumi è infatti esattamente quello che è necessario fare per distruggere il più rapidamente possibile quello che resta della nostra economia industriale.   Una scelta che si può anche fare, ma che andrebbe fatta coscienti delle conseguenze.
Certo, dal momento che gli immigrati sono il 10% della popolazione europea, sono anche il 10% del problema dal punto di vista demografico ed ambientale, ma crescono al ritmo di circa due milioni l’anno e in dinamica dei sistemi le tendenze sono fondamentali.

Sicurezza

terrorismoCi sono due minacce che spaventano: la criminalità ed il terrorismo.

Quanto alla prima, è importante notare che il rapinatore od anche il topo d’appartamento sono assai più temuti del mafioso, autoctono o di importazione che sia.   E la criminalità spicciola è in buona misura una funzione sia della densità di popolazione che della povertà.   Aumentando la quantità di gente e la percentuale di poveri non può che aumentare, quale che sia l’origine dei poveri.

Quanto alla seconda, la probabilità di essere ammazzato da un pazzoide (islamista o meno) è enormemente più bassa di quella di prendersi un cancro, un infarto o di finire sotto una macchina, perfino a Baghdad.   Tuttavia i terroristi sono effettivamente riusciti a terrorizzarci, col risultato che, dal 2001 ad oggi, gli apparati di spionaggio e repressione si sono moltiplicati e raffinati considerevolmente.   Altri passi in questo senso saranno fatti al seguito di ogni futuro attentato, finché saremo completamente prigionieri di noi stessi.   Il confine fra “protezione” e “sopraffazione” tende a sfumare con l’aumento di intensità della protezione.   E cosa di meglio per un partito che aspirasse ad instaurare un governo autoritario che trovarsi l’intera macchina della “psicopolizia” già avviata e rodata?

Qui la parata comporterebbe una strategia di comunicazione complessa, tesa a dare una visione più realistica  dei rischi reali.   Ma questo non consentirebbe facili speculazioni elettorali neanche ai governi in carica.

Nazionalismo.

nazionalismoNella storia del mondo sono state sperimentate migliaia di forme di stato.   La nazione, intesa come sincretismo di un territorio contiguo, una popolazione omogenea ed un governo è un’invenzione del XIX secolo europeo.   Ed è stato il più fallimentare degli esperimenti politici della storia umana.   Due volte i paesi principali europei hanno avuto governi nazionalisti e ne sono scaturite le due guerre più devastanti della storia del mondo.   Alla fine, l’Europa che 50 anni prima dominava incontrastata il mondo, era ridotta ad un pugno di colonie chi della Russia e che degli Stati Uniti.   Evviva!  Riproviamoci!

Qui la parata richiederebbe innazitutto di insegnare la storia nelle scuole.   Poi ci vorrebbe una radicale ristrutturazione delle tremendamente ridondanti istituzioni europee.   L’autorità centrale dovrebbe essere da un lato ristretta a pochi temi vitali (ad es. ambiente, difesa, politica estera, macroeconomia).   Dall’altro, dovrebbe essere svincolata dal controllo dei governi nazionali.   Ma si da il caso che, di tutte le istituzioni europee, la meno soggetta al controllo nazionale è il parlamento, cioè quella che conta di gran lunga meno.   Viceversa, chi davvero decide è il Consiglio dell’Unione Europea che è composto dai rappresentanti dei governi nazionali (ministri o capi di governo, secondo gli argomenti).  Ed al suo interno, l’Eurogruppo, che non è neanche un’istituzione, ma semplicemente il club dei governi che hanno adottato l’Euro.

Conclusioni

Insomma, io credo che fermare la cavalcata dell’ estrema destra si potrebbe, ma non sarebbe facile e, soprattutto, richiederebbe un buon bagno di realtà tanto per i governanti che per gli elettori.   Non mi sembra che ne abbiano molta voglia né gli uni, né gli altri.

