Tutti gli articoli di Marco Pierfranceschi

Un Mammifero Bipede curioso del mondo.

Breve storia immaginaria di un paese inventato

C’era una volta, tanto tempo fa, un piccolo paese chiamato Svoglia. La vita in Svoglia scorreva mediamente felice se non fosse che gli abitanti, detti Svogliati, preferissero sistematicamente delegare, a chiunque si desse sufficiente pena di volerlo fare, la gestione del paese. Gli Svogliati, in sostanza, avevano come indole nazionale la convinzione che la comprensione del mondo fosse troppo faticosa, inessenziale e da evitare accuratamente.

Il paese, poco meno di un secolo prima, era uscito sconfitto da una brutta guerra (pur continuando a raccontarsi di averla vinta). Subito dopo la guerra aveva accettato denaro (ed una pesantissima ingerenza politica, militare e culturale) dal paese emerso vincitore del conflitto. L’opinione degli Svogliati era che la cosa più saggia da fare fosse seguire le orme dei vincitori, mutuare i loro usi e costumi e bollare come vecchia ed ammuffita tutta la propria tradizione popolare.

Seguirono anni molto felici segnati da una massiccia industrializzazione, dalla realizzazione di abitazioni più vivibili, dall’aumento del tenore di vita e da un forte incremento demografico. Tutto quello che appariva come “nuovo” veniva acriticamente esaltato, senza alcuna reale riflessione sulle conseguenze nel lungo periodo. Il propellente primo di tutto questo fervore erano le fonti energetiche fossili (petrolio), il cui sfruttamento, a tassi sempre crescenti, garantiva la possibilità di trasformare materie prime in manufatti da rivendere sui mercati interni ed esteri. Uno dei prodotti trainanti dell’industria manifatturiera di Svoglia furono le automobili, che gli Svogliati apprezzavano molto in tutte le loro funzioni: l’esibizione di aggressività e di status economico, l’eliminazione della fatica fisica e la possibilità di utilizzarle occasionalmente come alcove (che, in una cultura fortemente controllata dal clero, offriva una importante valvola di sfogo).

L’entusiasmo per il nuovo “oggetto dei desideri” entrò in sinergia con l’atavica abitudine degli Svogliati di non ragionare sulle conseguenze a lungo termine delle proprie scelte. Il risultato fu che la crescita dell’intero paese si modellò sul nuovo mezzo di trasporto. La rete stradale fu potenziata in modo da garantire a tutti la possibilità di muovere le proprie autovetture avanti e indietro. Interi quartieri e piccole città furono realizzati come strutture alveari prive di servizi essenziali, accessibili unicamente per mezzo di automobili. Il commercio si focalizzò in poche enormi strutture lontane dagli abitati dette “centri commerciali”. Il trasporto pubblico, soprattutto su ferro, fu abbandonato ad un lento declino.

L’adesione acritica nei confronti della nuova modalità di trasporto fu tale da produrre la convinzione diffusa che l’automobile fosse ormai “indispensabile”, ignorando l’evidenza che per millenni se ne era fatto benissimo a meno. Gli Svogliati subirono passivamente (quando non vi aderirono attivamente) la propaganda del comparto industriale legato alla produzione di automobili, alla raffinazione dei carburanti, ai servizi ad essa collegati, diventando succubi di un nuovo modello di auto-sfruttamento.

Ciò che gli Svogliati si rifiutavano attivamente di vedere era quanta parte del loro lavoro e delle loro fatiche contribuiva unicamente ad alimentare un meccanismo per cui alcuni quintali di ferraglia venivano quotidianamente spostati avanti e indietro solo per movimentare passeggeri del peso di poche decine di chilogrammi, in questo producendo malattie da sedentarietà, da inquinamento, da stress, congestione dei centri urbani, declino della vivibilità e distruzione su larga scala di risorse non rinnovabili.

Mentre altri paesi iniziavano la conversione a modelli di trasporto più sostenibili, gli Svogliati si incaponirono nell’errore. In parte ciò fu dovuto alla protervia con la quale le generazioni più anziane restarono abbarbicate alle proprie convinzioni e, parallelamente, alle leve del potere. A distanza di decenni, la gran parte delle cariche politiche, economiche e burocratiche del paese restava in mano a persone cresciute negli anni del “grande sviluppo” che, nei decenni successivi, avevano fattivamente ostacolato, ‘con ogni mezzo necessario’, il ricambio generazionale (o al limite promuovendo giovani portatori dei loro stessi valori). Il mantenimento delle leve del potere nelle mani di persone fisicamente debilitate dall’età contribuì alla fossilizzazione del modello di trasporto basato sull’auto privata, laddove in altri paesi erano state proprio le nuove generazioni, fisicamente ancora prestanti, a spostare la barra del timone in direzione di forme di mobilità attiva.

Gli Svogliati operavano, collettivamente, la sistematica negazione di ogni possibile alternativa alla propria condizione (un meccanismo ben noto alla psicoanalisi), proprio per alleviare la sofferenza derivante dal vivere in città soffocanti e disfunzionali. Come si può immaginare non andò a finir bene: man mano che le risorse energetiche non rinnovabili progredivano ad esaurirsi, l’intero modello economico su esse basato affrontò una inevitabile crisi. L’aumentare dei costi di estrazione e del declino dell’energia netta disponibile[1] provocò un picco dei prezzi del carburante, che non potè essere assorbito dalla capacità di spesa della popolazione.

Per un breve lasso di tempo diventò evidente quanto la diffusione dell’uso dell’auto privata dipendesse strettamente dai costi ad essa connessi, e quanto tale modello fosse incompatibile con un ulteriore aumento di tali costi. Una parte del comparto petrolifero scelse allora una strategia di abbattimento del prezzo al barile, per evitare di mandare in crisi l’intera organizzazione trasportistica mondiale (al prezzo non proprio trascurabile del collasso economico di alcuni paesi produttori, i cui costi di estrazione finirono con l’essere superiori ai prezzi di mercato). Ma il palliativo fu solo temporaneo, l’economia mondiale entrò in un lungo periodo di stasi. Dopo pochi anni il problema, inevitabilmente, si ripresentò.

Per gli abitanti di Svoglia questo rappresentò un brutto risveglio. I loro stili di vita, le loro abitudini, le loro intere città risultarono dipendenti da una modalità di trasporto dai costi non più affrontabili, sia in termini di carburanti, sia di costi di fabbricazione. Improvvisamente diventò evidente come l’intero sistema industriale dipendesse a doppio filo dalla trasformazione di grandi quantità di energia, disponibile fino a quel momento in forme quasi gratuite, in materie prime e manufatti. Venuta a diminuire la disponibilità energetica tutto iniziò a declinare.

Soprattutto iniziò a declinare la produzione di cibo, per decenni supportata da forme esasperate di sfruttamento dei terreni e dall’uso di fertilizzanti e pesticidi di origine industriale. Dovendo scegliere tra il morire di fame e l’abbandono della mobilità motorizzata, fu ben presto evidente l’inessenzialità della seconda. Con l’abbandono delle automobili anche la manutenzione di una rete stradale di fatto ipertrofica perse velocemente la propria utilità. Le città si ricompattarono, e molti dei quartieri extraurbani finirono abbandonati e demoliti, con grande rimpianto per i terreni fertili ormai irrimediabilmente perduti.

La nostra storia immaginaria di un paese inventato ha quindi un finale brutale, che racconta di un brusco risveglio. Gli Svogliati potranno ancora cavarsela, ma la loro attitudine collettiva ad ignorare le conseguenze delle proprie scelte ci fa temere per il peggio. Resta, a noi lettori, la consolazione di vivere in una realtà molto diversa. O forse no.

[1] In sostanza la sostenibilità di un modello di trasporto pesantemente energivoro come l’attuale dipende in senso stretto non tanto dalla disponibilità di risorse, quanto dalla quantità di energia netta disponibile. L’energia netta (EROEI) è data dal rapporto tra energia consumata nella produzione ed energia ricavata. Se questo rapporto è elevato (100:1 per il petrolio agli albori), il modello economico/sociale si organizza su consumi elevati e grande produzione di manufatti. Più il tempo passa, più le riserve maggiormente redditizie vengono sfruttate, lasciando solo quelle ad EROEI più basso. Ciò non comporta un immediato declino dello slancio produttivo, poiché il calo dell’energia netta è compensato in parte dall’infrastrutturazione precedentemente realizzata, in parte dall’innovazione tecnologica, in parte dalla messa a sistema di quantità crescenti di giacimenti a media resa. Ma sul lungo periodo il declino generalizzato dell’energia netta disponibile comporta inevitabilmente l’abbandono delle forme d’uso più esageratamente energivore in favore di quelle meno esose e più immediatamente utili, come la produzione di cibo.

 

La città del manuale e la città reale

Il lavoro di assessore alla mobilità mi sta mettendo di fronte ad una serie di contraddizioni generate proprio dalle normative per l’organizzazione degli spazi urbani. L’esigenza di trasformare quegli stessi spazi in luoghi adatti alla fruizione ed alla socialità, e non soltanto al transito ed alla sosta dei veicoli, confligge continuamente con normative che frenano ogni cambiamento e contribuiscono a definire le città alienanti e disfunzionali che sperimentiamo ogni giorno sulla nostra pelle.

