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La rivolta dei Ciompi.

Di Jacopo Simonetta

La rivolta dei Gilet Gialli è animata da un insieme di rivendicazioni, alcune molto stupide ed altre molto giuste. Vi convergono soggetti eterogenei come pensionati poveri e giovani disoccupati, ma anche militanti fascisti e comunisti, casseur di professione e molto altro.   Un’eterogeneità che prosegue una tradizione antica come le società complesse: La rivolta del popolino esasperato.

Ogni rivolta ha una panoplia di cause e di effetti specifici.  La rivolta dei Ciompi era molto diversa da quella di Masaniello e le “Jaqueries” avevano ben poco in comune con la Rivoluzione Francese.   Eppure, mi pare che si possano individuare degli elementi in comune che riassumerei così:

  • Assenza di un’ideologia di riferimento.  Semmai l’ideologizzazione avviene in seguito, progressivamente, secondo lo sviluppo degli eventi e dei gruppi organizzati che riescono ad imporsi alla massa.  Quando emerge un’ideologia, la struttura del movimento cambia, così come buona parte dei suoi aderenti.
  • Assenza di una leadership.  Anche i capi emergono gradualmente dalla massa e si impongono come rappresentanti e capitani, ma solo in corso d’opera e se la rivolta dura abbastanza a lungo.
  • Tentativo più o meno riuscito di strumentalizzazione da parte di organizzazioni politiche e/o personaggi di spicco pre-esistenti.
  • Una serie di cause inconsce, tutte derivanti dagli stress sociali ed economici connessi con quel fenomeno complesso e dinamico che possiamo chiamare “sovrappopolazione”.
  • Una serie di cause molto coscienti, economiche e sociali, esacerbate dall’incapacità della classe dirigente ad affrontarle e gestirle.
  • Un elemento scatenante futile, che fa da detonatore di tensioni profonde, accumulate nel tempo.
  • Un fiasco finale.  Di solito questo genere di rivolte spontanee si esaurisce per stanchezza; oppure viene repressa.   In qualche caso storico, rivolte spontanee hanno portato a riforme politiche drastiche, quanto effimere.   Qualche volta hanno invece scatenato dei terremoti politici di portata storica, ma senza migliorare le condizioni economiche e sociali dei ribelli.  Semmai il contrario.

Dunque le rivolte sono inutili?  No, perché nel bene e nel male rappresentano delle valvole di sfogo di tensioni divenute insostenibili.   La classe dirigente che non ha sputo prevenirle o gestirle può uscirne vittoriosa o sconfitta.  In questo caso, si verifica una sua sostituzione più o meno completa, ma le cause che hanno portato alla rivolta alla fine rimangono uguali, o peggiorano.   Tranne, in qualche caso, la pressione demografica che può risultare alleggerita da un netto aumento della mortalità e/o dell’emigrazione, ma è difficile ritenerlo un successo.

Se si può azzardare una regola storica su questo genere di rivolte (non di tutte le rivolte) direi che è questa: “La ribellione inizia per esasperazione e termina per rassegnazione”.   Talvolta per disperazione.

Anche a questo proposito, basta dare un’occhiata alla letteratura di 50 anni fa in materia di economia, ambiente e popolazione, per vedere che quello che sta succedendo è esattamente quello che, all’epoca, ci si aspettava che sarebbe successo.  Le società complesse funzionano infatti bene finché usufruiscono di un flusso di bassa entropia crescente e si trovano immerse in un ambiente stabile.  Quando queste condizioni vengono meno, le società entrano in crisi e cominciano a disgregarsi: un processo che continua finché non viene ritrovato un nuovo, temporaneo, equilibrio del sistema umano in rapporto al sistema naturale di cui fa parte.

Un processo frequente nella storia, ma che oggi, per la prima volta, riguarda l’intera umanità contemporaneamente.

La rivolta dei GG sarà utile se aiuterà qualcuno a capire che occorre attrezzarsi per rallentare e gestire la decrescita facendosi il meno male possibile, anziché continuare a vagheggiare un impossibile ritorno della crescita economica..

Qualunquismo, Populismo e Fascismo.

di Jacopo Simonetta

Qualunquismo, Populismo e fascismo sono tre parole spesso confuse ed indifferentemente usate come insulti.  Non essendo un politologo, propongo qui una mia riflessione personale che non pretende certo di essere né completa, né esatta.   Anzi, se qualcuno avrà da precisare, correggere e discutere, meglio!  Lo scopo di questo blog è proprio quello di stimolare la discussione.

Populismo.

Ne ho parlato in un mio vecchio post cui rimando.  Qui vorrei solo ricordare che i movimenti ed i partiti populisti nacquero agli albori della rivoluzione industriale e si svilupparono fino a i primi del XX secolo, quando furono definitivamente sconfitti dai liberisti in alcuni paesi e dai comunisti in altri.
Talvolta spacciati per rivoluzionari, i populisti erano piuttosto dei conservatori che si opponevano in tutti i modi sia al capitalismo moderno, sia al comunismo.  Furono invece strenui difensori del lavoro artigianale ed agricolo, rifiutando sia la salarizzazione del lavoro, sia la  collettivizzazione dei mezzi di produzione.
Per loro, la società avrebbe dovuto essere radicalmente ristrutturata sulla base delle autentiche ed antiche tradizioni popolari.  Insomma, un estremo tentativo di rivalutare “Il costume antico” e la “common decency” che erano state fondamento della società civile nei secoli precedenti.
Tipici frutti di questi movimenti furono le società di mutuo soccorso, le fratellanze ed anche varie società segrete, talvolta intersecate con la Massoneria che, però, nel suo insieme fu invece un’organizzazione di impostazione liberale e progressista.

Fascismo.

Esistono biblioteche su questo argomento.  Qui vorrei solo precisare che uso questo termine in senso generico di “movimenti e partiti di tipo fascista” e non solo del partito di Mussolini che ha una sua storia precisa e particolare.
In estrema sintesi, direi che rappresentano la perversione del populismo in quanto basano anch’essi la loro retorica sul richiamo ad antiche tradizioni.   Ma mentre le tradizioni cui si riferivano i populisti di 50 o 100 anni prima erano ancora almeno in parte vive, le “tradizioni” cui si riferivano e si riferiscono i fascisti (sensu lato) sono in gran parte di fantasia.  Penso, ad esempio agli Ariani ed ai Turanici che non sono mai esistiti, ma anche la “romanità” mussoliniana aveva ben poco a che fare con la romanità storica.
Una lettura delle opere di Julius Evola è, credo, emblematica in questo senso.   Dall’inizio alla fine sono un peana ad un’atavica tradizione ben chiara nella sua mente, ma di cui non si trova traccia nei documenti antichi e nei resti archeologici.
All’atto pratico, i governi di tipo fascista si sono sempre contraddistinti per la creazione di regimi totalitari, per la capacità di trovare dei comodi compromessi con il grande capitale e per l’attitudine a precipitare i rispettivi paesi in guerre devastanti e puntualmente perse.  Con l’eccezione di Franco che, da militare avveduto qual’era, preferì litigare con Hitler (nel 1940), piuttosto che imbarcarsi in una guerra che sapeva sarebbe stata perduta.

Qualunquismo.

Anche il termine “qualunquista” è stato ed è ampiamente usato come insulto, ma ha un origine diversa .   L’ “Uomo Qualunque” nacque infatti nel 1944 come giornale; il logo raffigurava un tizio strizzato dai poteri forti in un torchio per estrarne dei soldi.  Il motto era: «Questo è il giornale dell’uomo qualunque, stufo di tutti, il cui solo, ardente desiderio è che nessuno gli rompa le scatole».

Il foglio ottenne un notevole successo, usando una satira spesso grezza ed insultante; fra l’altro storpiando i nomi dei politici in maniera ridicola.  Ad esempio, Calamandrei (capogruppo del Partito d’Azione) divenne “Caccamandrei”, Salvatorelli (giornalista) divenne  “Servitorelli”, Vinciguerra (deputato socialista) divenne “Perdiguerra” e così via.
Nel 1946 il movimento divenne un partito: il Fronte dell’Uomo Qualunque, mantenendo però l’impianto e lo stile del  suo giornale.  Subito odiato da tutti gli altri partiti, fu spesso tacciato di essere una riedizione del disciolto Partito Nazionale Fascista.  Ma anche se un certo numero di fascisti vi confluirono, la forza del Fronte fu proprio quella di saper raccogliere e dar voce agli scontenti e ai delusi di tutte le tendenze: dai monarchici ai liberali, dai fascisti ai socialisti.  La sua impostazione generale era liberale e libertaria, basata su pochi punti chiave:

  • Lotta a tutte le ideologie politiche, a partire dal fascismo ed dal comunismo.
  • Lotta alla “partitocrazia” (termine che comparve proprio in quell’epoca).
  • Lotta al grande capitale, in particolare alla grande industria, ed alla sua ingerenza in politica.
  • Sostegno alla piccola impresa, agli artigiani, commercianti, impiegati, contadini e, in generale, all’ “uomo della strada”, visto come  abituale vittima delle strutture di potere.
  • Riduzione delle imposte.
  • Lotta all’ingerenza del potere pubblico nella vita privata dei cittadini. Lo stato doveva essere un semplice amministratore che  fornisce i servizi essenziali con il minimo indispensabile di prelievo fiscale.

Non sono certo il primo a cogliere delle analogie con un’altro partito che oggi va per la maggiore.  Se altri sono dello stesso avviso, saranno forse interessati a sapere come andò a finire. Presto detto:  male.
Alle amministrative del 1969 l’Uomo Qualunque ottenne il 4% circa su base nazionale, ma in Italia meridionale fece il 15-20% a seconda delle circoscrizioni, fino ad oltre il 30% a Messina.   Alle successive elezioni per l’Assemblea Costituente andò ancora meglio ed ottenne ben 30 deputati.   Dunque una buona partenza per un partito che aveva tutti contro e che, per la sua propaganda, disponeva solo di un giornale autofinanziato.   Ma già un anno dopo, l’avvicinamento del fondatore e capo del partito (Guglielmo Giannini) al governo de Gasperi gli giocò buona parte della popolarità e le successive evoluzioni politiche fecero peggio, finché il partito fu sciolto nel 1953.

Tirando le somme.