 

Catastrofe egiziana e cazzeggiare europeo

La visita di Hollande in Egitto.

Hollande e al sisiAlcuni giorni fa il presidente francese, François Hollande, si è recato in visita ufficiale in Egitto e, per l’occasione, sono stati firmati una serie di contratti.   La notizia ha sollevato un certo scandalo fasullo in Italia.   “Cattivi francesi che fanno affari profittando che l’Italia ha delle grane con l’Egitto per via di Regeni”.   Pietosa messinscena, dal momento che noi italiani non abbiamo esitato un attimo a consegnare due dei nostri soldati all’India.   Che neanche li processa e quindi li tiene (lo tiene, perché uno poi se l’è potuta svignare) in ostaggio a tempo indeterminato.   E questo per salvare un contratto da 12 elicotteri che poi (giustamente) è saltato lo stesso.

Dunque, sgombriamo il campo dalla nostra ipocrisia e concentriamoci su quella altrui, tanto per imparare qualcosa.

Durante i discorsi ufficiali, Hollande non ha resistito alla tentazione di fare il maestrino, ricordando al dittatore egiziano che “Il rispetto dei diritti umani è un punto di forza e non di debolezza”.    Al Sisi, gli ha risposto per le rime, dicendo che, evidentemente, gli europei non si rendono neanche conto di cosa succederebbe se esplodesse l’Egitto.

Al di là della schermaglia diplomatica, cosa ci insegna questo fatterello?

Hollande ha detto una cosa perfettamente vera.   Tanto più che per accollarsi le spese e gli obblighi di uno stato la gente ha diritto di avere qualcosa in cambio.   E, tanto per cominciare, da sempre questo qualcosa è l’essere difesi, nei limiti del possibile.
Ma Hollande non è quel presidente che tiene il suo paese in stato di emergenza da mesi e a tempo ancora indeterminato?   Che voleva far passare una riforma costituzionale che gli avrebbe attribuito poteri quasi dittatoriali e che sta mettendo in galera molti più ambientalisti e sindacalisti che Jihadisti?   Quando si dice da che pulpito la predica!

D’altro canto è vero che quella di Al Sisi è una dittatura militare a tutti gli effetti e che quel che è accaduto a Regeni è probabilmente abbastanza frequente che accada agli egiziani.   Anzi, più goffi si fanno i depistaggi degli egiziani, più aumenta il legittimo sospetto che dietro questo crimine ci sia implicato qualche personaggio importante del regime.

D’altronde ricordiamoci che l’alternativa alla dittatura militare è una dittatura islamista non più tenera di quella attuale e, per di più, ben disposta verso forme di “pulizia religiosa” anziché etnica.   Ne abbiamo visto l’assaggio durante la breve presidenza Morsi.

Ma c’è anche la possibilità di una ben peggiore catastrofe egiziana, che è quella a cui ha fatto esplicito riferimento il generale: la disintegrazione dello stato e la guerra civile.   Ed in questo Al Sisi ha detto una sacrosanta verità.
Se accadesse una cosa del genere, l’intero medio oriente salterebbe in aria come un petardo e la massa dei fuggiaschi verso l’Europa non sarebbe più di milioni di persone all’anno (come oggi) bensì di decine di milioni.   Ci troveremmo costretti a decidere molto in fretta se sparare a vista sui barconi e lungo le frontiere, o se essere letteralmente sommersi da una massa di disperati in fuga.

Dunque quello che ha detto Al Sisi è sostanzialmente questo: “Guarda amico che tu hai bisogno di me.   Se io mollo scoppia un casino che né tu, né nessuno dei tuoi amichetti sarebbe neanche lontanamente in grado di fronteggiare.”   Ed ha perfettamente ragione.

Questo ci insegna una prima cosa importante: chi non è capace di gestire i fatti propri li rimette ad altri, ma così affida ad altri la propria sicurezza, finanche la propria esistenza.   Nella fattispecie, si mette nelle mani di personaggi del tipo di Al Sisi e di Erdogan (o Gheddafi, di recente memoria).   Personaggi che non solo sono dei dittatori o degli aspiranti tali, ma che neppure esitano ad alzare il prezzo; non solo in euro, ma anche in sostegno politico e militare.