Pochi giorni fa si è trasformato nell’ennesimo battibecco un confronto, in sede di conferenza dei servizi, sul nodo di intersezione tra due piste ciclabili, una esistente e l’altra da realizzare. La soluzione proposta per l’attraversamento dell’incrocio da parte del flusso ciclistico si presentava ai miei occhi come inefficace, comportando una perdita di tempo totalmente priva di senso per la necessità di attendere ben tre fasi semaforiche al fine di raggiungere il lato opposto.

Da ciclista ho imparato negli anni a muovermi attraverso una città totalmente priva di infrastrutture dedicate, quelle poche presenti mal realizzate. Ho imparato a considerarmi di volta in volta veicolo e pedone, e ad utilizzare gli spazi in maniere creative, volte alla ricerca del miglior compromesso tra le esigenze di sicurezza e di velocità negli spostamenti. A muovermi, in sostanza, in modi che i manuali, redatti da gente che non ha mai avuto familiarità con la mobilità ciclabile, non è nemmeno in grado di immaginare.

Per questo, come già avvenuto molti anni prima per una diversa ciclabile (quella di viale Palmiro Togliatti), ho fermato la presentazione in corso ed ho rappresentato la soluzione per me ottimale, tracciando una linea in diagonale attraverso il centro dell’incrocio, anziché percorrerne le due estremità, e realizzando l’intero attraversamento in un’unica fase semaforica, impiegando per il transito un tempo stimabile tra i cinque e i dieci secondi.

Inutile dire che ciò ha sollevato le immediate obiezioni dei progettisti che, oltre a sentirsi scavalcati nel loro ruolo, hanno iniziato a fare riferimento a norme e normette, leggi e leggine, del tutto incuranti di quanto disfunzionale e scarsamente fruibile, per non dire priva di qualsiasi appeal per l’utenza ciclistica, fosse la soluzione da essi proposta. O, peggio, del tutto incapaci di comprenderne i limiti.

Altrettanto vani i miei tentativi di fare appello al buonsenso, di far comprendere loro che un impedimento del genere avrebbe ottenuto soltanto di spingere i ciclisti ad attraversare l’incrocio in modalità diverse e più efficaci, rendendo di fatto inutile la sistemazione realizzata. Modalità per me tanto evidenti e preferibili, quanto bizzarre ed incomprensibili devono essere risultate per loro.

Il fatto è che in una città dove la presenza dei ciclisti non è mai stata presa seriamente in considerazione, in una città che risulta integralmente ostile e scarsamente fruibile al punto da obbligare il ciclista ad inventare, giorno per giorno, minuto per minuto, le scelte da operare per preservare la propria incolumità, in una simile città la presenza di infrastrutture ciclabili appare come un orpello. Se queste infrastrutture sono oltretutto anche mal disegnate, l’unico risultato che ci si può attendere è che la loro presenza non venga neppure presa in considerazione, che i ciclisti non ne registrino la presenza o, una volta sperimentata, la rimuovano immediatamente dalla propria memoria e dalle proprie abitudini.

Più in generale, questa vicenda racconta di un conflitto insanabile tra norme mal ideate ed uso reale degli spazi pubblici, viari e non. Se la città risulta un coacervo di veicoli incolonnati, in sosta vietata, ammucchiati in ogni spazio disponibile, se i flussi pedonali risultano discontinui ed ostacolati da ogni sorta di intralcio, se i ciclisti non hanno spazi protetti ad essi dedicati e fanno un uso creativo e totalmente discrezionale di quanto trovano di fronte a sé, il motivo è uno solo: le regole che ci siamo dati sono difettose, deficitarie, incoerenti ed, in ultima analisi, sbagliate.

A questo punto fare appello a quelle stesse regole dovrebbe apparire da sé non sufficiente a garantire il buon esito dell’intervento. Come il ciclista deve individuare da sé la modalità migliore per muoversi attraverso questo caos, così il progettista di sistemazioni urbane dovrebbe comprendere che è richiesto un surplus di intelligenza e buonsenso per ovviare alle carenze intrinseche della normativa corrente, dato che quella stessa normativa non è stata in grado fin qui di disegnare città vivibili.

Questa è, attualmente, la grande sfida del rinnovamento urbano: rileggere con occhio critico gli errori del passato ed essere in grado, sfruttando un corpus legislativo che non può essere ignorato, di disegnare spazi pubblici radicalmente diversi da quelli prodotti fin qui, aggiungendoci del proprio l’intelligenza ed il buonsenso di cui la legislazione attuale risulta carente. Una sfida che evidentemente non tutti possono essere interessati, o semplicemente motivati, ad affrontare.

Il conflitto per l’utilizzo delle strade

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Di chi sono le strade? Chi ha titolo di starci, di usarle? Quali utilizzi dovrebbero essere incentivati e quali limitati? Il dibattito su queste tematiche, nel nostro paese, è stato totalmente assente perlomeno da che ho memoria, diciamo l’intero ultimo mezzo secolo. Per questo motivo dovrò necessariamente partire da zero per sviluppare un excursus con minime pretese di senso compiuto.

Stando al corpus normativo le strade sono, almeno formalmente, spazio pubblico, quindi di tutti. Nessun cittadino dovrebbe avere a pretendere su di esse alcun diritto superiore ad altri. Questo, almeno, nella teoria. La pratica è, in realtà, ben diversa.

Nei contesti urbani la strada nasce fin dall’antichità come spazio di separazione tra le abitazioni. All’interno delle abitazioni si realizza l’ambito privato, mentre nello spazio tra le abitazioni si ha la dimensione pubblica, l’incontro, il confronto, lo scambio. Le strade, le piazze, rispondono ad un’esigenza innata dell’animo umano: la socialità.

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Nelle strade, nelle piazze, nasce la politica (da polis: città), perché solo in uno spazio pubblico le idee possono essere esposte alla popolazione, discusse, condivise, fino a trovare un consenso collettivo.

Nelle strade, all’aperto, si sviluppa il commercio al dettaglio, nascono i mercati, perché solo nello spazio pubblico, sotto gli occhi di tutti, si realizzano le condizioni più idonee a fare affari, sia per chi compra che per chi vende.

Nello spazio pubblico si realizza poi concretamente il senso di collettività, l’appartenenza di gruppo, di villaggio, di clan. Solo nello spazio pubblico si può arrivare a definire quali comportamenti ed azioni producano un miglioramento del benessere diffuso e quali, per contro, assecondino unicamente finalità egoistiche che nuocciano a gli altri.

Le strade, le piazze, gli spazi pubblici sono state questo, per millenni. Luoghi dove la popolazione commerciava, si radunava, dava luogo a cerimonie religiose, dove gli oratori arringavano le folle portando le proprie idee, dove i bambini giocavano, i giovani amoreggiavano, i mercanti commerciavano.

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Col passare dei secoli accade qualcosa che mette in crisi questo modello. Accadono più cose, in realtà. Possiamo elencare: la nascita delle nazioni moderne dalla frammentazione dell’Impero Romano, lo sviluppo delle città come sedi del potere militare, l’inurbazione legata al miglioramento delle tecniche agricole e di allevamento, ed infine la rivoluzione industriale, che stravolge i modelli di sussistenza di larghissime fette di popolazione.

Le città crescono in dimensione e complessità, e parallelamente crescono le esigenze di movimento all’interno delle stesse, nasce il trasporto collettivo, prima coi tram a cavalli, poi con quelli elettrici. Ma l’impatto realmente devastante si ha con la raffinazione del petrolio e la sua applicazione ad un mezzo di trasporto individuale: l’automobile.

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Il petrolio e l’automobile stravolgono completamente la forma delle città, e questo è più evidente nelle città del ‘nuovo mondo’, che sono cresciute senza un nucleo storico a fare da modello, ma influenza pesantemente la forma urbis di ogni città del globo terracqueo. Il petrolio fornisce quantità sconfinate di energia per animare i processi industriali, l’estrazione di materie prime, la produzione di cibo e la fabbricazione di oggetti.

D’un tratto l’occupazione principale dell’umanità passa dal farsi guerra reciprocamente al consumare il più in fretta possibile questa nuova risorsa, fabbricare oggetti di ogni forma e natura, nutrirsi meglio e godere di una ricchezza inimmaginabile per le generazioni precedenti.

Come impatta questo sulla forma città? In molti modi diversi. Più energia, più ricchezza, significano la possibilità di abitare in una casa propria, di possedere un’auto propria.

Se per generazioni la necessità era stata quella di una singola stanza, o anche solo di un letto in una stanza abitata da altre persone (senza andare lontano basta chiedere ai nonni, che ancora se ne ricordano), con l’avvento del consumismo si passa a desiderare un intero appartamento, sia per il nucleo famigliare, che per la coppia senza figli, che per il ‘single’. In qualche caso si arriva a possedere, oltre alla casa dove si abita, una seconda casa per le vacanze.