Come ho più volte sostenuto, la definizione di “populista” in uso oggi è profondamente scorretta.  Casomai, il M5S ed altre formazioni simili in Europa potrebbero essere assai meglio definite come “qualunquiste”, nel senso originale del termine.   Anche per distinguerle dai movimenti e dai partiti autenticamente neo-fascisti o neo-nazisti che pure proliferano e che pure vengono impropriamente definiti “populisti”.
Certo, una parziale commistione c’è (come ci fu per con l’UQ), ma il fatto che dei fascisti votino M5S non significa che il partito sia fascista.
Non per ora, ma se davvero i 5S andranno al governo si aprirà una grossa crisi al suo interno.   Già le prime manovre post-elettorali e l’elezione della Castellati alla presidenza del Senato hanno allarmato parte dei suoi sostenitori e non potrebbe essere che così.
Il “Partito degli scontenti” funziona bene finché si è all’opposizione, ma quando si va al governo il rischio di scontentare gli scontenti è estremamente alto. Soprattutto in un contesto come quello attuale in cui i margini di possibile miglioramento sono oggettivamente esigui, mentre quelli di possibile peggioramento sono assai vasti.
Un forte indizio in questo senso è che fra le poche città importanti in cui i “grillini” hanno perso ci sono Roma, Livorno ed altre in cui avevano vinto a mani basse le amministrative precedenti.

Secondo me, la forza dei 5S oggi, come dell’UQ ieri, è quella di essere stato capace di raccogliere consensi da ogni parte, ma mantenere un equilibrio simile stando al governo sarà molto più difficile.
Vedremo.

Il diabolico Piano Kalergi

di Jacopo Simonetta

“Possa tu vivere in tempi interessanti” pare fosse un’antica maledizione. Non so se sia vero, ma di sicuro questi sono tempi molto interessanti, soprattutto sul piano culturale dove lo smarrimento dei punti di riferimento consolidati, le possibilità tecniche offerte dal web ed il precipitare di una crisi che si intuisce profonda ed irreversibile genera fenomeni singolari. Gli esempi possibili sono infiniti, qui vorrei occuparmi di un caso mediatico particolare: il “Piano Kalergi” che mirerebbe (nientedimeno) al genocidio dei popoli europei per sostituirli con una massa amorfa di meticci al servizio di una plutocrazia masso-giudaica.

La Paneuropa

Il sogno di un’unità europea nasce con la disintegrazione dell’Impero Romano d’Occidente. Nel tempo, ha ispirato personalità distanti quanto Carlo magno, Federico II di Svevia, Carlo V d’Asburgo e papa Pio II; per arrivare a Victor Hugo e Mazzini, passando per Napoleone. Il conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi non fece dunque che rilanciare un’idea vecchia di millenni, confezionandola in termini che erano moderni negli anni ’20 e ’30 del XX secolo.
Persona colta, raffinata e cosmopolita come potevano essere gli aristocratici dell’epoca, fu scioccato dal bagno di sangue fratricida della I Guerra Mondiale e dalla fine, anche formale, del “Sacro Romano Impero”. Influenzato soprattutto dagli scritti di Oswald Spengler, Friedrich Nietzsche, Giuseppe Mazzini e Rudolf Kjellén, Kalerghi capì benissimo due cose:
1 – Bisognava evitare a qualunque costo una nuova “guerra civile europea” (come egli definì la guerra ’14-’18).
2 – In quella guerra le potenze europee avevano bruciato definitivamente la loro supremazia mondiale. Le potenze montanti erano gli Stati Uniti e la Russia e, se non volevano essere schiacciati da questi due colossi, i paesi europei dovevano necessariamente consorziarsi.

  • Inizialmente ebbe una certa influenza, riuscendo a ottenere l’appoggio di personalità del calibro di Winston Churchill, Paul Valery, Thomas Mann, Francesco Saverio Nitti, Sigmund Freud, Albert Einstein e John Maynard Keynes.
    Ma l’ascesa del nazismo fece precipitare la crisi che si voleva evitare. Kalergi dovette quindi fuggire temporaneamente in America, da dove mantenne però stretti contatti con gli anti-nazisti e gli antifascisti (in un primo tempo aveva preso sul serio Mussolini, ma si ricredette alla svelta). Finita la guerra ebbe un certo ruolo indiretto, soprattutto tramite l’opera diplomatica di Otto d’Asburgo e l’amicizia con personaggi come Jean Monnet, Konrad Adenauer e Maurice Schumann.
    In estrema sintesi, il suo diabolico piano si basava sui seguenti punti:
    1 – Formazione di una confederazione europea basata su di una garanzia reciproca di delega della sovranità. Cioè la cessione di sovranità dai governi nazionali e quello federale avrebbe dovuto essere esattamente simmetrica per tutti.
    2 – Istituzione di una Corte Federale per gestire i conflitti tra gli stati membri (che non pensava assolutamente di abolire).
    3 – Un esercito unico europeo, così da garantire nel contempo la pace interna e la difesa esterna.
    4 – Una progressiva unione doganale.
    5 – Un’unificazione delle colonie che si sarebbero dovute sfruttare a livello europeo.
    6 – Moneta unica.
    7 – Rispetto della diversità delle culture europee e delle molteplici civilizzazioni nazionali.
    8 – Aumento delle autonomie regionali e tutela delle minoranze nazionali.
    9 – Una buona ed efficace collaborazione nel quadro della Società delle nazioni.

Nell’idea di Kalergi la Turchia avrebbe dovuto entrare nella federazione, mentre cambiò varie volte idea a proposito del Regno Unito che, all’epoca, era ancora abbastanza potente da poter diventare egemone. Escludeva invece la Russia sovietica, non già perché non amasse la cultura russa, ma perché la Russia era troppo grande e potente rispetto agli altri (e perché aveva capito benissimo come ragionava Stalin).

E la storia del genocidio?

Si fonda su ben tre “solide basi”:
1 – Kalergi era cristiano, ma aveva sposato un’ebrea ed aveva grande stima della cultura ebraica (che pensava avrebbe potuto rinvigorire la languente aristocrazia europea). Aveva anche amici fra i banchieri ebrei, in primis il barone Rothschild e si sa che gli ebrei sono dietro ad ogni nequizia e complotto.
2 – Fu per qualche anno affiliato ad una loggia massonica viennese (Humanitas), ma se ne andò quando capì che questo era di ostacolo e non di aiuto al suo progetto.
3 – Una frase tratta da una pubblicazione secondaria (Praktischer Idealismus -1925): “L’uomo del futuro remoto sarà meticcio. Le razze e le caste di oggi saranno le vittime del superamento di spazio, tempo e pregiudizio. La razza eurasiatica-negroide del futuro, simile nell’aspetto alla razza degli antichi Egizi, sostituirà la pluralità dei popoli con una molteplicità di personalità». Alle nostre orecchie odierne suona effettivamente inquietante, ma se ci si prende la briga di leggere i libri per intero e di abituarsi al gergo dell’epoca, si scopre qualcosa. Per cominciare, che Kalergi non parlava dell’Europa, bensì del mondo intero, in un remoto futuro. Per continuare, che non pianificava invasioni, bensì sognava un’era in cui lo sviluppo dei rapporti internazionali e la fine dei pregiudizi razziali avrebbero portato ad un utopico “meltig pot” di scala planetaria.
Kalergi aveva molti difetti, ma era un convinto pacifista, innamorato di tutto ciò che era definibile come “europeo”, sia pure con molta fantasia.

Dunque il piano per sommergere l’Europa di “neri” non è mai esistito.  Esiste invece, ma non se ne parla, un disperato problema di sovrappopolazione che, quasi inevitabilmente, sfocerà in un olocausto per molti, se non tutti, i popoli della Terra. Ed esistono anche un sacco di soggetti, chi in buona e chi in cattiva fede, che soffiano in vario modo sul fuoco.
Negare che abbiamo un problema di immigrazione serve solo ad aggravarlo, così come sfruttare la situazione per riesumare dai cassetti della storia scheletri che stanno bene solo al museo degli orrori.

Ma forse un po’ di complotto forse c’è davvero

 

Perché disturbare il fantasma di un distinto signore che, cento anni fa, caldeggiava una confederazione fra i paesi europei per evitare nuove guerre e colonizzare più efficacemente il mondo? (Ebbene si, kalerghi non propugnava l’invasione dell’Europa da parte degli africani, semmai il contrario).

Da quello che ho potuto ricostruire, la leggenda del kalerghiano “genocidio” si deve ad un certo Gerd Honsik che, nel 2005, pubblicò a Barcellona un libro intitolato “Adiòs, Europa – El Plan Kalergi” (ed. Editorial Bright-Rainbow).
Honsik è uno scrittore austriaco noto per pubblicazioni in cui nega l’olocausto, rilancia la vecchia propaganda anti-semita e tenta di rivalutare la figura storica del Furer. Tutto ciò gli ha procurato delle condanne penali, ma in compenso gli ha assicurato un solido mercato fra i neo-nazisti europei. Potrebbe quindi trattarsi di una semplice bufala commerciale, ma se mi si consente un po’ di complottismo, forse c’è sotto qualcosa di più.

Tanto per cominciare, Kalerghi fu un personaggio di spicco dell’anti-nazismo; che ce l’abbiano ancora con lui si può quindi capire, ma forse la bufala nasconde anche un virus. Uno dei pochi punti condivisi dal caleidoscopio di movimenti e partiti d’estrema destra attuali è l’odio per le istituzioni europee, viste come un ostacolo per la loro ascesa al potere. Occorre quindi non solo evidenziarne ed esagerarne i pur reali e considerevoli difetti; è necessario anche diffondere rabbia e paura: un complotto antieuropeo di fantasia potrebbe quindi ben servire ad una politica antieuropea molto reale.  E l’abilità del suo inventore è dimostrata dal fatto che lo ha confezionato in modo da essere creduto e rilanciato anche da persone assolutamente aliene al neo-nazismo. Talvolta perfino da persone assolutamente contrarie ad esso.

Quanto pesa oggi Kalergi?

