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La fine dell’economia: che ne è stato della profezia di Keynes?

La profezia di KeynesLe profezie sono sempre piaciute, sia quelle pessimiste che quelle ottimiste.   Fra queste ultime, una poco nota la dobbiamo ad un personaggio che oggi va di gran moda: nientedimeno che Lord John Maynard Keynes.

Mi riferisco ad una sua conferenza del 1928 (pubblicata nel 1930) dal titolo:”Quali saranno le possibilità economiche dei nostri pronipoti?”   Poiché quei pronipoti siamo noi, penso che sia interessante rileggere quelle pagine.

In sintesi, Keynes sostiene che un vero progresso cominciò solo con la massiccia importazione di oro ed argento saccheggiati nel Nuovo Mondo durante il XVI secolo.   Circa un secolo più tardi, cominciò la grande èra del progresso tecnologico, con un numero incalcolabile di grandi invenzioni e lo sviluppo di ogni tipo di macchine.

Il risultato fu un enorme incremento della popolazione mondiale e, dunque, dei consumi.   Specialmente in Europa ed negli Stati Uniti il tenore di vita quadruplicò ed il capitale centuplicò.
Punto importante, Keynes si aspettava che, a quel punto, la popolazione globale tendesse a stabilizzarsi sui 2 miliardi circa.   Mentre sia il miglioramento tecnologico che l’accumulo di capitale avrebbero continuato a crescere in maniera esponenziale.

Questo straordinario progresso, prevedeva, avrebbe creato un serio problema di disoccupazione, ma si sarebbe trattato di una fase temporanea.   Nel giro di un secolo da allora (dunque all’incirca adesso), il tenore di vita nei paesi avanzati sarebbe stato tale che l’economia avrebbe definitivamente cessato di interessare alla gente, ma attenzione!   Solo a condizione che nel frattempo non si fossero verificate né grosse guerre, né grossi incrementi di popolazione.

Quello che mi ha colpito del discorso è che non vi si fa neppure un minimo cenno alla disponibilità di risorse (energetiche e non).   E neppure alla possibilità che l’alterazione degli ecosistemi possa portare a controindicazioni gravi, finanche catastrofiche.
In sintesi, colpisce la totale assenza di ogni riferimento alla legge dei “ritorni decrescenti” che, peraltro, il nostro conosceva benissimo.
La seconda parte della conferenza si concentra sulle conseguenze sociali di questo straordinario benessere.
In particolare, Keynes paventa il rischio che il rapido venir meno di preoccupazioni e necessità pratiche possa provocare dei “crolli nervosi” in molte persone.   Analogamente a quanto, secondo lui, stava già allora accadendo alle donne della buona borghesia occidentale.   Infelici perché la ricchezza le aveva private di divertimenti quali pulire, lavare, cucinare, accudire i figli.   (Senza nulla togliere al piacere di accudire una famiglia, mi piacerebbe sapere cosa pensasse di questo Lady Keynes).

Dunque, prosegue l’insigne economista, sarebbe stato necessario ancora per molto tempo mantenere un minimo di orario lavorativo. Suggeriva che, probabilmente, 3 ore al giorno sarebbero state sufficienti.
Ma annunciava anche cambiamenti ben più importanti!   Una volta che l’accumulo di denaro fosse stato tale da perdere la sua importanza sociale, l’umanità avrebbe finalmente potuto sbarazzarsi dell’ipocrisia con cui si esaltano come virtù i vizi peggiori.
“Saremo liberi di tornare ad apprezzare i principi religiosi e le virtù tradizionali.   Di tornare a considerare che l’avarizia è un vizio, che l’usura è un crimine, che l’amore per i soldi è detestabile.   Potremmo tornare a valorizzare gli scopi più dei mezzi e preferire il buono ed il bello all’utile.   Ad apprezzare le deliziose persone che sanno metter gioia nella vita propria ed altri.”
“Ma attenzione.   Tutto questo non ancora.   Per altri cento anni (dunque all’incirca fino ai giorni nostri) dobbiamo pretendere da noi stessi e dagli altri che il giusto sia sbagliato e viceversa perché l’errore è utile e il giusto non lo è.   Bisogna che avarizia ed usura continuino ad essere i nostri dei ancora per un poco, perché solo loro possono condurci fuori dal tunnel  del bisogno, alla luce del benessere.”