Questo fenomeno, da sé, produce l’esplosione delle periferie urbane, col risultato di aggravare altri problemi. Il primo fra tutti è che in queste città enormemente espanse le esigenze di mobilità aumentano esponenzialmente. Più persone devono spostarsi per raggiungere i luoghi di lavoro, o d’interesse, o del commercio.

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L’espansione della funzione abitativa non produce un equivalente decentramento delle altre funzioni della città, col risultato che masse di persone sempre più numerose sono ora costrette a muoversi frequentemente per tragitti progressivamente più lunghi.

Nell’immaginario collettivo l’unica soluzione possibile, e forse desiderabile, per far fronte a tale necessità diventa l’automobile.

Demonizzare l’automobile non è lo scopo di questo post. Rimane tuttavia necessaria una contestualizzazione degli esiti prodotti dall’utilizzo su larghissima scala di questo strumento, smontando le mitologie autoelogianti prodotte dalla massiccia e pervasiva propaganda, operata su un arco temporale di decenni, dall’industria dell’auto.

Cominciamo col dire che l’automobile è, del suo, un veicolo ingombrante. Questa realtà potrà non essere immediatamente percepita in una società ormai assuefatta al suo utilizzo, ma l’automobile occupa, abbastanza ingiustificatamente, molto più spazio di una persona che si sposti a piedi, ed occupa questo spazio, se parcheggiata in strada, anche quando non è in uso.

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La diffusione di massa di questo nuovo veicolo, agevolata da dinamiche economiche che ho spiegato in un precedente post ha modellato la crescita delle nuove urbanizzazioni e si è scontrata frontalmente con quelle più antiche.

Se nei nuovi quartieri lo spazio per l’auto di famiglia è stato ricavato, all’interno o all’esterno delle abitazioni (con garages e parcheggi all’aperto), nei centri storici delle città le sistemazioni preesistenti hanno impedito questo tipo di soluzione. Lo spazio per la sosta delle automobili è stato quindi ricavato disegnando parcheggi sulle sedi stradali, col risultato di restringere lo spazio destinato alla circolazione e marginalizzare le altre modalità di spostamento ed uso delle strade.

Man mano che la gran parte della popolazione si convertiva all’uso dell’automobile, questo innescava ulteriori problemi, primo fra tutti l’intasamento delle arterie stradali.

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Inevitabilmente, il trasferimento di buona parte della popolazione nei nuovi quartieri di periferia, e l’assenza di un reale piano di decentramento delle attività lavorative e produttive, ha finito col produrre flussi centripeti di cittadini automuniti in direzione dei centri città, e l’esigenza di destinare spazi sempre maggiori alla sosta di tali veicoli.

Un’ulteriore aggravante a tale situazione è risultata l’abitudine tradizionale al possesso della casa in cui si vive. Questo ha prodotto, nel corso degli anni, un irrigidimento delle abitudini abitative, cui non ha corrisposto un’altrettanta rigidità delle situazioni lavorative. Il risultato, sull’arco dei decenni, è che le distanze tra abitazioni e luoghi di lavoro sono mediamente aumentate, e con esse la necessità di spostarsi con mezzi propri.

Il trasporto pubblico ha sofferto in vario modo queste trasformazioni sociali. Le politiche che hanno favorito la motorizzazione di massa non potevano che svantaggiare l’utilizzo del trasporto collettivo, ben più efficiente in termini di persone trasportate e limitata occupazione del suolo pubblico. Nel tempo è stata proprio la crescita esponenziale del numero di veicoli in circolazione ad imprigionare gli autobus negli ingorghi e ridurne la velocità commerciale.

Il colpo di grazia, ad una situazione già del suo estremamente degradata, è stata l’idea che il traffico, per scorrere, dovesse essere “fluidificato”. Questo ha comportato l’ampliamento delle sedi stradali, la riduzione degli spazi pedonali (marciapiedi), la marginalizzazione di modalità di spostamento più lente (anche se molto meno voraci quanto ad occupazione di spazi) come le biciclette. Per lunghi anni si è lavorato ad aumentare la velocità di scorrimento delle automobili all’interno dei centri urbani.

Il risultato di queste politiche è sotto gli occhi di tutti. In primis si registra un aumento dell’incidentalità stradale e della gravità degli incidenti. Il problema degli ingorghi non è stato risolto, al contrario, la velocizzazione operata sulle arterie che danno accesso al centro città ha esasperato la quantità di veicoli che si imbudellano quotidianamente nelle vie storiche. L’assenza di qualsivoglia piano per la delocalizzazione dei parcheggi di superficie ha condotto alla saturazione degli spazi sosta esistenti ed alla pratica diffusa ed incontenibile della sosta in doppia fila.

Tutto questo ha portato guadagni enormi nelle tasche di pochi, ed esasperato la conflittualità urbana per il diritto a spostarsi ed utilizzare le pubbliche strade. Senza contare il fatto che lo spazio pubblico è stato pressoché interamente destinato ai clienti dell’industria dell’auto ed alle loro necessità, marginalizzando ogni possibile utilizzo alternativo.

Le strade si sono trasformate, lentamente e senza che ce ne rendessimo pienamente conto, da luoghi di incontro, socialità, gioco e commercio, in spazi destinati unicamente alla movimentazione ed alla sosta di automobili. Ogni altra attività che le aveva caratterizzate nell’arco dei millenni è stata resa per legge impossibile, impraticabile o troppo pericolosa.

La medicina per tale forma ormai conclamata di disagio psichico è una e una soltanto: ridurre i dosaggi di questa droga che sta uccidendo le nostre città e distruggendone la socialità. Non a caso è esattamente la direzione in cui si stanno muovendo le realtà europee più evolute.

Riduzione dell’uso dell’auto, riduzione degli spazi ad essa dedicati, riduzione delle direttrici di transito e liberazione dal traffico delle zone residenziali in primis. L’organizzazione della mobilità nelle città dovrà privilegiare il trasporto collettivo affrancandolo dall’imprigionamento negli ingorghi prodotti dai mezzi privati.

Parallelamente si dovranno ridurre tutte le facilitazioni all’uso ed al possesso di veicoli privati, dall’ampiezza delle carreggiate stradali alla disponibilità di spazi di sosta sul suolo pubblico, cercando di limitare per quanto possibili gli utilizzi non motivati da reale necessità.

Ridurre l’utilizzo diffuso di auto private comporterà prima di tutto benefici economici rilevanti. La sola spesa sanitaria legata all’incidentalità stradale ed ai danni sanitari direttamente imputabili all’uso di automobili è nell’ordine di 1000€ l’anno a testa, mentre i costi annui di possesso ed utilizzo delle automobili sono nell’ordine di 6/7000€ a veicolo.

La semplice sostituzione dell’auto di proprietà con un abbonamento a servizi di auto condivise (car-sharing), unito ad un abbonamento annuale al trasporto pubblico, comporterebbe un abbattimento di tali costi ed un rientro in circolo nell’economia locale di ingenti flussi economici.

Sul lungo periodo le strade smetteranno di essere parcheggi a cielo aperto e/o trappole potenzialmente mortali ad ogni attraversamento, e ridiventerebbero spazi delegati all’incontro ed alla socialità, dove sedersi a sorseggiare una bibita, guardare i bambini giocare a palla, leggere un libro, sfidare a carte gli amici, cenare all’aperto o corteggiare un/a potenziale partner.

Niente di più, o di meno, di quello che sono state per secoli, prima che decidessimo di riempirle di automobili e finire col dimenticarci a cosa servissero.

Il mondo A, il mondo B

Il mondo A e il mondo B orbitano uno intorno all’altro, si osservano reciprocamente coi telescopi ma hanno sviluppato civiltà completamente diverse. Nel mondo A gli abitanti ragionano in anticipo sulle complicazioni che potrebbero generarsi dall’adozione di nuovi comportamenti ed abitudini, modellando le leggi in base ai risultati desiderati. Nel mondo B si lasciano andare le cose un po’ a casaccio, confidando che si assesteranno da sé (come un illuminato filosofo ha teorizzato secoli prima). Il mondo A è regolato, il mondo B è ‘libero’.

Nel mondo A i governanti hanno seguito attentamente l’avvento dell’automobile privata. L’analisi del trend di occupazione di spazi pubblici da parte dei nuovi veicoli ha mostrato una progressione preoccupante. Uno studio dell’Università Mondiale ha dimostrato che, ai tassi attuali di crescita, tutto lo spazio pubblico nelle città sarebbe stato occupato nel volgere di pochi decenni, al punto che nessuno più sarebbe stato in grado di muoversi per pura e semplice mancanza di spazi sulle strade.

Nel mondo B l’automobile viene accolta con spontaneo entusiasmo. Le pubblicità delle case automobilistiche promettono libertà illimitata agli acquirenti dei veicoli, status sociale, eleganza e successo. L’idea di porre dei limiti al possesso ed all’utilizzo di tali mezzi viene strangolata nella culla dall’opportunismo delle classi politiche e dal timore di perdere consensi. L’intera organizzazione urbana viene piegata alla volontà popolare, manipolata dal bombardamento pubblicitario, ed orientata ad offrire ogni spazio possibile alla movimentazione ed alla sosta dei veicoli privati.