Niente. Il suo movimento “Paneuropa” ebbe un certo ruolo negli anni ’50, soprattutto per l’amicizia personale che legava il vecchio conte con personalità del calibro di Adenauer, Shuman, Otto d’Asburgo e De Gasperi.
Dunque si, parecchi dei suoi punti programmatici sono stati in una qualche misura attuati dai trattati, ma secondo parametri molto diversi da quelli dell’utopia paneuropea.   Kalergi detestava il capitalismo, mentre vagheggiava un’Europa unita da uno slancio spirituale ed ideale, governata da un’aristocrazia cosmopolita e benevolente. Qualcosa di molto irrealistico e anche di molto diverso dalla società liberal-plutocratica e dalla logorroica macchina burocratica che abbiamo costruito.
Oggi Paneuropa esiste ancora, ma il suo peso politico pari a zero ed il suo fondatore viene talvolta ricordato nelle cerimonie ufficiali solo per essere stato uno degli anticipatori di quella “Unione Europea” che, con tutti i suoi forse mortali difetti, rappresenta il più originale e pacifico esperimento geo-politico della storia. Ad oggi, rimane infatti l’unico tentativo di superare definitivamente la logica della guerra e di formare uno stato sulla base di una comunanza di intenti fra nazioni anziché sulla conquista militare.
Probabilmente non ci riusciremo, ma perlomeno ci abbiamo provato e già questo non è poco.

L’Unione Europea? Una cosa fantastica, se esistesse.
Gianis Varoufakis

Effetto “McBeth”

di Jacopo Simonetta

Preludio

Può la crescita economica rendere più poveri anziché più ricchi? La risposta è “SI”.
Il modello di base è quello della “crescita antieconomica” di H. Daly che spiega tanta parte del nostro presente e del nostro futuro. Rimandando al link per i dettagli, possiamo dire che per la fatidica dinamica dei ritorni decrescenti, superato un limite non chiaramente prevedibile, il cumulo dei costi indiretti supera fatalmente quello dei vantaggi diretti. Da questo punto in poi, la crescita economica può anche continuare, ma rende la gente sempre più povera, anziché sempre più ricca. Ma perché mai uno dovrebbe continuare ad investire ed a lavorare per stare peggio?

Ci possono essere diverse ragioni. Per esempio, può non essere chiaro se il fatale limite sia stato oltrepassato o meno; oppure ci possono essere poche persone che guadagnano molto e tante che collettivamente perdono di più, ma individualmente perdono poco. Ovviamente, quelli che guadagnano si organizzano per difendere i loro privilegi, mentre coloro che ci rimettono di solito neanche capiscono in che modo gli spariscono i soldi. Esiste però anche un altro meccanismo molto più insidioso: una vera trappola da cui è spesso impossibile sfuggire, anche quando ci si rende conto di cosa stia succedendo.

La trappola

Oramai sono così sprofondato nel sangue che fermarmi e tornare indietro sarebbe altrettanto faticoso che andare avanti”.   Questa celebre battuta della tragedia shakespeariana esemplifica bene una trappola in cui tipicamente si cade quando si investe nello sfruttamento di un sistema senza tenere sufficientemente conto del suo funzionamento e della sua resilienza.   Cerchiamo di capirci con qualche esempio pratico.

Un caso da manuale è quello dell’estinzione dei banchi di pesce e, conseguentemente, delle imprese di pesca con le relative filiere fino, eventualmente, alle banche creditrici. La trappola scatta quando, a fronte di una riduzione del pescato, le imprese rispondono investendo in mezzi più potenti che depauperano ulteriormente la risorsa e così via in una tipica retroazione positiva (rinforzante). In assenza di fattori limitanti esterni efficaci (limiti di legge, limiti del credito, ecc.), il sistema giungerà necessariamente ad un punto in cui pescare diventerà anti-economico. Ma se saranno stati fatti investimenti troppo grandi non ancora ammortizzati e/o debiti non ancora ripagati, i pescatori saranno costretti a continuare a pescare sempre di più, anche in perdita, anche se si rendono conto che stanno distruggendo la loro risorsa.  Così come le banche saranno costrette a rinnovare loro i crediti per guadagnare tempo, sperando in un miracolo.

Un meccanismo analogo sta alla base del consumo di insostituibile suolo per continuare a costruire case, malgrado le imprese costruttrici siano sovraccariche di appartamenti e villette invendute.   Se non vendono, perché continuano a costruire?  Perché se smettessero le banche non rinnoverebbero loro dei crediti che non possono pagare.  Così ognuno continua, sperando che altri schiattino prima di lui, liberando spazi di mercato che potrebbero salvarlo.  Anche le banche creditrici continuano a sostenerli, sapendo che dalla liquidazione di quelle imprese non recupererebbero mai quanto loro dovuto.

Saliamo di scala.

Oramai da anni, per molti campi petroliferi il costo di estrazione e raffinazione supera il prezzo a cui il petrolio può essere venduto; un meccanismo che sta mettendo più o meno in crisi imprese e petrocrazie .   Eppure tutti questi soggetti, anziché accordarsi per tagliare la produzione e sostenere i prezzi, si affannano a pompare a più non posso.   Follia collettiva?   Penso di no.  Nel periodo dei prezzi alti ed in previsione di ulteriori aumenti, le imprese hanno fatto degli investimenti miliardari ed avviato progetti di estrazione in condizioni estreme. Tutti costi che non sono ancora stati ammortizzati; ciò significa che se ora abbandonassero i progetti dovrebbero mettere a bilancio perdite enormi, perdere il credito e probabilmente fare bancarotta.  Inoltre, progetti particolarmente impegnativi sul piano tecnico e finanziario, se abbandonati, difficilmente potranno essere ripresi.   Spesso si lavora quindi in perdita, sperando in una ripresa dell’economia globale, oppure nel fallimento dei concorrenti.
Per quanto riguarda le petrocrazie il quadro è analogo, con l’aggravante che, più o meno tutti questi paesi, hanno approfittato del periodo di prezzi molto alti per avviare programmi di spesa che non possono più sostenere, ma che è pericoloso interrompere. Il Venezuela e l‘Arabia Saudita sono casi emblematici.

Con un prezzo medio intorno ai 50 $, gran parte della produzione mondiale è anti-economica.

 Politica

Qualcosa di funzionalmente analogo avviene anche in politica.  Perfino le dittature, a maggior ragione le democrazie, per durare a lungo hanno bisogno di mostrare qualche successo all’opinione pubblica.   Finquando le cose vanno abbastanza bene non ci sono quindi grossi problemi, ma quando le difficoltà quotidiane cominciano a stringere la cintura di troppi cittadini troppo a lungo, occorre ridirezionare il malcontento. Per esempio su di un nemico esterno, oppure su di una minoranza interna od altro, secondo il contesto.   Ma quando leader e partiti cominciano a cercare il sostegno delle frange più oltranziste dell’opinione pubblica (integralisti religiosi, nazionalisti, ecc.), rischiano fortemente di trovarsi poi intrappolati in situazioni in cui o fanno qualcosa che sanno essere sbagliato, o perdono il potere e, magari, la vita.

La recente vicenda della “ brexit” è emblematica in questo senso. Nato nella testa di David Cameron non per essere fatto, ma solo come trovata propagandistica, il referendum ha finito per essere votato ed approvato.  Questo ha proiettato l’intera classe dirigente inglese nel panico perché non era quello che contavano accadesse; al punto che ad oggi, oltre un anno più tardi, il governo ed il parlamento non sono ancora riusciti a mettere insieme una strategia.   Anzi, neppure un elenco completo delle cose da fare.  Certo, avrebbero potuto rimangiarsi la “papera” e le occasioni non sono mancate, ma per coglierle avrebbero dovuto ammettere di aver deliberatamente mentito agli elettori.   Un fatto che li avrebbe cancellati dalla scena politica e che, perciò, nessuno ha avuto il coraggio di fare.
In questo periodo sono molti i leader che si stanno cacciando in tipiche “trappole McBeth”: da Netanyau a Kim Jong Un, a Putin  passando per Trump, ma forse l’esempio più di attualità ce lo fornisce il duo Rajoy-Puidgemont.   Inseguendo l’elettorato nazionalista spagnolo e catalano rispettivamente, entrambi hanno fatto di tutto per infilarsi in una situazione in cui non hanno più margini di manovra. Il risultato è che, comunque vada, i catalani possono solo perdere una parte non sappiamo quanto consistente del loro tenore di vita.  Ma anche gli altri spagnoli e tutti gli europei ne avranno un danno.

 In cima alla scala.

Forse la più stretta analogia con la celebre tragedia si trova però alla massima scala: quella globale.   Negli anni ’70 un certo numero di streghe e di stregoni esperti in dinamica dei sistemi, ecologia e termodinamica avevano ampiamente avvertito del fatto che l’umanità si trovava ad un bivio: o accettare dei limiti, o distruggere la civiltà e buona parte del Pianeta con essa.  Altri stregoni, più pratici di psicologia che di scienza, ci hanno però detto che il nostro regno sarebbe durato per sempre e, collettivamente, abbiamo scelto di credergli.   Ora che dagli spalti di Dunsidane si vedono le prime frasche della foresta di Birnam in marcia, qualcuno comincia a rendersi conto dell’errore commesso. Ma per tornare indietro sarebbe oramai indispensabile prendere provvedimenti talmente drastici da provocare un disastro subito.   Per esempio, 70 anni fa per mantenere la popolazione umana entro limiti sostenibili, sarebbe stato sufficiente ridurre la natalità; oggi sarebbe necessario anche ridurre l’aspettativa di vita dei vecchi. Chi potrebbe ragionevolmente proporre una cosa simile?
Parimenti, buona parte delle più devastanti retroazioni climatiche pronosticate si stanno manifestando con netto anticipo: dall’esalazione di metano dal permafrost e dai fondali marini, alla riduzione dell’albedo artica, alla ridotta attività fotosintetica, eccetera.  Ciò significa che, se davvero volessimo contenere l’aumento di temperatura media entro i 2 C° (che sono già molto dannosi), dovremmo tagliare brutalmente la produzione agricola ed industriale e farlo subito. Cioè condannare miliardi di persone ad una miseria senza precedenti.

In sintesi.

Insomma, l’”effetto McBeth” è una trappola che si chiude gradualmente, man mano che qualcuno (individuo, azienda, classe sociale, nazione, umanità) mantiene una strategia che in passato ha dato buoni risultati anche quando questa comincia a non funzionare più.  Ad ogni passo innanzi il prezzo da pagare per procedere aumenta, ma aumenta anche il prezzo da pagare per tornare indietro.