La catastrofe egiziana.

Quanto potrà durare questa situazione?   Probabilmente non molto.

catastrofe egiziana demografiaLa popolazione egiziana è passata da in 50 anni da 28 a oltre 90 milioni di persone, e continua a crescere ad un tasso superiore al 2%.   Il che significa raddoppio (180 milioni) nel giro di 30 anni.    Nel 2011, quando sono scoppiate le “primavere” erano 82 milioni, nel 2015 (quattro anni dopo) erano già 92!

Il 75% della popolazione ha meno di 25 anni, il che significa che, anche se la natalità crollasse bruscamente, la popolazione continuerebbe a crescere per almeno altri 50 anni (salvo catastrofi).   Inoltre, l’egiziano medio, malgrado sia poverissimo e spesso disoccupato, ha un’impronta ecologica che supera del 200% la disponibilità del paese.   Significa che per vivere come oggi, gli ci vorrebbero 4 paesi invece di uno.   E l’impronta ecologica è un indice notoriamente molto ottimista.

L’estrazione di petrolio ha “piccato” una quindicina di anni fa ed è in calo molto rapido, quindi le importazioni dovranno comunque aumentare molto rapidamente.   Il clima sta peggiorando e la produzione agricola cala, sostituita dalle importazioni, soprattutto dall’Ucraina, paese che qualche problema ce lo ha anche lui.

Il mare si sta mangiando il delta del Nilo, la cui portata sta diminuendo sia per ragioni climatiche, sia per il disboscamento a monte.   Ma soprattutto per le derivazioni d’acqua per irrigazione in Sudan, Sudan del sud ed Etiopia, tanto che già vi sono varie minacce di guerra pendenti.  Una per ogni diga in progetto.

Dunque la catastrofe si sarà con assoluta certezza.   Non possiamo sapere quando, ma sappiamo che fra non molto ci saranno decine di milioni di persone in fuga, con ottime ragioni per farlo.   Cosa pensiamo di fare?
Sostenere il governo, quale che sia e qualunque cosa faccia anche ai nostri cittadini, è un metodo per rimandare il disastro e guadagnare tempo.   Ma la catastrofe egiziana non potrà essere evitata, qualunque cosa facciamo.

Abbiamo una strategia qualunque o pensiamo di continuare a trastullarci fra ignavia ed ipocrisia?

Abbiamo perso; un’altra volta.

pandaCome da pronostico, un terzo scarso degli aventi diritto è andato a votare ed il referendum non è passato.   Sorpresi?   Quante volte abbiamo già visto questo film?   Non credo che nessuno fra quelli che si sono attivati per il “SI” credesse davvero di poter vincere.

Ora è la fase dei commenti e, tra chi brinda e chi si arrampica sugli specchi, vorrei proporre alcune riflessioni personali.

Innanzitutto direi che bisogna distinguere i due fiaschi che il 17 si sono assemblati: il fiasco dell’istituto referendario ed il fiasco del movimento ambientalista.

referendum 17 aprile 2016Per quanto riguarda il primo, c’è poco da dire se non “Grazie Pannella”.   Fu infatti il leader radicale che, oramai tanto tempo fa, tentò di scardinare la macchina del potere partitico subissando il governo con una massa di referendum che, sperava, avrebbe obnubilato le capacità di reazione dei partiti.   Invece accadde il contrario.   Da un lato, fu messa a punto una tecnica estremamente efficace per boicottare i referendum, come abbiamo visto anche nei mesi scorsi.   Dall’altro, la maggior parte della gente si è stufata di troppe domande, troppo frequenti e troppo tecniche.   Risultato, il più democratico degli istituti è morto ammazzato dal suo più ardente paladino.   Si sapeva anche la settimana scorsa.   Amen.