Il mondo A attiva pertanto politiche di regolazione e limitazione sull’uso delle strade. Il numero di spazi destinati alla sosta viene contingentato in base alla popolazione residente, la sosta a tempo indefinito in strada viene vietata e come condizione obbligata per l’acquisto di una nuova autovettura viene imposto il possesso di un’area privata (box o parcheggio condominiale) dove posteggiarla quando non è in uso. Il numero complessivo delle autovetture vendute si stabilizza su cifre estremamente basse.

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Nel mondo B la sosta in strada è consentita senza limitazioni, al punto che gli abitati finiscono col considerarla un diritto inalienabile. Col progressivo aumentare della ricchezza, un numero sempre maggiore di autovetture viene lasciato in sosta sulle strade, restringendo le carreggiate ed eliminando ogni possibilità di sosta temporanea. Col passare degli anni si inizia progressivamente a tollerare la sosta temporanea in doppia fila, sugli attraversamenti, sui marciapiedi, e considerata dai più non evitabile, il risultato è una ulteriore congestione delle sedi stradali, un rallentamento complessivo dei flussi di traffico e l’estrema frequenza di ingorghi. Questo induce negli abitanti un senso di frustrazione, sfogata sotto forma di stili di guida aggressivi.

Nel mondo A, grazie alle sedi stradali non congestionate, i mezzi pubblici scorrono alla velocità commerciale ottimale, trasportano in poco spazio molti passeggeri, sono veloci, efficienti e puntuali. Un’efficienza tale da far sì che molte famiglie non abbiano necessità di possedere un’automobile.

Nel mondo B i mezzi pubblici sono fortemente penalizzati dall’esiguità delle sedi stradali, dalla sosta d’intralcio in doppia fila, dalla pura e semplice congestione delle strade. Le dimensioni di tali veicoli li rendono svantaggiati nei confronti delle più veloci e scattanti auto private, penalizzati nella competizione per lo spazio stradale che si fa di giorno in giorno più aggressiva. Di pari passo con la perdita di efficienza del trasporto pubblico si ha la migrazione degli abitanti in direzione del trasporto privato, che viene percepito come l’unica maniera efficiente di muoversi da un punto all’altro della città. L’abitudine ad utilizzare sempre e soltanto l’auto privata fa sì che si perda una precisa cognizione delle potenzialità dell’offerta pubblica, con un progressivo calo dell’utenza e l’impossibilità di giustificare i costi di gestione a causa dello scarso utilizzo. Nel corso degli anni vengono quindi smantellate le forme di trasporto ad alta efficienza in sede propria (tram, treni) per fare ulteriore spazio alla movimentazione delle auto private.

Nel mondo A, non essendo garantita a priori la possibilità di spostarsi ovunque con mezzi privati, le nuove edificazioni devono rispondere a standard urbanistici estremamente rigidi. Le infrastrutture di mobilità vengono progettate contestualmente agli edifici, in modo che a breve distanza da ogni abitazione sia presente un efficiente nodo di scambio col trasporto pubblico, e che le esigenze di mobilità dei futuri abitanti non motorizzati non siano penalizzate.

Nel mondo B si costruiscono case, palazzi, complessi residenziali, intere urbanizzazioni senza la minima progettualità su come i futuri abitanti dovranno poi muoversi. Spesso le nuove urbanizzazioni finiscono a ricasco della rete viaria, già satura, di altri quartieri, prolungando i tempi di accesso alla viabilità principale e paralizzando completamente il già sofferente trasporto pubblico. L’assenza di pianificazione delle modalità di spostamento produce quartieri dormitorio, privi dei servizi sociali e culturali essenziali, che obbligano i residenti ad un continuo viavai in automobile, da un quartiere all’altro, da un ingorgo al successivo.

Nel mondo A le attività produttive devono ragionare la propria collocazione in base alle esigenze di mobilità dei propri dipendenti. Sono obbligate a rendere disponibile uno spazio di sosta per ogni singolo dipendente che pervenga con l’auto privata perché, come già detto, la sosta sulle sedi stradali è vietata, ma devono anche tener conto che molti potenziali dipendenti non possiedono un’auto, e se vogliono accedere alle migliori eccellenze del settore non possono collocarsi troppo lontano dai nodi del trasporto pubblico. Questo fa sì che le attività produttive siano in genere collocate in zone facilmente raggiungibili anche senza bisogno di automobili.

Nel mondo B, la modalità con la quale i dipendenti raggiungono il posto di lavoro non è un problema degli imprenditori. Dato per scontato che tutti si possano muovere in macchina, le attività produttive orientano la scelta della propria collocazione in base ad altre priorità, come i bassi costi dei terreni e/o degli uffici o gli incentivi pubblici per le aree depresse. In questo modo vengono privilegiate aree lontane dagli abitati. Il risultato è che costi e tempi di percorrenza (traducibili in ore di vita) vengono scaricati con la massima tranquillità sulle spalle dei dipendenti, che sono obbligati a provvedere da sé al raggiungimento di luoghi di lavoro spesso lontanissimi dalle abitazioni, con costi familiari poco percepiti e contribuendo all’ulteriore intasamento della rete stradale.

Nel mondo A l’aria è scarsamente inquinata, la maggior parte delle persone si sposta velocemente su mezzi pubblici elettrici (treni, metropolitane, tram), o veicoli privati leggeri (biciclette tradizionali ed a pedalata assistita), risparmia sui costi del possesso di un’automobile privata senza subire penalizzazioni alla propria vita sociale, culturale e relazionale. Le strade relativamente sgombre consentono all’esigua minoranza che si sposta ancora con l’auto privata di avere tempi certi di spostamento, senza lo stress degli ingorghi ed il rischio di non arrivare in orario. Questo produce stili di guida più rilassati, velocità più basse e maggior attenzione alla sede stradale, col corollario di una minor incidentalità, che a sua volta si traduce in minori costi collettivi per la spesa sanitaria.

Nel mondo B le strade sono un luogo di perenne conflitto: tra automobilisti, tra automobilisti e pedoni, tra automobilisti e ciclisti. Lo spazio delle sedi stradali è conteso tra i veicoli che lo usano per muoversi e quelli che vi devono sostare temporaneamente per svolgere le proprie commissioni. Si registra un’elevata incidentalità, malattie da stress, da sedentarietà, aggressività diffusa e disagio sociale. Il tutto è aggravato dall’enorme drenaggio di risorse economiche prodotto dal possesso di auto private, pari ad un quarto di quanto mediamente guadagnato da ogni lavoratore dipendente, dalla perdita di ore di vita e lavorative quotidianamente spese ad annaspare nel traffico, dalla frustrazione, dai costi collettivi e sociali di tale modello.

Ora il mondo B osserva coi telescopi il mondo A. Gli abitanti del mondo B vedono che sul mondo A tutto funziona, ma non riescono a comprendere come tutto ciò si sia prodotto, nel tempo. Colgono l’esteriorità di uno stile di vita più funzionale, più felice, meglio organizzato, ma non sono in grado di guardare con distacco ai propri errori, alle proprie contraddizioni, che anzi in molti continuano a giustificare nel meccanismo psicologico noto come ‘negazione’. Nessuno vuole ammettere di essere compartecipe del disastro collettivo, ed ognuno cerca un capro espiatorio cui accollare tutte le colpe. In ultima istanza, nel mondo B ogni abitante pretende che il cambiamento inizi da qualcun altro che non sia sé stesso, additando di volta in volta soluzioni inefficaci pur di continuare a mantenere le proprie abitudini, inevitabilmente sbagliate.

Nel mondo B, anno dopo anno, decennio dopo decennio, non si registra alcun cambiamento.

(l’idea per questo post deve un enorme un tributo al romanzo “The Dispossessed”, della scrittrice americana Ursula K. Le Guin)

L’errore evolutivo

Charles-Robert-Darwin

Torno dopo molto tempo e, purtroppo per i lettori, stavolta il post è su un argomento strettamente filosofico, di quelli che raccolgono pochissime letture e condivisioni. Nondimeno la sensazione che ho è quella di aver toccato uno dei ‘grandi temi’: il ruolo dell’intelligenza umana nello schema generale delle cose.

Fino a non molto tempo addietro mi è capitato di sollevare il dubbio che l’intelligenza umana non fosse altro che un errore del processo evolutivo. Era poco più che un’intuizione, che ora proverò a sostanziare. Inevitabilmente dovrò partire da una descrizione generale dei processi vitali.

Quella che chiamiamo ‘vita’ è, in estrema sintesi, un processo in cui molecole autoreplicanti, a diversi gradi di complessità, competono per le risorse disponibili. Le forme viventi, fin dalle più semplici, si nutrono di altre molecole, organiche ed inorganiche. Questo processo, in larga misura cannibalistico, comporta un progressivo aumento della complessità.

Se osserviamo la biosfera nel suo complesso quello che vediamo sono forme di vita che si nutrono di altre forme di vita, un processo che si nutre principalmente di se stesso, alimentato dall’energia radiante gentilmente fornitaci dal nostro Sole. All’interno di questo meccanismo di creature che si nutrono di altre creature si produce nel tempo quella che Darwin definì ‘selezione naturale’, gli individui più efficienti hanno maggior probabilità di sopravvivere e riprodursi: ciò innesca il processo evolutivo.