C’è una speranza? Secondo me si.  Per quanto le nostre conoscenze scientifiche siano senza precedenti, sappiamo infatti che i sistemi reali sono comunque più complessi di ogni possibile modello.  Esiste quindi la concreta possibilità che in futuro avvenga qualcosa di imprevisto che cambi le carte in tavola.  Ancor più importante è il fatto che, anche a fronte di un collasso globale, non tutte le regioni della Terra avranno lo stesso, identico destino. Man mano che il meta-sistema globale andrà in pezzi, i sub-sistemi che ne nasceranno seguiranno infatti traiettorie diverse.  Talvolta molto simili, talaltra divergenti e non c’è modo oggi di prevedere quali saranno i fattori chiave che faranno la differenza. Perciò sono convinto che l’unica cosa sensata che ci resta da fare sia cercare ti tenere la nostra barca europea pari il più a lungo possibile e, intanto, cercare di procurarsi un qualche tipo di cintura di salvataggio.  Il Titanic sta affondando, ma non tutte la cabine andranno sotto contemporaneamente e non tutti affogheremo.   Su questo possiamo contare, cerchiamo quindi di non buttarci in mare da soli.

CONFINI 4 – Confini politici

Ultimo di quattro post.   Per le puntate precedenti, si veda qui, qui e qui.

matrioskeLe comunità umane possono essere considerate, fra i tanti altri modi,  come dei sistemi ed hanno infatti dei confini, sia pure di tipo molto diverso (spesso immateriali) a seconda del tipo e del livello di complessità della società.   In ogni caso, occorre ricordare che l’esistenza e la funzionalità dei confini comporta dissipazione di energia.  In termini economici, allocazione di risorse.
Confini più ampi sono anche più costosi in termini assoluti, ma magari meno in rapporto alla loro estensione.   Inoltre, contengono sistemi più capaci di estrarre risorse e scaricare entropia  “fuori” da se stessi.
Confini meno permeabili, sono parimenti più onerosi, ma più efficaci nel controllare i flussi.  Ecco quindi che, al di la dei nostri desideri, la posizione e la natura dei confini deve essere necessariamente articolata e dinamica, riflettendo la costante evoluzione del sistema che contengono e dei rapporti di questo con ciò che interagisce con esso.

I confini politici

Oggi, il tipo di organizzazione sociale principale è quello statale ed i confini sono perlopiù quelli ereditati dal XIX secolo, con qualche aggiustamento conseguente le guerre successive.  Questo livello di integrazione è solo uno dei molti possibili e, comunque, al suo interno comprende altri livelli (regioni, provincie, comuni, ecc.).   Livelli superiori agli stati sono invece alleanze, accordi commerciali, ecc.    Sono inoltre attive numerose organizzazioni sovra-statali, come EU o addirittura globali come ONU, FMI, OMS, OUA, WB, WTO ed altre ancora.

Ad ogni livello organizzativo, corrisponde una diversa funzione ed un diverso set di sistemi di controllo.  Uno dei compiti principali di una classe dirigente è quindi quello di decidere dove e come dovrebbero essere i vari tipi di confine che disegnano le nostre società.   Una scelta difficile che dovrebbe tener conto, a mio avviso dei seguenti punti:

  • I confini cambiano necessariamente nel tempo. Pensare di fissarli una volta per sempre serve solo a farsi molto male.
  • Anche il grado ed il tipo di permeabilità dei confini variano necessariamente nel tempo.
  • Minacce diverse possono essere controllate a livelli diversi di organizzazione. Ad esempio, il contrabbando di sigarette può essere controllato dalla polizia di un singolo stato.  Il controllo dei flussi migratori richiede la collaborazione di molti stati.   La garanzia contro un’aggressione nucleare richiede, perlomeno, la copertura di un’altra potenza nucleare.

Elevare il livello organizzativo presenta dei vantaggi, ma comporta un costo di cui la comunità si deve fare carico.  Se non lo fa, semplicemente il sistema si disgrega in sotto-sistemi sempre più piccoli finché si raggiunge un livello a cui si vogliono e si possono controllare le condizioni interne in rapporto a quelle esterne.   Ma non è un processo indolore.  Ad ogni riduzione nel livello di complessità organizzativa, corrisponde necessariamente una riduzione nella capacità di quella società nel procurarsi ciò che le serve e di difendersi dalle minacce esterne.

In pratica, più piccolo è meno costoso e più gestibile.  Ma anche più povero e più vulnerabile.  Ecco perché è necessario trovare un equilibrio dinamico fra la tendenza ad aggregarsi e quella a disgregarsi.

Muri

muro israeleLa forma più solida ed evidente di confine è il “muro”.   Fra quelli contemporanei, il più famoso e spettacolare è quello eretto da Israele, ma ce ne sono moltissimi, in tutto il mondo ed in ogni epoca storica.   Una forma di confine che, non a caso sta venendo di moda in questi anni in cui, da una parte, alcuni paesi usciti sconfitti dalla globalizzazione (ad esempio l’Europa e gli USA) stanno cercando di proteggere quel che resta dei loro vantaggi storici.  Dall’altra, i sistemi-paese, in gran parte proprio grazie al mercato globale, dispongono ancora dei mezzi necessari per simili, costose imprese.
A che serve un muro?   Nell’immaginario collettivo, serve a sigillare un confine, ma non è così.   In realtà serve a facilitarne il controllo con forze ridotte, ma ricordiamoci i due punti fondamentali visti nel primo post di questa serie: nessun sistema esiste se non controlla i propri confini; nessun sistema può esistere all’interno di confini impermeabili.  

Il muro è quindi solamente una forma di difesa estrema di chi sta subendo l’iniziativa altrui e non è in grado di trovare soluzioni meno costose.   Se poi sia efficace o meno e per quanto tempo, dipende da caso a caso.

Disintegrazione

Dunque, abbiamo visto che l’impatto contro i Limiti della Crescita comporta, fra le molte altre cose, anche una crescente tendenza verso la frantumazione delle organizzazioni sovrastatali e statali.   Le cronache non lesinano gli esempi, ma finora, l’unica grande potenza ad essere andata parzialmente in frantumi è stata l’Unione Sovietica.   Gli altri stati importanti hanno finora resistito, in parte anche grazie alla fine dell’URSS che ha dato fiato ai vincitori.   Ma 25 anni dopo, la Russia mostra segni di un possibile nuovo cedimento, mentre l’Europa e l’India sembrano sul punto di fare la stessa fine. Gli USA seguono e perfino la Cina scricchiola.

E’ perlomeno molto probabile che, prima o poi, tutti i principali stati ed organizzazioni sovra-statali si disintegreranno, ma il punto importante è che non lo faranno né tutti insieme, né tutti allo stesso modo.

Il caso dell’URSS è un esempio da manuale del fatto che chi riesce a mantenere più a lungo un livello organizzativo superiore acquista un vantaggio competitivo notevole.   Altrimenti detto, chi muore prima, aiuta gli altri a tirare avanti ancora un po’.   Ognuno ha perciò interesse a mantenere alto il proprio livello, magari cercando di “picconare” quello degli altri.

Non è infatti facile controllare le retroazioni positive, specialmente in fase di decrescita.   Per fare un esempio, una disgregazione dell’edificio europeo consentirebbe ai singoli stati di eliminare i costi dell’eurocrazia, ma li esporrebbe all’attacco delle grandi potenze.  Probabilmente non un attacco militare: ci sono molte altre opzioni.   Per esempio, l’imposizione di scambi commerciali sfavorevoli, cosa che ci indebolirebbe ulteriormente, esponendoci ad ulteriori rischi.   Ad esempio, i singoli paesi europei potrebbero non essere più in grado di controllare le proprie frontiere (neanche volendo), con conseguenti movimenti incontrollati di persone e merci che minerebbero ulteriormente l’economia e la società. Insomma accadrebbe esattamente il contrario di quel che sognano molti nazionalisti odierni.

casa crollataSemplificando al massimo con una metafora, la casa che abbiamo costruito grazie all’energia fossile sta franando, sia per i maggiori costi e la minore qualità delle risorse rimaste (rinnovabili e non), sia per l’accumulo di sostanze e materiali tossici che comincia a minare i fondamenti della nostra società (clima, pesca, foreste, barriere coralline, eccetera).   Finirà in un cumulo di macerie, ma chi abita nelle stanze che crollano per prime, farà da materasso (qualcuno lo ha già fatto) a quelli che cadranno dopo.   Quello che riuscirà a cadere per ultimo in cima al mucchio, sarà quello che si fa meno male di tutti.

Una strategia possibile?

Ovviamente, passando dalle metafore alla realtà le cose si fanno parecchio più complicate.  A cominciare dal fatto che la globalizzazione ha alzato i livelli di interdipendenza a livelli tali da rendere difficile un conflitto.  Uno dei vantaggi che la de-globalizzazione si porterà via.   Per fare un esempio, se davvero l’Europa, o gli USA andassero in frantumi, l’economia Cinese subirebbe un contraccolpo probabilmente mortale.  Questa è una delle ragioni per cui, per ora, non ci saranno conflitti diretti fra “pesci grossi”, mentre i pesci piccoli saranno progressivamente spendibili, secondo il bisogno di questo o quello dei grossi.

Al di la di questo, rimane il fatto che ogni paese dovrà trovare la sua strada fra le due opposte esigenze. Da un lato, occorre ridurre la complessità per contenere i consumi e gli impatti (oltre che la popolazione, ma questo non si dice perché è brutto).  Dall’altro bisogna mantenere, se possibile accrescere la dimensione e la complessità per evitare di essere schiacciati dai vicini, parimenti in difficoltà.

comunità-agricolaUna partita quindi che andrebbe giocata su due tavoli contemporaneamente.  Da un lato, favorire e sostenere la diffusione di tecniche e modelli sociali il meno impattanti possibile.  Dunque favorire una controllata discesa verso modelli organizzativi di dimensione decrescente (le famose economie locali, ecc.).   Dall’altra, sviluppare livelli maggiori di integrazione sovranazionale (federazioni, alleanze, ecc.) in grado di opporsi almeno per un certo periodo alle brame altrui su quel che resta della nostra eredità storica.   Un gioco che, comunque, non potrebbe durare per molto, ma che potrebbe permetterci un impatto molto meno violento contro il nostro fato.  Guarda caso entrambe queste strategie tendono a svuotare il livello statale che, non a caso, si sta opponendo con tutte le proprie, notevoli forze ad entrambe.  Resta da vedere se davvero dei livelli organizzativi di tipo ottocentesco siano indicati a fronteggiare il presente ed il futuro prossimo.

