Oggi ho partecipato al primo incontro/scontro ufficiale sulle politiche della mobilità, nell’inedita veste di assessore municipale, in una discussione riguardante la riapertura della sede stradale conseguente alla chiusura di un cantiere della metro C a San Giovanni. In assenza dell’assessore comunale, non ancora nominato, mi sono fatto carico dell’ingrato ruolo di ‘portatore di eresie’.
All’interno di un consesso allargato di tecnici e funzionari, che discettavano di restringere marciapiedi ed eliminare attraversamenti pedonali in ossequio alla ‘domanda di mobilità’ (come se quella pedonale non fosse mobilità) determinata dal passaggio di centinaia di veicoli/ora, ho contrapposto la tesi che quella domanda non fosse altro che il prodotto di sistemazioni stradali atte a favorire lo spostamento in auto.
Ho aggiunto che all’estero si sta da tempo facendo il contrario, ovvero ridurre le sedi viarie per ridurre il traffico (la cosiddetta Road Diet). Ho realizzato, ad un certo punto, come dovette sentirsi Galileo Galilei di fronte al tribunale ecclesiastico, a sostenere la tesi che fosse la Terra ad orbitare intorno al Sole, anziché il contrario… checché ne dicessero le Sacre Scritture.
Alla fine mi sono convinto del sussistere di un equivoco di fondo tra cause ed effetti. Nella mentalità arcaica che ha prodotto le città che vediamo intorno a noi il traffico è la causa che muove le trasformazioni urbane: esiste una domanda di mobilità a motore che va omaggiata marginalizzando tutte le altre possibili opzioni.
Questa visione è profondamente sbagliata: il traffico non è una causa, è un effetto. È l’effetto di scelte collettive e personali, di sistemazioni urbane e della propaganda commerciale. È l’effetto cumulativo di una serie di risposte corrette ad una domanda sbagliata in partenza, ovvero: come faccio a spostarmi da un luogo all’altro in macchina.
Mikael Colville-Andersen suggerisce di rivedere il paradigma che ha animato il 20° secolo, ovvero: “come far muovere sulle strade il maggior numero possibile di automobili”, e considerare la questione nei termini di “come far muovere sulle strade il maggior numero possibile di persone”. Ragionando alla luce della seconda formulazione diventa evidente che la maniera di far muovere il maggior numero possibile di persone non può essere l’automobile privata, per un banale problema di occupazione di spazi.
Ora ci troviamo a dover cambiare completamente approccio, e ridisegnare da capo l’uso che facciamo delle nostre città. Altri paesi l’hanno già fatto, vedendo impennarsi verso l’alto gli indicatori della qualità della vita. Saremo in grado di farlo anche noi? Vale la pena tentare.
Concetto ineccepibile. Auguri sinceri di buon lavoro.
vale la pena certamente, non abbiamo altro modo
Bravissimo, non fa una piega.
Le città nelle quali IL PEDONE è il centro della mobilità sono quelle di gran lunga dove si vive meglio (vedi Berlino, ma attualmente è un miraggio).
Continua così, hai tutto il nostro appoggio di residenti bipedi e deboli!
il paragone con Galileo mi sembra perfetto. speriamo di riuscire a far passare la tua linea.
buon lavoro