Ora, il punto è questo: finché il processo non coinvolge l’intelligenza, quello che osserviamo è un progressivo incremento della quantità di biomassa e della biodiversità. Finché gli esseri viventi si limitano a competere fra loro per le risorse, il processo produce spontaneamente un aumento della biomassa complessiva ed il progressivo sequestro delle sostanze (atomi, molecole, prodotti chimici complessi) nocive per la vita stessa.

Questo perché i processi biologici comportano di per sé, spontaneamente, una trasformazione degli habitat in luoghi favorevoli alla vita. Le sostanze tossiche o inquinanti vengono o metabolizzate e scomposte, o allontanate dai luoghi dove i processi vitali si svolgono, seppellite, precipitate come sali neutri, rese innocue. E ciò semplicemente procedendo in via egoistica, semplicemente lasciando che ogni singolo individuo, animale o vegetale, persegua il suo personale benessere metabolizzando quello che ha intorno a sé.

Cosa avviene, dunque, con l’avvento dell’intelligenza? Questo ciclo virtuoso si interrompe, dal momento che le esigenze di benessere individuale (e collettivo) coincidono col rimettere in circolo veleni e sostanze tossiche da lungo tempo sepolte e sequestrate. L’intelligenza, per mezzo dello sviluppo della tecnologia, scava dal terreno gli idrocarburi sepolti per rilasciare, a seguito della combustione, CO2 nell’atmosfera, scava dal terreno metalli radioattivi a bassa intensità e con essi, per mezzo della fissione nucleare, produce ulteriore radioattività.

L’incapacità dell’intelligenza umana di riconoscere la propria appartenenza ai processi biologici, anzi, molto spesso il rifiuto categorico di questa elementare verità, immobilizzato e trasmesso attraverso i libri sacri, fa sì che la fase terminale del processo di industrializzazione coincida con una devastazione senza precedenti della biodiversità a livello globale.

In questo contesto, i processi innescati dall’intelligenza umana differiscono profondamente da quanto prodotto dall’evoluzione lungo l’intero arco temporale dallo sviluppo della vita sulla Terra. Credo perciò che questo possa dimostrare la tesi iniziale, ovvero che lo sviluppo dell’intelligenza rappresenti un cambio di paradigma che dirotta drasticamente i processi biologici dalla linea seguita con continuità nelle ere geologiche precedenti.

Se questo possa essere considerato un errore di percorso cui rimediare, a pena di un’estinzione massiva di specie viventi, ivi inclusa quella portatrice di intelligenza, o semplicemente un necessario incidente di percorso cui farà seguito un assestamento che non comporterà la scomparsa dell’intelligenza dal pianeta, ad oggi è cosa impossibile da stabilire.

L’ideologia dei consumi

quino(post originariamente pubblicato sul blog Mammifero Bipede)

Facendo seguito alla riflessione iniziata una settimana fa, sento la necessità di approfondire la questione delle ideologie, per comprendere il potere che hanno su di noi e quanto profondamente influenzino le scelte della società attuale. La nostra percezione della realtà è infatti in larga parte frutto di una stratificazione di ideologie, non di rado fra loro contrastanti, che la nostra cultura ha ereditato dai secoli precedenti.

Per circoscrivere l’ambito del ragionamento cominciamo col dare una definizione di ideologia. Stando a Wikipedia ‘L’ideologia è il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale’. L’ideologia è, in base a questa definizione, l’architettura mentale all’intero della quale il nostro cervello colloca gli avvenimenti per potergli attribuire un ordine ed un senso.

Storicamente l’esigenza di possedere una ‘visione del mondo’ globale emerge in parallelo allo sviluppo del cervello umano, all’aumentata capacità di raccogliere e ricordare informazioni, eventi, situazioni, alla necessità di prendere decisioni ed orientare scelte.

La più antica forma di ideologia è con molta probabilità il pensiero religioso, nato per dar conto della quantità di eventi inspiegabili ed incomprensibili cui i nostri antenati erano soggetti (oltre a dar sollievo alla già discussa angoscia della morte). Il pensiero religioso attribuisce gli eventi inspiegabili all’intervento di entità soprannaturali come divinità, angeli e demoni, narra la nascita del mondo e la sua fine, detta comportamenti corretti e minaccia ritorsioni ‘nell’aldilà’, o sventure accidentali, a chi non vi ottempera.

Le religioni costituiscono una prima forma di interpretazione globale dell’esistente. All’interno di un unico sistema di idee viene dato conto dell’esistenza del Mondo e vengono fornite le istruzioni di base per relazionarsi reciprocamente (codificate, per le religioni di origine biblica, nei famosi Dieci Comandamenti). Un sistema di idee che necessariamente coinvolge il concetto di ‘giustizia’, elemento chiave per la gestione delle dispute tra singoli individui e tra individui e gruppi.

Man mano che le popolazioni crescono numericamente, migrano e si espandono, mescolando fedi e credi, l’elaborazione dell’idea di giustizia si svincola formalmente dalla dimensione teologica producendo codici di leggi atti a regolare i rapporti tra i singoli, tra i gruppi, su su fino alle sovra-entità, come le città stato o le prime piccole nazioni. Tuttavia la legge umana non può ancora, in questa fase, mancare di discendere da quella divina, producendo l’avvento delle religioni di stato, dotate dell’autorità di designare imperatori e re.

Le religioni hanno di fatto dominato il mondo fino a tempi relativamente recenti, articolandosi, differenziandosi, e dotandosi di diversi sistemi di leggi in base alla complessità delle strutture sociali e statali realizzate dai popoli ad esse sottomessi. Gli ultimi secoli, tuttavia, hanno visto l’avvento di un sistema di idee completamente diverso.

Il ‘pensiero scientifico’ è un’ideologia relativamente recente che afferma la conoscibilità dell’Universo per mezzo dell’osservazione, avendo cura di eliminare gli errori introdotti dalla soggettività dell’osservatore. così facendo ha imposto una brusca accelerazione alla comprensione del mondo, svincolando la realtà fattuale dall’intervento di entità divine e mettendo in crisi l’autorevolezza delle religioni preesistenti.

Tuttavia il metodo scientifico presenta un margine di incompletezza che non gli consente di rimpiazzare interamente le religioni. Il suo campo di applicabilità si limita alla definizione di ‘come’ i fatti avvengano, mentre l’animo umano è costantemente alla ricerca di risposte alla domanda: ‘perché’.

Perché esistiamo? Perché dobbiamo gioire e soffrire? Perché adesso? Perché noi e non altri? L’animo umano si dibatte fin dalla notte dei tempi per trovare una propria collocazione all’interno del quadro degli eventi. Le risposte che il pensiero scientifico è in grado di produrre non riescono a soddisfare questa domanda di identità e di senso, semmai la negano.

La scienza ci ha fornito strumenti straordinari per la manipolazione del mondo: motori, macchine, sistemi di trasporto merci, rilanciando massicciamente un’ideologia di dominio già propria degli imperi dell’antichità. Basata, al pari delle religioni, su assunti indimostrabili, ma capace di conferire ricchezza e potere mai visti prima.

Detronizzate le religioni dal loro pulpito e nell’incapacità, da parte del pensiero scientifico, di offrire orientamenti di ordine etico, l’umanità ha abbracciato l’idea che lo sfruttamento del Mondo fosse il proprio destino manifesto inventando l’ideologia del progresso (la cui declinazione economica è detta ‘teoria della crescita indefinita’). Un’apologia dell’avanzamento tecnologico che ha prodotto nel tempo ricchezza, prosperità ed una superiorità militare tale da imporre la propria volontà al resto del mondo.

Perché, va detto, il successo o l’insuccesso di un’ideologia dipende strettamente, molto più che dalla logica e verosimiglianza degli assunti, dai vantaggi immediati e di medio periodo che l’ideologia stessa è in grado di garantire dapprima ai singoli individui, ed al crescere del fattore di scala ai gruppi sociali che la abbraccino.

Detto in poche parole l’attuale ‘crescita dei consumi’ è consistita sostanzialmente nella conversione di fonti energetiche fossili, materie prime minerali, suoli fertili e risorse generalmente non rinnovabili in cibo e manufatti di breve durata, che dato il velocissimo tasso di sostituzione trovano rapidamente la strada della discarica, trasformandosi, al termine di un ciclo di vita estremamente rapido, in rifiuti velenosi o tossici.

L’ideologia del progresso ha plasmato gli ultimi tre secoli di storia umana producendo un’accelerazione senza precedenti nel consumo di risorse, nell’aspettativa di benessere, nella trasformazione (distruzione) di ecosistemi, nella generazione di sostanze inquinanti ed un parallelo, drammatico, declino della biodiversità.

Se l’Universo non appartiene più a Dio, l’uomo si sente autorizzato a farne ciò che vuole. L’ideologia del progresso ha, in ultima istanza, deresponsabilizzato l’umanità facendo leva sull’avidità e sul tornaconto immediato. L’intera società moderna, l’organizzazione delle città, il sistema dei trasporti basato sulle automobili private, i meccanismi disumani di produzione industriale di merci e cibo, la sovrappopolazione, sono tutte filiazioni di questo miraggio infondato ed indimostrabile.