Un altro pezzo importante di una strategia di rallentamento del declino, è quello di danneggiare i soggetti esteri potenzialmente ostili per renderli inoffensivi e, se possibile, abbastanza fragili da poter essere poi sfruttati.   Contemporaneamente, accrescere invece la collaborazione con i soggetti con cui abbiamo interessi comuni da difendere.  Insomma niente di concettualmente diverso da quello che gli stati hanno sempre fatto e che oggi altri fanno molto meglio di noi.   USA, Russia e Cina stanno tutti facendo questo gioco, sia pure con metodi e scopi diversi.   Gli americani picconano la stabilità della nostra moneta e giocano di sponda fra le tradizionali inimicizie  europee.   I russi finanziano i vovimenti neo-fascisti e nazionalisti.   I cinesi stanno saccheggiando quel che è rimasto dell’Africa, scaricando a noi la massa di gente in esubero.   Comunque, man mano che ci indeboliamo, diventa più facile soffiarci altre fette del bottino che abbiamo accumulato nei due secoli in cui diversi paesi europei si sono alternati nel condurre questo gioco.

La dinamica è infinitamente più complessa, ma in fondo concettualmente simile dal sistema delle razzie che tanta parte ha nell’economia e nell’ecologia dei popoli primitivi.

Conclusioni

Per quanto riguarda l’UE, il panorama politico europeo è oggi dominato sostanzialmente da due tipi di formazioni.

In primis, le forze che tuttora controllano i governi nazionali e che sono autenticamente “euroscettiche”.   Nel senso che vogliono mantenere in piedi le strutture attuali, ma svuotate di sostanza in modo da limitare al minimo indispensabile  la perdita di potere che investirebbe gran parte delle classi dirigenti nazionali se si formassero classi dirigenti federali.   In altre parole, vogliono la scatola, ma il più vuota possibile.

L’altro gruppo, che annovera la maggior parte dei partiti di opposizione principali, comprende coloro che vogliono fare a pezzi la scatola, sognando scenari di benessere e libertà in linea con la robusta tradizione utopistica della nostra cultura.

Indipendentemente dai casi particolari, anche molto diversi, il mio giudizio personale è che i primi (l’attuale classe dirigente) non ha giustificazione alcuna.  Non solo stati loro a svuotare l’EU di qualunque contenuto ideale, ma sono stati parimenti loro a spingere il processo di globalizzazione che tanto ha fatto per minare le fondamenta materiali d’Europa.
Oggi molti confondono questi due processi, mentre, come ho cercato di spiegare nei precedenti post, erano e restano antitetici.  L’europeizzazione consiste infatti in un processo di progressiva eliminazione degli antichi confini statali, sostituendoli con un più consistente confine collettivo.   Cioè un processo che avrebbe dovuto portare alla creazione di un sistema capace di trattare con USA e Russia da pari a pari.  In un simile contesto, probabilmente, la Cina sarebbe rimasta marginale.
La globalizzazione, come abbiamo visto, tende invece all’eliminazione di ogni confine economico a livello mondiale. Dal nostro punto di vista, ciò ha significato soprattutto la massiccia esportazione di capitali e tecnologie verso paesi almeno potenzialmente ostili.  Difficile immaginare un suicidio più sicuro per una società industriale, già alle prese con le prime avvisaglie dello scontro finale contro i Limiti dello Sviluppo.

La seconda categoria, quella che definirei degli eurofobi, è molto più eterogenea e comprende anche persone colte ed intelligenti che poco hanno a che fare con il becero neo-populismo maschilista di molti gruppi attivi in questo campo.   Conoscendo e stimando alcuni di loro, credo che come movente di fondo abbiano un profondo senso di tradimento.   Un sentimento peraltro giustificato da quanto detto qui sopra.
Tuttavia, se la dinamica dei sistemi ci può insegnare qualcosa a questo proposito, ridurre il proprio grado di complessità consente sì di ridurre i costi di  mantenimento delle sovrastrutture, ma al prezzo di ridurre anche la propria capacità di assorbire bassa entropia ed espellerne di alta.   E si tratta di una retroazione positiva in uno scenario globale senza precedenti storici.   In pratica, i due scopi dichiarati: rilancio delle economie nazionali e recupero della sovranità  sarebbero i risultati più improbabili di una simile operazione.   Pensare che un “oggetto” come l’Italia o la Germania possa rivendicare un effettiva sovranità nei confronti di soggetti della taglia geopolitica di USA, Russia e Cina, è un po’ come pensare che S. Marino potrebbe fare qualcosa contro la volontà del governo italiano.

D’altronde, non dobbiamo dimenticare che chi dobbiamo assolutamente salvare non è la nostra civiltà o le nostre persone, bensì la Biosfera.   Altrimenti non ci saranno in futuro né civiltà, né umani, né niente del tutto.   E dal punto di vista della Biosfera, qualunque cosa è meglio del prolungarsi della presente agonia.
In parole povere, ciò che ci potrebbe favorire nell’immediato, necessariamente ci nuoce in prospettiva e viceversa.
Forse, accelerare i tempi del proprio collasso è la cosa più altruista che una società possa fare.   Resta da vedere se ne è cosciente.

conclusione

Vittoria! Vittoria?

Nota preliminare: In queste pagine userò il termine “fascistoide” come sinonimo di “Partito o movimento di estrema destra”, per distinguerli dai partiti fascisti storici che hanno caratteristiche loro proprie, almeno in parte diverse da quelle di molte formazioni dell’estrema destra attuale. Inoltre, non ho utilizzato il termine alla moda di “populisti” per rispetto dei movimenti autenticamente populisti del XVIII e XIX secolo che ebbero una dignità ed una valenza politica che nessun partito attuale neppure si sogna.

Tutto cominciò con la brexit.

Nonappena la vittoria del “leave” cominciò a delinearsi sugli schermi, i promotori del referendum entrarono in uno stato di panico. Nelle aspettative di Farage e soci avrebbe dovuto vincere di stretta misura “remain”, in modo da mantenere ingessato lo status quo e permettere loro di continuare con la consueta sceneggiata. Cosa non aveva funzionato nei loro calcoli? Probabilmente parecchie cose, ma principalmente avevano sottostimato il potere combinato della delusione e della rabbia sulla maggioranza degli elettori. Un fatto questo importante perché cavalcare la delusione e la rabbia (peraltro largamente giustificate) sono la cifra che accomuna i movimenti fascistoidi di tutta Europa e non solo.
Per questo, nelle settimane immediatamente successive il voto inglese, le cancellerie europee si sono rese conto che nel 2017 cadevano una serie di scadenze elettorali critiche fra cui le politiche in Austria, Bulgaria, Olanda, Francia e Germania. Un crescendo che, se fosse scattato il tanto temuto “effetto domino”, avrebbe disintegrato l’UE nel giro di pochi mesi.

Vittoria?

Sappiamo come è andata finora. In Austria, Bulgaria, Olanda e Francia i candidati dell’estrema destra hanno perso. In Germania stagnano in basso nei sondaggi. Vittoria dunque?
Si può dire che la prospettiva di un’implosione della UE è quantomeno rimandata a data da destinarsi, ma a ben vedere chi non ama l’estrema destra non ha molto di cui rallegrarsi. In Austria le presidenziali sono state vinte di strettissima misura da un vecchio residuato di quando l’ambientalismo era una forza politica importante. In Bulgaria ed in Olanda sono stati confermati i candidati governativi, che però non hanno mai dato gran prova di sé. Tanto che il loro margine di vantaggio sull’opposizione fascistoide si è comunque ridotto sensibilmente.
La Francia era un pericolo maggiore per l’importanza e la posizione del paese. La netta vittoria di Macron è stata una brutta sorpresa per la signora LePen che puntava ad un finale “al fotofinish” in stile austriaco. Tuttavia il pericolo è solo posticipato e neanche di molto. Un pericolo anche maggiore è infatti rappresentato dalle prossime elezioni in Germania.
Qualcuno si stupirà. Nella patria dei crauti entrambi i maggiori partiti in lizza si dichiarano apertamente europeisti e la maggior formazione di estrema destra, Alternativa per la Germania (AfD), non dovrebbe superare il 10%. Dunque perché preoccuparsi? Perché l’ottusità ed il provincialismo testardamente dimostrati dalla cancelliera uscente sono state proprio, il volano che ha fatto crescere l’eurofobia in tutto il continente. Con l’elezione di Junker, la “scomparsa” di Hollande e la rinuncia di Renzi ad un qualche ruolo a livello europeo, la Merkel si è assicurata un ruolo assolutamente egemone nella UE. In più di un’occasione importante è stato chiaro che le decisioni le prendevano lei ed il suo fido Schauble, alla faccia delle istituzioni comunitarie.
A partire dallo scoppio della crisi, mai conclusa, del 2008, la cancelliera ha usato questo potere per condurre una politica decisamente euroscettica nel senso autentico del termine. Vale a dire che ha usato gli strumenti comunitari in funzione esclusivamente o quasi degli umori dell’elettorato interno tedesco. E fra tutti i gravi danni fatti all’Europa, sicuramente il peggiore è stata la crisi greca. Un disastro voluto e perseguito dal governo tedesco senza che gli altri paesi, pur potendo, facessero nulla; e senza rendersi conto che così si stavano picconando le fondamenta stesse del mito europeista.
Oggi, una nuova vittoria della cancelliera uscente appare più che probabile, ma sarebbe una tragedia senza riparo. Altri 4 anni di Merkel-Schauble e un’ondata di governi fascistoidi in tutt’Europa sarà inevitabile. Non perché aumenteranno i veri fascisti, ma perché aumenterà il livello di frustrazione fino ad un punto in cui non ti interessa più che il tuo candidato menta platealmente o farnetichi di cose impossibili. Ti interessa solamente rovesciare il “sistema”. Costi quel che costi. E può costare moltissimo.

Il cambiamento.