Il secondo punto è più complicato, a cominciare dal fatto che questo referendum è nato nell’ambito di una lotta per il potere interna al PD ed alla macchina statale.   Tuttavia aveva delle implicazioni ambientali ed il movimento ci si è buttato.   Ha perso, ma quello che mi interessa qui è che non abbiamo perso ieri: abbiamo perso sempre.    Un movimento che 50 anni fa sembrava capace di cambiare l’agenda politico-economica globale si sta disintegrando senza aver ottenuto praticamente nulla.

Un dato questo inoppugnabile alla luce dei fatti: rispetto al 1970, la situazione ambientale del mondo è peggiorata in modo terrificante.   E’ vero, il panda non si è ancora estinto, anzi è in lieve ripresa.   Ma attenzione: ciò non è accaduto in forza di norme ed interventi del governo o di una presa di coscienza popolare.   Bensì come “sottoprodotto” del boom economico ed edilizio cinese che ha drenato verso le grandi città decine di milioni di contadini e montanari.   Questo ha dato temporaneo respiro ai boschi dove vivono i panda, ma intanto è raddoppiato l’inquinamento mondiale e con ogni probabilità abbiamo oramai superato il punto di rottura climatico.   Un po’ quello che è accaduto in Europa negli anni ’50 e ’60, più in grande ed in un contesto globale ben peggiore.

indicatori di crisi

E mentre quasi tutti gli indicatori mondiali di qualità ambientale peggiorano in maniera esponenziale (andate a leggere questo link), perfino sul piano culturale l’ambientalismo ha perso buona parte della la sua forza propositiva.   Ad oggi, in Italia ed in Europa esiste una piccola e radicata nicchia di persone preoccupata per l’ambiente, ma le associazioni storiche stanno scomparendo, quelle nuove non decollano ed alle riunioni si vedono sempre le stesse teste, sempre più bianche.   E mentre sui teleschermi assistiamo alla telecronaca in diretta del collasso della nostra civiltà, continuiamo a ripetere come dei mantra parole ormai prive di senso, come “sostenibilità” ed “efficienza”.   Né servono a molto quei pochi che, viceversa, accettano il ruolo di “foglia di fico” del sistema economico, sempre senza preoccuparsi minimamente di come questo si interfacci con la realtà.

Non è un caso se tutti i testi fondamentali per l’ambientalismo sono vecchi di 50 anni: “Silent Spring” 1962, “The Population Bomb” 1968, “The Entropy Law and Economic Process” 1971, “Limits to Growth” 1972.
Dopo è stato scritto molto e molto a proposito, ma i termini fondamentali della questione erano chiari allora ben più di ora.
Le opzioni possibili invece sono cambiate perché il tempo è passato e molte delle cose che non sono state fatte in passato non potranno essere fatte in futuro.

D’altronde, sull’altro fronte le cose vanno perfino peggio.   Se nel 1970 le principali industrie europee finanziavano lo studio che portò ai “Limiti dello sviluppo”, oggi il panorama economico è dominato da individui che si occupano di grattare il fondo del barile.   Oppure da ingenui che davvero credono che eliminando i pochi brandelli di tutele ambientali e sociali ancora esistenti si possa rilanciare una crescita economica che per noi è finita da anni e per il mondo (probabilmente) sta finendo proprio adesso.   Amen (un’altra volta).

Dunque la domanda che mi pongo è questa:   Ha ancora senso che esista un movimento ambientalista?   Se si, quali gli scopi che si dovrebbe prefiggere?

Non è una domanda nata oggi dalla sconfitta di ieri.   E’ una domanda nata 10 anni or sono dalla sconfitta di 50 anni consecutivi in cui non è stato possibile modificare di un millimetro la traiettoria suicida della civiltà umana.   Oggi semplicemente la ripropongo, perché ancora non ho trovato una risposta.

post-apocalypse-300x200La aspetto, non ho fretta.