In ultima analisi il pensiero scientifico ci ha fornito strumenti senza precedenti per la comprensione della realtà fisica, ma nel contempo ha mancato di produrre un’architettura etico/morale in grado di gestire le trasformazioni da esso stesso innescate, scoperchiando un colossale Vaso di Pandora capace di attentare all’esistenza stessa del mondo come lo conosciamo.

È proprio all’interno di questo quadro che si può fotografare il momento attuale: un’umanità affascinata dall’ideologia del consumo fine a se stesso, egoistico e deresponsabilizzante, che finisce col consumare, in ultima istanza, senza inibizioni o freni di natura etico/morale, gli individui che ne fanno parte, le loro vite ed il mondo intero.

Ideologie, utopie ed altri fantasiosi costrutti

(post originariamente pubblicato sul blog Mammifero Bipede)

Da tempo ragiono di scrivere sulle ideologie, o meglio su quanto il nostro modo di pensare e di relazionarci agli altri ed al mondo dipenda da esse. Parafrasando un celebre aforisma di Ascanio Celestini (che l’autore dedica al razzismo): “le ideologie sono come il culo, puoi vedere quello degli altri ma non sei in grado di vedere il tuo”.

Di fatto le ideologie semplificano una realtà complessa rendendola in qualche modo gestibile, il problema è che facilmente descrivono un quadro sbagliato. Le ideologie sono, tipicamente, delle proiezioni di sé: si abbracciano perché rappresentano il proprio sentire ed il proprio modo di relazionarsi agli altri, molto spesso quello che abbiamo appreso con l’educazione.

Così, ad esempio, se siamo cresciuti nella convinzione che la cooperazione sia eticamente superiore alla competizione abbracceremo preferibilmente un’ideologia “di sinistra” teorizzante l’uguaglianza tra gli uomini, mentre se siamo stati allevati in un contesto culturale dove a dominare è la competizione saremo più facilmente sedotti da un’ideologia “di destra”.

Poi arrivano gli antropologi e fanno piazza pulita di tutti i costrutti ideologici elaborati nel corso dei dieci, quindicimila anni di quella che chiamiamo civiltà (termine che dal punto di vista etimologico sancisce solo il passaggio culturale che da popolazioni nomadi ci ha reso stanziali ed inurbati), riportandoci alle radici di quello che è la condizione umana.

Riguardo al lavoro di Jared Diamond ho già avuto modo di dilungarmi in passato parlando di Armi, acciaio e malattie e di Collasso. In questo suo ultimo lavoro (2012) lo studioso mette su carta una vita di ricerche partendo dalla domanda “Cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?” La prima risposta che mi viene da dare è: a demolire le ideologie.

Uno dei primi argomenti trattati nel volume riguarda la guerra, termine che solitamente associamo ai conflitti tra nazioni e normalmente non ci verrebbe da associare agli scontri tra piccole tribù. Diamond dimostra come il concetto di conflitto armato tra gruppi umani sia facilmente scalabile ai piccoli aggregati, e non sia improprio associarlo agli scontri tra tribù, gang rivali o cartelli per il controllo di produzione e traffico di droga.

La guerra, il conflitto, è una condizione pressoché costante nelle relazioni tra gruppi umani confinanti, perfino tra tribù che normalmente intrattengono rapporti commerciali ed hanno scambi che coinvolgono relazioni parentali (mogli o mariti che si trasferiscono da un gruppo all’altro). Le guerre, piccole e grandi, prendono il via da situazioni pregresse, insoddisfazione, torti subiti, dispute territoriali, e coinvolgono dalle poche decine di individui ad intere coalizioni di tribù.

La natura non gerarchica dei piccoli aggregati umani rappresenta in questo caso un limite, perché non esistendo capi dotati di reale potere (ma solo di una ‘autorità morale’) non c’è modo di imporre la cessazione delle ostilità alle “teste calde”, col risultato che le faide si propagano, con momenti di diversa violenza ed intensità, nel corso degli anni, fino a diventare endemiche.

Le modalità dei conflitti variano in base alla numerosità delle popolazioni coinvolte, siano esse piccole tribù, nazioni disperse identificate dalle etnie, città stato, imperi o nazioni moderne, ma il dato comune che emerge è che a giustificare il conflitto c’è la possibilità di ottenerne un vantaggio, quindi l’equilibrio tra guerra e pace è determinato dalla disponibilità di risorse.

Tipicamente, nota Diamond, le popolazioni che vivono in un regime di sussistenza precaria in habitat poveri di risorse non hanno vantaggi ad intraprendere relazioni conflittuali e tendono ad intrattenere coi vicini piccoli scambi commerciali che non sfociano in gesti violenti. Per contro gruppi umani stanziati in regioni ricche di risorse finiscono col sovrappopolare il proprio areale e ad entrare in conflitto con le popolazioni circostanti.

La guerra funge da meccanismo di riequilibrio demografico, riducendo le popolazioni in eccesso ed operando una redistribuzione delle risorse fra i superstiti, in attesa di un nuovo ciclo di abbondanza, seguito da aumento della popolazione, quindi crisi, conflitto per le risorse, ad libitum.

In quest’ottica le grandi ideologie del ventesimo secolo perdono il terreno su cui appoggiano: la guerra, la violenza, non sono più caratteristiche indesiderate dell’animo umano ma semplicemente reazioni istintive alla situazione contestuale, non già una questione di organizzazione sociale di un tipo o dell’altro. Organizzazione sociale che, se può influenzare la redistribuzione delle risorse, ha un controllo molto relativo sulla loro disponibilità.

La grande domanda di sempre, se gli esseri umani siano intrinsecamente ‘buoni’ o ‘cattivi’, trova quindi una risposta. La risposta è: entrambi. Gli esseri umani diventano pacifici o violenti a seconda della situazione contingente, contengono in sé il germe del bene e del male, ma le molle scatenanti sono al di fuori di essi, per quanto le ideologie che abbracciano possano spingerli in una direzione o nell’altra.

Questo mette la definitiva pietra tombale a molte ideologie, e sancisce il mio definitivo abbandono dell’ideale anarchico. Se fin qui ho sempre pensato che l’anarchia fosse il miglior metodo possibile di autogoverno ‘ma non con l’umanità attuale’, ora ho ben chiaro che l’umanità non potrà mai essere diversa dall’attuale senza diventare altro, un qualcosa che non saprei immaginare, un qualcosa che potrebbe non esistere mai.

Se quello che siamo, pur deformato da quindici millenni di cosiddetta civiltà, è il risultato di un processo evolutivo, in tal caso un’umanità differente, in grado di elaborare diversamente l’aggressività intra ed interspecie, avrebbe gli stessi vantaggi competitivi? Sarebbe in grado di sopravvivere?

Darwin ci direbbe di no, spiegando che la Natura ha selezionato il tipo umano più funzionale alla sopravvivenza, e che quel tipo umano siamo noi, con la nostra carica di aggressività. Sorge il dubbio che il desiderio tanto sbandierato di un mondo pacifico e felice sia anch’esso un semplice costrutto ideologico, assolutamente non calzante con la realtà.

Le società tradizionali hanno alle spalle millenni di elaborazione di forme di equilibrio con l’ambiente dal quale traggono sostentamento, equilibrio che comprende conflitti, infanticidio, in diversi casi cannibalismo (per far fronte a carenze proteiche). Per contro la nostra cultura, che pretende di imporre le proprie idee ed ideologie, è l’apoteosi del disequilibrio, dell’insostenibilità, della distruzione progressiva di risorse e suolo fertile, della sovrappopolazione di qualsiasi habitat senza alcun piano di rientro.

Non posso che concludere con la frase di Goya (nella rilettura pubblicata su Scripta Manent): il sogno della ragione genera mostri. Non il sonno, come la frase viene solitamente tradotta, bensì il sogno, la pretesa che l’intelletto possa piegare la realtà alle proprie cervellotiche elucubrazioni, costruendo modelli sociali che si rivelano poi inadeguati a gestire la complessità ed ambiguità dell’animo umano. Ed ancor meno la salute della biosfera e dell’intero pianeta.

Il conto della serva

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Nel dibattito sulle infrastrutture per la ciclabilità raramente si discutono i motivi alla base della loro realizzazione. In un paese abituato ad affrontare i problemi reali con lo stesso approccio riservato alle discussioni sul calcio è, purtroppo, ormai abituale assistere alla contrapposizione di opposte tifoserie. Tra i favorevoli, ovviamente, i ciclisti, dall’altra parte gli automobilisti, in una guerra di posizione tesa a difendere il territorio conquistato, che sia spazio urbano o la priorità nell’assegnazione di fondi pubblici.

Se però guardiamo un attimo fuori dal ‘paesone Italia’ e proviamo a ragionare con la testa degli altri, ci rendiamo immediatamente conto delle reali argomentazioni a favore delle sistemazioni ciclabili e dell’uso della bicicletta, soprattutto nei contesti urbani. Per meglio contestualizzare il quadro complessivo farò un passo indietro e ragionerò sui motivi che hanno portato, in passato, ad investire così tanto sul trasporto automobilistico.