Che le cose in Europa vadano molto peggio di 10 anni fa è un fatto. Come è un fatto che i governi e le classi dirigenti in genere hanno commesso una serie molto lunga di errori molto gravi. Ma come dice un vecchio adagio: “non c’è mai limite al peggio”.
Il punto più pericoloso è che mentre ci sono governi che per consolidarsi hanno bisogno di mostrare qualche successo, ve ne sono altri che si rafforzano proprio mediante il costante peggioramento della situazione. E funziona. Forse l’esempio attuale più spettacolare in questo senso è quello di Recep Erdogan. Quando salì al potere per la prima volta nel 2003, la Turchia era nel pieno di un mirabolante “miracolo economico”, godeva di rapporti preferenziali con le maggiori potenze planetarie, ottime relazioni con tutti i paesi confinanti e molto altro ancora. Oggi in Turchia ci sono migliaia di morti all’anno (circa 10.000 dal 2015, pare) fra attentati, bombardamenti e sparatorie. Decine di migliaia di persone sono vittime di arresti arbitrari e maltrattamenti, mentre centinaia di migliaia sono state licenziate perché sospettate di essere contrarie al regime. Molti parlamentari di opposizione sono in galera, la crisi economica morde, gli investitori fuggono, i rapporti internazionali sono appesi ad un filo, internet e la stampa sono pesantemente censurate, eccetera. Ma tutto ciò non ha impedito al nostro di vincere un referendum che gli concede un ulteriore, consistente aumento di potere, praticamente a vita.
In tutto l’Occidente, la lista dei partiti e dei movimenti che si candidano a “ripulire e rinnovare” la politica è lunga. Ma l’esperienza ci dovrebbe aver insegnato che può essere molto difficile, lungo e doloroso licenziare un “uomo forte”. Anche in Italia è già successo.

E dunque?

E dunque l’unica possibilità di uscire dalla trappola è che partiti e leader non legati a movimenti di estrema destra capiscano che il loro compito non è quello di continuare a difendere una linea politico-economica fallimentare. Bensì quello di gestire una decrescita non felice, ma inevitabile; mitigandone gli impatti e facendo capire a più gente possibile cosa sta succedendo e perché. Quand’anche ciò risultasse impossibile, in fondo, la maggior parte dei cittadini chiede cose perfettamente legittime:

1 – Uno stile sobrio da parte di uomini e donne al potere.

2 – Combattere efficacemente la corruzione a tutti i livelli.

3 – Ridurre le sperequazioni eccessive fra i redditi troppo alti e quelli troppo bassi. Visto che alzare i redditi bassi è, oggettivamente, difficile e forse impossibile, bisognerebbe ridurre quelli troppo alti.

4 – Riprendere il controllo delle frontiere. Cioè stabilire quanta e quale gente, a quali condizioni può entrare e restare. Insomma, un ragionevole punto di equilibrio fra il “tutti” ed il “nessuno” proclamati dalle propagande contrapposte.

Non sembrano cose impossibili, a condizione che si prendano provvedimenti idonei in tutti i paesi UE contemporaneamente. É infatti chiaro (o dovrebbe esserlo) che nessuno dei paesi europei da solo potrebbe oggi perseguire questi risultati con un minimo di probabilità di successo. Non ne avrebbe la forza politica, né i mezzi pratici.
Qualcosa forse comincia a muoversi, proprio grazie alla scelta inglese ed alla paura suscitata dall’elezione di Trump. Non rimane molto tempo e le prospettive non sono incoraggianti, ma questo turno elettorale, finora, ci ha concesso altri 4-5 anni di tempo per fare qualcosa. Certo, il declino della civiltà industriale non sarà fermato né così, né in altro modo, ma forse riusciremo ad evitare di aggiungere il male al malanno.

studiare la storia

“Coloro che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.   Coloro che la studiano sono condannati ad osservare impotenti gli altri che la ripetono”.

CONFINI – 3. De-globalizzazione: il ritorno dei confini

deglobalizzazioneNei precedenti due post (qui e qui) abbiamo visto che i sistemi tendono ad integrarsi in unità funzionali più grandi ed efficienti. Principalmente, questo consente di dissipare più energia e, perciò, di prevalere su altri sistemi.   Una tipica retroazione positiva: “più cresci, più diventi forte per crescere”.   Sappiamo però che niente cresce indefinitamente, ma anzi che, prima o poi, i sistemi grandi e complessi si disintegrano a vantaggio di altri più piccoli e semplici.  Semplificando al massimo, gli organismi muoiono e nutrono colonie batteriche; gli imperi e gli stati centralizzati si disgregano in stati più piccoli, oppure in sistemi feudali o tribali, ecc.   Naturalmente, ogni caso ha la sua storia di crescita, picco e declino, ma tutti seguono questo schema.   Ci devono quindi essere dei buoni motivi.

Limiti della crescita e limiti dei sistemi

Se esista o meno una sorta di legge universale dell’invecchiamento e morte dei sistemi è un argomento molto dibattuto.   Chi fosse interessato, troverà qualcosa a questo link.

Qui tralasceremo la questione, limitandoci a considerare un solo aspetto del problema.  Abbiamo visto che sistemi più grandi e complessi sono più efficienti, ma necessitano di maggiori risorse e di un “fuori” in cui scaricare l’aumento di entropia corrispondente all’aumento di informazione che avviene “dentro”, man mano che in sistema cresce.

Con riferimento alla società industriale, entrambi questi temi sono stati ampiamente dibattuti.  In estrema sintesi, la linea di pensiero dominante è che il progresso tecnologico può compensare il decadimento quali/quantitativo delle risorse e l’inquinamento, aumentando indefinitamente la propria efficienza.   Un punto di vista contestato da coloro che pensano che le leggi naturali facciano aggio sulle teorie filosofiche.   Ma qui stiamo trattando solo dei limiti di un sistema, un aspetto poco considerato, malgrado sia molto interessante.

Un sistema economico consiste in un insieme di processi termodinamici (estrazione, trasporto, trasformazione, riciclo, ecc.) e serve a produrre un accumulo di vari tipi di capitale all’interno del sistema stesso (popolazione, oggetti, infrastrutture, conoscenze, ecc.).  In altre parole, aumenta la quantità di informazione che il sistema contiene, riducendo quella di altri, da cui preleva risorse ed in cui scarica la propria entropia sotto forma di rifiuti, guerre, sovrappopolazione, ecc.  I sistemi che riescono a crescere più degli altri hanno un vantaggio, ma che succede se tutti i sistemi di un determinato tipo vengono integrati in un unico super-sistema?
La globalizzazione è stato un gigantesco esperimento che ci ha effettivamente portati molto vicini ad un sistema economico unico.  Cioè privo di un “fuori” da sfruttare a vantaggio del “dentro”.   Necessariamente, l’entropia prodotta dal sistema si deve quindi scaricare all’interno del sistema stesso, sotto forma di un peggioramento delle condizioni di vita di una parte della popolazione a vantaggio di altri.   Ad esempio mediante la pauperizzazione della classe media occidentale e la schiavizzazione della mano d’opera di  molti paesi “in via di sviluppo”.  Lo spalancarsi dell’abisso fra il leggendario 1% e tutti gli altri non che un effetto di questa dinamica.   Ma ancor più dei perdenti umani, ne ha fatto le spese la Biosfera che rappresenta la discarica finale (sink) di qualunque processo economico.   Ed è proprio questo aspetto, sempre più trascurato a livello politico, che sta già creando i presupposti per l’implosione del sistema.  Ancor più di altri aspetti, assai più di moda sui social e sulla stampa.
La disgregazione sociale è infatti un fenomeno classicamente associato alle fasi critiche dei sistemi umani e gioca un ruolo fondamentale nel destabilizzare i sistemi statali e sovra-statali nei tempi brevi (anni e decenni).  La perdita di biodiversità determinerà invece se fra qualche secolo sulla Terra ci saranno foreste, campi e civiltà, oppure colonie di batteri estremofili.   O qualunque scenario intermedio vorrete immaginare.

La trappola globale

Come già accennato, non era necessario globalizzare il sistema per immaginare che sarebbe finita male.  Processi simili si erano già visti tante volte nella storia, anche se su scala molto più piccola, e sempre con risultati analoghi: l’integrazione è vantaggiosa finché il sistema in crescita mantiene la capacità di scaricare fuori di sé i danni che la crescita comporta.
Nei millenni in cui gli imperi si sono alternati nel dominio di grosse parti del pianeta, ognuno di essi è entrato in crisi quando è rimasto a corto di risorse per mantenere la propria complessità e per proteggere i propri confini.   Oppure quando ha perso la capacità di scaricare sui vicini i propri problemi, ad esempio mediante guerre od emigrazione.
Era prevedibile che man mano che il sistema economico mondiale veniva integrato, la capacità produttiva aumentasse, ma a costo di “parane il fio” in tre forme: la crescita esponenziale delle disparità sociali,  l’erosione accelerata delle risorse e l’aumento di entropia interna del sistema stesso sotto forma di inquinamento, perdita di biodiversità,  tumulti, ecc.

MalthusIl meccanismo della “crisi malthusiana” è probabilmente intrinseco alla dinamica della nostra specie fin dal suo apparire.   Tuttavia, oggi è la prima volta che qualcosa del genere avviene in modo quasi contemporaneo in tutto il mondo, minando la capacità del Pianeta di mantenere condizioni ambientali compatibili con la civiltà.   Forse perfino con la vita umana.

La globalizzazione è stata quindi la trappola in cui il capitalismo si è cacciato. Dopo aver annientato ogni resistenza tradizionale ed ogni reazione moderna, pare proprio che si stia suicidando.  Perlomeno  nella sua forma attuale.

La decrescita in teoria

Uno degli errori che più spesso si commettono, è quello di credere che facendo il contrario di quanto fatto in passato, il sistema possa tornare in una condizione uguale o simile a quella di partenza.   Per fare un esempio classico, mettendo un uovo sodo in congelatore a -100 C° per tre minuti non avremo un uovo crudo.   Un esempio forse più stringente, è che non entrare a far parte di una struttura sovranazionale qualunque (alleanza, federazione, moneta unica o altro) porta a risultati completamente diversi dall’uscirne.  Ilya Prigogine Confini dei sistemi Ilya Prigogine ha vinto un Nobel dimostrando che, almeno per le strutture dissipative complesse, il tempo esiste, è direzionale (si chiama la “freccia del tempo”) ed è irreversibile.   Significa che non si torna MAI in uno stato precedente e se ci sembra di si, dobbiamo solo guardare cosa è successo intorno al nostro esperimento.