Secondo Keynes, la velocità di avvicinamento a questo bengodi sarebbe stata governata da quattro cose:  “La capacità di controllo della popolazione, la determinazione nell’evitare guerre e rivolte, la volontà di dare alla scienza una direzione propriamente scientifica, il margine di accumulo al netto dei consumi.”
A difesa di Keynes, bisogna dire che, a pensarci bene, qualche grossa guerra nel frattempo c’è stata.   E che la popolazione umana sia più che triplicata spiega sicuramente molti dei nostri attuali problemi. Ma chissà cosa direbbe oggi se potesse vedere dove la smodata avidità sta portando i pronipoti di cui vagheggiava?

Bellezza, ricchezza, benessere

Qualche giorno fa, tornando a casa in bici dall’ufficio, ho deciso di allungare un po’ e farmi un giro al parco degli Acquedotti. Complice un sole al tramonto, basso ed aranciato, le nubi grigie di pioggia sopra la testa, la luce aveva una qualità rara ed affascinate come di rado accade.

Sembra incredibile, ma dopo quasi trent’anni riesco ancora stupirmi di quanto sia bello questo posto, e di quanto poco i miei concittadini lo apprezzino: inutile dire che a godere di una tale meraviglia ero in pressoché “beata solitudo”. E nello stupirmi di tanta bellezza, e dell’effetto gratificante che mi stava regalando, non ho potuto fare a meno di inanellare un po’ di ragionamenti.

“Stare in un luogo bello mi fa star bene”, è stata la prima considerazione. A seguire il lessico stesso mi ha guidato, perché la definizione di una persona che “sta bene”, in italiano, è “benestante”. Un benestante senza un euro in tasca… strana definizione, eppure incontestabilmente esatta.

Ho quindi iniziato a ragionare sulla deriva del significato delle parole quando per troppo tempo se ne fa un uso improprio. La parola “benestante” è ormai associata al concetto di una persona ricca di denaro, come se il denaro comportasse ipso-facto lo star bene. Paradossalmente un ricco rimane, nel pensiero comune e nel lessico, “benestante” anche se vecchio e malato.

Un povero, invece, può stare benissimo, avere una salute di ferro, una vista perfetta, eppure nessuno/a gli riconoscerà questo suo “benessere”. In qualche caso si insegue a tal punto il possesso di denaro da finire col fare una vita orribile ed ammalarcisi: le parole che usiamo condizionano grandemente il nostro modo di pensare.

Alla bellezza, che pure ci fa star bene, non siamo in grado di assegnare alcun valore. Lo sono invece, forse un po’ più di noi, quei turisti che attraversano mezzo mondo per venire a vedere cose alle quali noi neppure facciamo più caso. Strano e perverso meccanismo!

Perfino i parametri che utilizziamo per definire il nostro benessere sono parametri unicamente monetari. Il P.I.L. (prodotto interno lordo) ci racconta soltanto quale massa di denaro si muova all’interno di uno stato, ed una delle voci che lo compongono è quella relativa alle spese mediche: più un popolo sta male, più sale il P.I.L., più lo stesso popolo si convince di stare bene!

Uscire da logiche collettive deliranti ed autodistruttive è la nostra sola speranza di salvezza, l’unica opportunità che abbiamo di vivere vite emozionanti e degne di essere vissute. Evitare di lasciarsi ingabbiare in circoli viziosi mentali diventa essenziale.

La scorsa settimana mi “avanzava” una mezz’ora di vita ed ho deciso di spenderla a pedalare al parco degli Acquedotti. E’ stata una scelta saggia, perché alla fine mi ha insegnato cose importanti: che sto bene, e sono quindi un benestante… che la bellezza è a mia disposizione, a due passi da casa… che sono ricco di cose che il denaro non può comprare…

O che, se non mi lascio troppo distrarre, posso perfino accorgermi di essere felice.