Negli anni del primo dopoguerra la priorità era risollevare il paese dalle devastazioni prodotte dalla seconda guerra mondiale e saltare in fretta sul ‘carro’ della crescita economica. L’Italia aveva un importante comparto meccanico/industriale che andava rimesso in moto ed un’industria petrolifera nazionale, oltre ad un territorio ancora per larghi versi mal collegato. In questo contesto promuovere l’utilizzo dell’automobile servì a ridare al paese la spinta, anche ideale, necessaria a dar vita al boom economico degli anni ’60 ed entrare a testa alta a far parte del mondo industrializzato.

Parliamo però di qualcosa come sessant’anni fa. In questi sei decenni la situazione è profondamente mutata. L’automobile, da sogno di libertà, si è trasformata in un insaziabile divoratore dello spazio urbano, fino al punto da saturare la rete viaria e produrre ingorghi e rallentamenti. Parallelamente a questo si è divenuti via via consapevoli del rovescio della medaglia, rappresentato da inquinamento, sedentarietà, incidentalità. Tutto questo mentre l’industria petrolifera nazionale perdeva terreno e la produzione di automobili si spostava all’estero, inseguendo l’opportunità di salari più bassi e privando il paese di un essenziale ricircolo di ricchezza. La mobilità a motore, col passare del tempo, si è trasformata per la collettività da risorsa a costo sociale.

Quello che, in tempi più o meno recenti, hanno fatto in Olanda, Germania, Danimarca, è stato darsi degli strumenti per contabilizzare quale ritorno per la collettività producano gli spostamenti in macchina. Su un piatto della bilancia c’è l’indotto fiscale derivante dalla vendita di automobili (vetture ed accessori), carburanti, assicurazioni, che rappresentano una buona fetta del PIL nazionale. Sull’altro piatto ci sono i costi di sviluppo e manutenzione della rete viaria e dei servizi connessi, i costi sanitari dell’incidentalità stradale, dell’inquinamento, della sedentarietà (sia in termini di malattie connesse che di mancato gettito per il tempo-vita e le ore lavoro perse), la perdita di ore lavorative generata dalle congestioni del traffico, il degrado dei centri urbani, lo stress prodotto dall’inquinamento acustico, la minor attrattività turistica delle città, il drenaggio monetario derivante dall’acquisto di carburanti dai paesi produttori e via elencando.

In uno studio del 2010  la città di Copenhagen quantifica queste analisi in termini di distanze: ogni chilometro percorso in bici comporta un guadagno economico netto di 42 centesimi alla società. Lo stesso chilometro, se percorso in auto, genera una perdita di 3 centesimi. Questo consente finalmente di ragionare sullo sviluppo della mobilità ciclabile in termini quantitativi, svincolandosi dal vicolo cieco delle opposte tifoserie: le infrastrutture ciclabili non solo servono, ma se ben realizzate producono un reddito per la collettività.

E qui facciamo un passo ulteriore, perché non tutte le infrastrutture ciclabili producono reddito, occorre che rispondano a requisiti stringenti. Il primo è che siano realmente utili ai cittadini per gli spostamenti quotidiani. Una pista realizzata male, poco fruibile, insicura, vandalizzabile (in questo includo tutta una serie di comportamenti che vanno dalla sosta di veicoli sulla sede ciclabile al passeggio di pedoni, cani, ecc… che ne frenano l’utilizzo da parte dei ciclisti), una pista che vaga ‘a zonzo’, senza condurre nei luoghi di interesse, sarà sicuramente poco utile e poco utilizzata, e non produrrà reddito.

Pertanto, a monte della progettazione e realizzazione, andrà fatta una valutazione costi/benefici per ogni singola infrastruttura, che comprenda oltre ai costi vivi una stima sull’utilizzo e le tempistiche di rientro dell’investimento. A 42 centesimi a chilometro, un segmento di infrastruttura ciclabile lungo un chilometro restituisce alla collettività 42 euro ogni 100 ciclisti che lo percorrano. Se viene utilizzato in media da 1000 persone al giorno (i numeri nel centro di Copenhagen sono ancora maggiori) realizzerà un utile di 420€/giorno, pari a oltre 150.000€ l’anno. Su questa base è facile stimare il tempo di ammortamento delle infrastrutture.

È anche più facile comprendere perché nelle grandi città europee si trovino tanti contatori di ciclisti: il numero di utenti è il fine ultimo della realizzazione. Se un’infrastruttura risulta poco usata non si da la colpa ai ciclisti ‘che non la vogliono utilizzare’, come accade qui da noi: se ne chiede conto all’urbanista che ne ha decretato la necessità, o al progettista che l’ha realizzata. Perché alla fine di tutto lo sviluppo dell’uso della bici, il trasferimento di utenza dalla mobilità motorizzata alla mobilità attiva, è una cosa che conviene a tutti noi, automobilisti compresi, indipendentemente dal fatto che ad una fetta di popolazione ‘piaccia’ andare in bicicletta.

E soprattutto noi ciclisti dobbiamo smetterla di atteggiarci a filosofi ed amanti del bello e scendere sul piano del ‘vile danaro’. La ciclabilità nelle città non è tanto una questione di soddisfazione personale o di convincere gli altri che abbiamo capito qualcosa più di loro (pensiero che peraltro rivendico), quanto di ‘saccoccia’, che è un argomento comprensibile all’intero universo mondo.

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Strategie dissipative

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L’enorme debito che ho nei confronti del pensiero di Charles Darwin consiste nell’acquisita consapevolezza che le trasformazioni si verificano sotto la spinta di necessità, non del caso. Le specie viventi, e parimenti le società, non evolvono se non in risposta ad un cambiamento profondo nelle condizioni di contorno. Se tale cambiamento non avviene le specie, le società, restano immobili.

L’umanità ha attraversato senza trasformazioni significative gli ultimi centomila anni, conducendo un’esistenza di cacciatori-raccoglitori, diffondendosi sulla maggior parte delle terre emerse del pianeta e dando vita a forme primitive di organizzazione sociale. Le principali trasformazioni si sono avute negli ultimi diecimila anni, in seguito alla domesticazione di forme animali e vegetali.

L’invenzione di allevamento ed agricoltura ci ha proiettati fuori dall’equilibrio instaurato con l’ambiente naturale, producendo una cascata di trasformazioni ed innovazioni: la regimentazione idrica, l’invenzione dell’aratro e delle prime macchine, la lavorazione di legno e metalli, l’aumentata disponibilità di energia (cibo, quindi lavoro umano ed animale) per comunità organizzate su larga scala.

Questo surplus di risorse ed energia ha prodotto, come conseguenza, i grandi imperi ed i grandi monumenti del passato. Gli imperatori dell’antichità sapevano bene di dover gestire il consumo di queste risorse, altrimenti l’avrebbe fatto qualcun altro al posto loro, e la soluzione al surplus fu l’erezione di monumenti alla propria grandezza, che le popolazioni percepivano come monumenti all’intera civiltà di cui essi stessi facevano parte.

In questa prospettiva è l’aumento di risorse disponibili, la momentanea ricchezza, ad innescare le trasformazioni sociali, a dar vita agli aggregati umani, alle città, ai regni, agli imperi. Ed è la cattiva gestione di questa estemporanea ricchezza, o il suo inevitabile esaurimento spontaneo, a causarne il collasso.

La crisi di una forma di approvvigionamento energetico produce, come diretta conseguenza, la ricerca di una fonte alternativa. Per millenni la forma di lavoro più utilizzata è stata quella muscolare, umana ed animale, che richiedeva come fonte energetica il cibo. A questa forma di forza lavoro si sono via via affiancate altre modalità, meccaniche, in grado di sfruttare disponibilità energetiche diverse da quelle alimentari.

La movimentazione di pesanti macine si è realizzata sfruttando l’energia potenziale dell’acqua in caduta, per mezzo di mulini idraulici. In qualche caso al posto dell’acqua si è usato il vento, già impiegato come propellente per viaggiare sull’acqua per mezzo di vele. Queste applicazioni erano però strettamente legate ai luoghi dove gli impianti risultavano originariamente localizzati.

La progressiva sostituzione nei macchinari delle parti in legno con equivalenti in metallo ha infine condotto alla possibilità di sfruttare una nuova forza lavoro: la pressione del vapore, e condotto all’epoca d’oro di una nuova fonte energetica: il carbone. Le macchine a vapore innescarono la rivoluzione industriale, rendendo disponibili quantità d’energia pro-capite prima di allora impensabili.

Riassumendo: una tribù di cacciatori-raccoglitori ha a disposizione solo la forza lavoro delle singole persone, e questa viene impiegata integralmente per la sopravvivenza e la fabbricazione di semplici utensili. Una città stato agricola ha parte della popolazione occupata nella produzione di cibo, in questo modo producendo un surplus di cibo in grado di alimentare altra popolazione impiegabile in attività accessorie (artigiani, artisti, sacerdoti, scienziati, militari).

Una civiltà industriale in grado di sfruttare fonti energetiche fossili ha una percentuale minima della popolazione impiegata nella produzione di cibo, ed una percentuale ben maggiore impiegata nella produzione di beni. La quantità di beni producibile comporta la necessità di una ulteriore trasformazione culturale e sociale.