Dunque, se un aumento dei flussi attiva una retroazione positiva di crescita, un riduzione quali/quantitativa dei medesimi necessariamente attiva una retroazione parimenti positiva, ma stavolta di de-crescita.   Si ponga attenzione al fatto che la riduzione dei flussi può avvenire sia dalla parte delle risorse, quanto da quella degli scarti.   Cioè, sia che il sistema trovi difficoltà ad ”alimentarsi” (in senso latissimo), sia che le trovi nello scaricare i proprio “cataboliti” (sempre in senso latissimo), il risultato non cambia.   Ne siamo un esempio noi stessi.  La società industriale globale sta trovando il proprio limite nell’accumulo di inquinamento prima ancora che nella ridotta disponibilità di risorse.   Per fare un solo esempio, più di metà del petrolio scoperto è ancora sottoterra, ma se continueremo a pomparlo, ridurremo il nostro pianeta ad un deserto.

Il punto chiave qui è proprio il fatto che i sistemi in crescita esponenziale sono particolarmente instabili e vulnerabili.  E’ infatti molto difficile che possano passare da una fase di crescita convulsa ad una di equilibrio dinamico.   Sistemi che evolvono lentamente e che contengono anelli di retroazione negativa sono tendenzialmente più stabili.   Il che significa che crescono molto meno quando le condizioni sono favorevoli, ma incassano meglio quando le condizioni peggiorano.   E, soprattutto, contribuiscono assai meno al peggioramento del loro “fuori”,  proprio perché assorbono meno bassa entropia ed espellono meno alta entropia.

Una condizione certa per il disastro è poi quando un sistema riesce a crescere oltre la capacità del meta-sistema di cui fa parte di provvedere la bassa entropia ed assorbire l’alta.   L’esempio dei manuali è quello di un gregge sul pascolo.   Finché le pecore sono poche, l’erba abbonda e si possono moltiplicare.   Se ci sono fattori esterni che limitano la crescita del gregge, ad esempio il contadino che mangia una parte degli agnelli,  il sistema può tirare avanti indefinitamente.   Se invece le pecore aumentano continuamente di numero, prima o poi cominciano a danneggiare il suolo; la fertilità diminuisce e l’unico modo per salvare il gregge è eliminare abbastanza pecore da ristabilire l’equilibrio con un pascolo impoverito ed eroso.

La decrescita in pratica

Il decadimento quali/quantitativo dell’input energetico e gli effetti nocivi connessi con la crescente entropia mondiale renderanno le strutture economiche e sociali particolarmente complesse sempre meno sostenibili.    Ciò significa che la de-globalizzazione che sta ora prendendo le mosse, accelererà e diverrà una tendenza inarrestabile nei prossimi decenni.   Prima di festeggiare, consideriamo però che, se con la globalizzazione ci siamo fatti parecchio male, con la de-globalizzazione ci faremo peggio.

crescita globaleLa progressiva integrazione dei sistemi socio economici locali in sistemi nazionali, poi transnazionali ed infine in un unico sistema globale è stata infatti la strategia che ha permesso all’umanità di aumentare la propria capacità di dissipare energia e crescere.   Se in un grafico riportassimo la curva del livello di integrazione dei sistemi economici del mondo, vedremmo che è strettamente correlata con le curve che descrivono l’incremento demografico e la dissipazione di energia.    Senza la globalizzazione, non saremmo diventati i quasi 8 miliardi che siamo oggi ed i nostri consumi non sarebbero cresciuti, semmai diminuiti.   Perché?

Facciamo un esempio: la quantità di energia fossile disponibile è tuttora fantastica, ma i giacimenti sono sempre più difficili e costosi da raggiungere e sfruttare.   Solo organizzazioni estremamente vaste ed integrate possono avere i mezzi per farlo e solo se possono poi accedere ad un mercato globale in cui vendere la propria merce.
Per farne un altro, l’epidemia di Ebola del 2014 è stata messa sotto controllo a fatica e solo grazie all’afflusso di personale specializzato, materiali costosissimi ed aiuti di vario genere dal mondo intero.   Tutte cose che solo organizzazioni della potenza dell’OMS, l’UE, gli USA e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale potevano fare.  Senza strutture di tale vastità e complessità, i morti sarebbero stati probabilmente dei milioni in gran parte dell’Africa.

Piccolo è meno dissipativo, ma più scomodo

Orto-bioQuando si parla di de-globalizzazione, volentieri si pensa al proprio orto e di come sarebbero belle delle comunità agricole in cui ognuno contribuisce come può al benessere collettivo.   A parte il fatto che tra il mercato globale ed il mio giardino ci sono parecchi livelli organizzativi intermedi, è vero che piccole comunità rurali rappresentano un modello socioeconomico molto più adatto a tempi di scarsezza.   Penso quindi che sia sicuramente una buona idea quella di prepararsi a cavarsela in economie locali, scarsamente connesse col resto del mondo.  Ma non bisogna illudersi che queste possano far vivere 8 miliardi di persone, men che meno fino ad 80 anni e passa.
In sintesi, un’economia locale può provvedere cibo, acqua, abiti ed alloggio, ma non potrà mai consentire una connessione internet, cure ospedaliere moderne, viaggi lontani, tecnologie avanzate e tutti gli altri vantaggi che ci ha dato la progressiva integrazione delle economie mondiali.

Man mano che i sistemi socioeconomici maggiori si disarticoleranno in sotto-sistemi via via più piccoli, diminuiranno la massa e l’impatto globale dell’umanità.   Ma diminuirà anche la nostra capacità di sfruttare le residue risorse del pianeta.  In pratica, la stessa retroazione che ha prodotto il fenomeno che chiamiamo “progresso”, se lo rimangerà.   Se del tutto od in parte, lo vedremo, dipende da molti fattori.   In ogni caso, la popolazione diminuirà, forse anche rapidamente.
Un fatto questo che si tende a tacere, anche se è l’unica speranza che ci rimane.   Solo un’abbastanza rapida riduzione del carico antropico potrebbe infatti salvare la Biorfera e, dunque, anche la nostra discendenza.

Per essere chiari: era prevedibile che la globalizzazione ci sarebbe costata cara, ma era difficile evitarla.  E’ altrettanto prevedibile che la de-globalizzazione ci costerà ancora di più, ma proprio questo è fonte di speranza.

Ne riparleremo nella prossima ed ultima puntata.

 

 

CONFINI – 2 – Globalizzazione, ovvero la scomparsa dei confini

Abbiamo visto (link) che qualunque sistema, di qualunque taglia e natura, necessita di una delimitazione che serve a controllare gli scambi fra ciò che è “dentro” e ciò che è”fuori”.  La dimensione e il grado di permeabilità di questa barriera devono necessariamente cambiare nel tempo, per adattarsi al divenire dalla situazione sia interna, che esterna al sistema in esame.  Pena la disintegrazione.

Nascita degli stati e degli imperi.

cacciatori di testePassando ad osservare le società umane, vediamo che, fin dall’inizio, ogni clan o piccola tribù ha costituito un sistema (perlopiù formato da sotto-sistemi familiari), facenti parte di sistemi più grandi (popoli ed umanità).  A loro volta parte della Biosfera e così via.
I limiti erano costituiti da barriere genetiche (grado di parentela), ma più spesso da limiti immateriali come quelli culturali (lingua, religione, faide, ecc.).  A questi si associavano spesso (ma non sempre) anche limiti materiali, ad esempio geografici.

Abbiamo però visto che i sistemi più grandi e complessi sono più efficienti nell’estrazione delle risorse e nella dissipazione dell’ energia.  Ad esempio, sempre parlando di società primitive, una tribù più numerosa si può permettere persone specializzate come artigiani, guerrieri e sciamani.  E questo le può consentire di prevalere sui vicini, raziandoli; oppure eliminandoli per estendere il proprio territorio.

Vi è quindi un vantaggio notevole nella collaborazione ed integrazione fra sistemi diversi.  Una progressiva integrazione che, man mano che cresce, rende progressivamente più permeabili i confini dei sotto sistemi, rafforzando di conserva il confine comune che si va formando.
Ricordate la foglia?  Le cellule perdono buona parte della loro individualità, costituendo tessuti ed organi.   In questo modo, ogni cellula perde qualcosa in termini di “sovranità”, ma guadagna parecchio in termini di una maggiore e più regolare disponibilità di energia ed alimenti.   Un’alga monocellulare può sfruttare una frazione di millimetro cubo di acqua.   Un albero può sfruttare migliaia di metri cubi sia sopra che sotto terra.   Può anche usare la porpria ombra per uccidere altre piante concorrenti e, viceversa, favorire organismi che gli sono utili.

Analogamente, un clan familiare di contadini autosufficienti può sfruttare un paio di ettari di terra, usando attrezzi di legno e di pietra.  I grandi imperi della storia hanno costellato il Pianeta di meraviglie.

Vantaggi e svantaggi dell’integrazione

Dunque, il punto qui è che un sistema più ampio permette una maggiore abbondanza e regolarità nei flussi di materia e di energia sia in entrata che in uscita.

Per esempio, nelle economie locali semi-autosufficienti bastano due-tre cattivi raccolti di seguito, oppure una calamità importante, e la gente comincia a morire di fame.   Mentre lo sviluppo dei commerci e dei trasporti su grande scala e distanza, così come la nascita di grandi stati e potenti organizzazioni sovra-nazionali,  rendono possibile far affluire nelle zone di crisi il surplus di altre.

Il rovescio della medaglia è però che, in questo modo, ogni sotto-sistema dipende da altri.   Trattando di società umane, la perdita di sovranità è il prezzo da pagare per aumentare le proprie potenzialità di difesa, di crescita e di contenimento delle crisi.