Poiché, come già accennato prima, risulta sul breve termine premiato il soggetto in grado di realizzare il massimo consumo di risorse, qualunque civiltà deve sviluppare strategie dissipative in grado di massimizzare i propri consumi. Da un lato per avere un margine di creatività per sviluppare nuove idee e tecnologie, dall’altro per impedire che le stesse risorse siano rese disponibili alle civiltà antagoniste.

Strategie dissipative che hanno prodotto l’opulenza della civiltà egizia prima e romana dopo. Che hanno visto una crisi temporanea nel medioevo dalla quale si è poi usciti con la rivoluzione industriale. L’enorme disponibilità energetica pro-capite resa disponibile dallo sfruttamento petrolifero si è infine tradotta in un modello culturale e sociale improntato al consumo sfrenato.

Come i grandi monumenti del passato, le città imperiali dell’antichità, furono il prodotto di una trasformazione epocale nella disponibilità di risorse, innescata dall’invenzione dell’agricoltura e dalla metallurgia, così l’automobile privata ed il consumismo sono state la risposta ad una disponibilità di energia pro-capite mai verificatasi prima su così larga scala nella storia dell’umanità.

Nella trasformazione culturale che ha accompagnato tale transizione è risultata funzionale l’invenzione di una nuova ‘idea del mondo’ caratterizzata dalla proiezione delle trasformazioni in atto nel vicino e lontano futuro dell’avventura umana. A distanza di diversi decenni potremmo chiederci come stia andando in realtà. La risposta è molto diversa dalle aspettative nel tempo maturate.

Tutta una serie di concause convergono nel produrre una progressiva riduzione della disponibilità energetica pro-capite. In primis la sovrappopolazione, conseguenza inevitabile dell’aumentata disponibilità di risorse, sta aumentando il denominatore dell’equazione più rapidamente di quanto aumenti il numeratore. Detta in maniera più spicciola, se in un arco di tempo la quantità di energia disponibile aumenta del 50% e la popolazione del 100%, alla fine ognuno avrà a disposizione meno energia, anche se il totale prodotto è superiore a prima.

Il secondo problema è che gran parte dell’apparente aumento di produzione energetica è annullato dalla riduzione dell’EROEI. Se anche la produzione mondiale di petrolio aumenta leggermente da un anno all’altro, quello che si riduce è il conto energetico netto, perché man mano che i pozzi si esauriscono l’estrazione di petrolio diventa via via più costosa.

Il terzo problema è che, ad oggi, non sono state individuate fonti energetiche, fossili o rinnovabili, con un bilancio energetico paragonabile a quello del petrolio all’inizio del ventesimo secolo (un valore di EROEI pari ad 1:100, ovvero 100 barili di petrolio estratti al costo di un solo barile). Possiamo mettere in opera centrali solari ed eoliche, ma non arriveremo mai più alla disponibilità energetica pro-capite degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

Il quarto problema è che, al pari delle fonti fossili, anche la disponibilità di materie prime si va riducendo, le miniere sovrasfruttate rendono meno, le terre fertili si impoveriscono e degradano, i costi energetici di produzione aumentano. Queste quattro concause, come i quattro cavalieri dell’apocalisse, rendono ineluttabile un ripensamento delle aspettative globali riguardo alla disponibilità di ricchezza individuale.

La crisi attuale è solo l’avvisaglia di un declino generalizzato nella disponibilità di energia, materie prime e cibo che dovremo fronteggiare nei decenni a venire. Pretendere di affrontarla con gli strumenti culturali del positivismo illuminista, o con l’ideologia della ‘crescita indefinita’, che obnubila ogni analisi di natura economica è, a mio avviso, di una scelleratezza criminale.

Di terremoti ed altri disastri

Il terremoto nel centro Italia mi ferisce in maniere che non comprendo ancora appieno. Sono reduce da un bellissimo viaggio in bici che ci ha portato, un piccolo gruppo di amici,  molto in prossimità delle zone colpite. È un viaggio di cui vorrei conservare bei ricordi, ma ora vedo immagini di paesi rasi al suolo, luoghi dove pochi giorni prima ho pernottato (Amandola) colpiti da crolli, un conto delle vittime che continua a salire. Gente, spesso, come me pochi giorni fa, in vacanza.

Un pezzo del mio cuore è in quei paesi, in quelle terre. La mia famiglia possiede una casa, in un minuscolo paesino sperduto fra le montagne umbro-marchigiane. Una casa antica ristrutturata con molti sacrifici, con enormi mura in pietre di fiume, capaci di tener fuori il freddo invernale al pari del caldo estivo. Abitandovi riesco a sentire un legame indissolubile con le epoche e le generazioni che mi hanno preceduto. Una continuità temporale di sentimenti ed intenti che costantemente guida le mie scelte.

Quella casa, quel paese, stavolta non sono stati toccati. L’angelo della morte li ha ancora una volta sfiorati, passando oltre. La stessa cosa non è accaduta ad Amatrice, ad Accumoli, ad Arquata del Tronto. Paesi del tutto simili, per storia ed architettura, ora praticamente rasi al suolo. Ieri ho passato quasi un’ora sulla pagina internet di Google Street View ad osservare le prospettive stradali di Accumoli ed Amatrice. Immagini di disarmante normalità e serenità, a fronte di quanto avvenuto solo poche ore prima. Guardavo le foto e pensavo: di tutto quello che vedo non è rimasto niente.

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Mi era successa una cosa analoga anni prima. Nel 1991 partecipai ad un evento ciclo-turistico intitolato “Pedalata dei due mari”. Attraversammo in una settimana tutto il centro Italia, da Giulianova (in Abruzzo), al Parco dell’Uccellina (in Toscana). Mentre pedalavo scattavo foto (all’epoca pratica molto meno diffusa di oggi) su pellicola diapositiva. Immagini che finirono col restituire un discreto reportage dell’evento.

L’iniziativa fu replicata dieci anni dopo, nel 2001, percorrendo il tracciato in senso inverso. Anche in quell’occasione scattai molte foto. Ci trovammo ad attraversare le zone dell’Umbria colpite dal terremoto nel ’97: Assisi, Sellano, Preci. La ricostruzione era già abbastanza avanti, anche se parte della popolazione viveva ancora nei container della Protezione Civile. Viaggiando la cosa non mi turbò più di tanto.

Sulla strada per Norcia, in prossimità di Triponzo, mi fermai a scattare una foto a quello che pensai come “un bel paesino diroccato”. Fui colto dal fascino delle antichità in rovina, un po’ come Goethe nel ‘700. Immaginavo il paese microscopico abbandonato dai suoi abitanti che lentamente, nel corso degli anni, si sbriciola a causa degli eventi atmosferici. Nel Lazio ci sono molte città di questo tipo: Galeria, Monterano, abbandonate a causa di epidemie di peste ed ora completamente cadenti.

Al ritorno dal viaggio, una volta riviste le foto appena scattate, mi venne voglia di riguardare anche quelle del viaggio precedente. Le inserii nel proiettore, ma poco dopo l’avvio mi immobilizzai. C’era una foto, scattata dieci anni prima, praticamente dallo stesso punto di ripresa e con la stessa identica inquadratura, dove il paesino diroccato era ancora integro. Provai un tuffo al cuore.

Dieci anni prima ero stato lì, c’erano case, abitanti, umanità, sogni, speranze. Dieci anni dopo di tutto questo restavano solo macerie, pietre ammucchiate, sogni distrutti, abitazioni crollate. La vita e poi la morte, in un passaggio immediato, istantaneo, catastrofico.

La tragedia di ieri ci colpisce due volte. La prima per il dramma in sé, la perdita di vite, di storia, di memoria, di identità. La seconda perché avviene in un momento dell’anno dedicato al riposo, allo svago, alla leggerezza. Leggerezza che abbiamo atteso tutto l’anno, ed ora viviamo con un senso di colpa, con una tristezza di fondo che ci priva delle risorse psicologiche ed emotive per ripartire col lavoro quotidiano. Poca cosa, sicuramente, rispetto a chi ha perso la casa, i propri familiari, la propria stessa vita. Nondimeno un dolore che si estende ad una nazione intera. Un’ombra che si allunga sul futuro.

“Il mio intelletto sogna di conoscere il mondo, il mio cuore sogna le montagne”… scrivevo pochi giorni fa mentre spingevo sui pedali nella salita che mi avrebbe portato al lago di Fiastra. Quelle montagne, ora sappiamo, non sono semplicemente maestosi massicci coperti da vegetazione, superbi, solitari ed isolati. Sono il prodotto di linee di faglia tra placche continentali che spingono le une sulle altre. Il risultato di millenni di lento innalzamento, con continui assestamenti, terremoti, frane.

Il processo che ha modellato le montagne che tanto amo è un processo di creazione/distruzione ancora in corso, vitale e al tempo stesso catastrofico. E a noi fragili umani, con le nostre esistenze effimere (rispetto ai tempi geologici) può esser concessa la benedizione di sfuggire alle sue manifestazioni più devastanti.
E la maledizione di dovervi assistere, impotenti.