Sempre parlando di società umane, aumentare la complessità significa anche la nascita e lo sviluppo della specializzazione professionale e, di conseguenza, delle classi sociali.  Man mano che i confini interni si erodono, aumenta infatti la produzione complessiva di beni e servizi, ma questi non sono mai ugualmente distribuiti, in nessuna società complessa.   Ed il livello di ineguaglianza tende a crescere con le dimensioni del sistema ed il suo grado di integrazione.   L’Impero Romano di Traiano, fortemente integrato e centralizzato, era molto meno egalitario dell’Impero Carolingio, basato su una miriade di capi locali legati fra loro da un giuramento. Ovviamente, non è questo l’unico fattore, ma è una tendenza.

In pratica, le sperequazioni presenti fra i sistemi separati che si integrano tendono a sparire, mentre ne sorgono altre, diversamente distribuite.  Per questo, la creazione degli stati nazionali ha richiesto l’eliminazione, spesso violenta, delle società precedenti.  Per fare un esempio, la formazione della Francia, fra Luigi XIII e XIV, ha comportato la sostituzione di gran parte della classe dirigente di tradizione feudale con un’altra formata da burocrati e proto-capitalisti.  Mentre la formazione della Francia moderna è passata attraverso il Terrore e le guerre napoleoniche.

Un esempio di natura diversa, ma analogo, è lo sviluppo del capitalismo industriale che eliminò ogni traccia delle tradizioni che davano identità e resilienza alle classi popolari.  Queste si adattarono, creando un nuovo confine culturale: l’identità della classe operaia.  Il capitalismo finanziario ha eliminato anche questa.   Il primo passaggio era stato ampiamente previsto da Marx ed Engels, il secondo assolutamente no.

In sintesi, l’integrazione di sotto-sistemi in sistemi maggiori comporta un vantaggio complessivo, ma necessariamente questo avviene a danno di alcuni elementi, per il maggior vantaggio di altri.   Un “effetto collaterale” che può essere fortemente mitigato scaricando i danni ad altri soggetti esterni.  Finché questi soggetti sono altre società umane, la cosa è crudele, ma sostenibile.  Quando il “soggetto esterno” è invece la Biosfera (come di norma, almeno in parte) è più problematico.  Infatti, anche se siamo abituati a considerare la Biefera come esterna al nostro sistema socio-economico, è invece il nostro sistema umano ad essere interno all’ecosistema globale.  In altre parole, danneggiando la Biosfera necessariamente danneggiamo noi stessi.

Il pericolo più insidioso è quindi che la maggiore crescita economica e demografica che accompagna la complessità metta sotto crescente stress il sistema maggiore di cui le società umane fanno parte (ecosistema e financo la Biosfera).   Ci torneremo.

Internazionalizzazione

confini - InternazionalizzazioneNel XVIII secolo, i principali stati europei avevano raggiunto un notevole grado di integrazione interna, ma il commercio internazionale era assai limitato.  Lo sviluppo di questo fu indicato da David Ricardo e dagli altri padri dell’economia liberale come una delle chiavi di volta per la crescita economica ed il progresso.   In estrema sintesi, si sostenevano due punti fondamentali.

Il primo è quello già citato della possibilità di sopperire con il surplus di alcuni alle carenze di altri.

Il secondo era che i diversi paesi e le diverse regioni hanno vocazioni produttive diverse.   Per esempio, in Sicilia si fa del vino migliore che nello Shropshire, mentre le pecore inglesi producono una lana migliore di quella siciliana.   Parimenti, i giacimenti di minerali e le fonti energetiche (all’epoca soprattutto il carbone) non sono uniformemente distribuiti.  Rendere i confini statali più permeabili alle merci  poteva quindi consentire ad ogni paese di specializzarsi nelle produzioni per le quali era più vocato, aumentando l’efficienza e quindi la ricchezza complessiva delle popolazioni.  Inoltre,  aumentando il grado di interdipendenza, diminuiva il rischio di conflitto.

Una teoria coerente con quello che oggi sappiamo sulla dinamica dei sistemi e, difatti, ha sostanzialmente funzionato, anche se non sempre così bene come Ricardo sperava.

Europeizzazione

confini paesi_unione_europeaLa formazione di una struttura sovrastatale europea ha seguito una schema analogo, ma con alcune importanti novità.  Tanto per cominciare, l’integrazione è avvenuta in modo volontario, sulla base di trattati approvati dai parlamenti nazionali e non, come di solito avviene, tramite un’invasione militare e/o l’imposizione di una nuova classe dirigente.

Un secondo punto importante è che, fino al 1995, l’integrazione è avvenuta in modo molto graduale.

Il terzo è che non ha riguardato solo accordi commerciali, ma che politici.  Di conseguenza, la permeabilità dei confini è cresciuta non solo nei confronti delle merci, ma anche delle persone e dei capitali.

Come in tutti i processi di trasformazione, anche questo ha avuto i suoi perdenti, ma nel complesso, l’Europa occidentale è diventata la società di gran lunga più prospera e pacifica dell’intera storia dell’umanità.  Un dato di fatto che è di moda dimenticare.

Con l’integrazione dei paesi dell’ex-impero sovietico (nel 2004 e nel 2007) furono invece commessi diversi errori.   I due principali penso che siano stati la scelta sbagliata dei valori fondanti e la fretta.   I valori fondanti di Coudenhove-Kalergi e, successivamente, di Shuman, de Gasperi e gli altri “padri fondatori”  erano soprattutto la fine delle guerre in Europa e lo sviluppo di una società liberale.   Viceversa, negli anni ’90 e 2000, fu in nome del benessere materiale che società ed economie furono sconvolte nel giro di pochi anni.   Ovviamente, il contraccolpo generò una serie di squilibri che siamo lontanissimi dall’aver recuperato.

Globalizzazione

confini - globalizzazioneMa in quegli anni, tutto questo era invisibile per una classe dirigente completamente ebbra di vittoria (in occidente). Oppure completamente sedotta dalla prospettiva di una facile ricchezza (in tutti gli altri paesi).

Sorse così l’idea di estrapolare un processo simile a quello europeo a livello mondiale. Era nata la globalizzazione.   Nei sogni dei suoi promotori, avrebbe dovuto integrare tutti i paesi della Terra in un unico mercato, governato da organismi internazionali indipendenti e sovraordinati agli stati.  Col tempo, si diceva, ciò avrebbe portato anche ad un’unica società, con un’unica lingua, un’unica cultura, un unico governo, eccetera.  L’intera umanità finalmente affratellata in una sorta di villaggio globale grazie al commercio ed alle nuove tecnologie.

Sappiamo che è andata diversamente per una lunga serie di fattori. Limitandoci qui al punto di vista sistemico, si può però dire che è accaduto esattamente quello che ci si poteva aspettare.

Nell’internazionalizzazione, capitali e persone rimangono ancorati al loro luogo d’origine. Ciò significa che chi si arricchisce con il commercio internazionale è costretto a investire nel proprio paese e questo, almeno in linea di principio, crea lavoro per la popolazione locale che è anch’essa vincolata al proprio territorio.  Non solo; i capitalisti si posso arricchire a dismisura, ma non possono lasciare il proprio paese, pena perdere tutto.  Inoltre, se si rendono sufficientemente odiosi, potrebbero anche subire delle conseguenze molto sgradevoli, come molte volte è effettivamente accaduto nella storia.

Jacopo Simonetta - PaneuropaNell’europeizzazione i confini dei singoli stati veniìvano progressivamente erosi, ma contemporaneamente si formava e rafforzava un confine esterno comune.  In pratica, anche se il processo di europeizzazione e quello di globalizzazione vengono spesso confusi, sono intrinsecamente antitetici.

Gli accordi di globalizzazione permettono lo spostamento ovunque sia dei capitali finanziari, sia del capitale culturale (in particolare know-how e tecnologie). Permettono altresì ai capitalisti di spostarsi quasi liberamente da un luogo all’altro in quello che, per loro, è effettivamente un villaggio globale.   E permettono anche lo spostamento di masse di manodopera, creando un mercato globale del lavoro che, in pratica, diventa un sistema di crumiraggio mondiale.

Paradossale ed istruttivo è il fatto che la UE e gli USA furono fra i principali promotori di questa follia planetaria.   Senza rendersi conto che  i loro stessi confini ed i loro stessi sistemi socio-economici sarebbero stati  fra quelli che avrebbero subito il contraccolpo maggiore.   In un processo di integrazione rapida a tutti i livelli, ci sono infatti necessariamente sotto-sistemi (regioni, gruppi di persone, imprese, o altro) che avranno il più dei vantaggi, se non tutti.  Mentre altri soggetti avranno gli svantaggi corrispondenti.  In altre parole, si crea un mondo di vincenti e perdenti assoluti.  E dovremmo sapere tutti da un pezzo che la civiltà industriale è un “gioco” in cui chi ha le manifatture vince, chi ha le cave, le miniere e le discariche perde.  Esattamente quello che, guarda caso, è accaduto.   Nessuna sorpresa.

Il seguito, al prossimo post.

 

 

CONFINI – 1. Confini dei sistemi.

I confini politici sono qualcosa di particolarmente complicato.   La loro posizione e le loro caratteristiche cambiano infatti rapidamente (rispetto ai tempi storici) e dipendono da un insieme molto vasto di fattori fisici e geografici, ma anche storici, culturali, economici ecc.
La dinamica dei sistemi è solo uno dei molteplici approcci possibili alla questione, ma può essere utile per mettere in luce degli aspetti spesso trascurati.   Tenterò di chiarire questo punto in una serie di post di cui questo è il primo.

Confini dei sistemi.

Confini sistemaSecondo la definizione di Ludwig von Bertalanffy, padre della teoria dei sistemi, “Un sistema è un complesso di elementi che interagiscono fra loro” (1968).   Una definizione successivamente integrata da numerosi altri autori, fra cui James Grier Miller, che per primo focalizzò il punto essenziale in questa sede: “Un sistema è una regione delimitata nello spazio-tempo” (1971).   Concetto ripreso ed ampliato da J. Gougen e F. Varela: “Un sistema origina attraverso una distinzione che divide il mondo in due parti, come quello e questo, oppure ambiente e sistema” (1979).

In altre parole, possiamo analizzare come un “sistema” qualunque cosa sia composto da vari elementi che interagiscono fra loro all’interno di un confine, anche immateriale, che permette di distinguere un “dentro” da un “fuori”.

Matrioske

Ovviamente, il “dentro” sarà spesso suddiviso in sotto-sistemi, ognuno dei quali delimitato in qualche modo.    Ed il “fuori” altro non è che il meta-sistema di cui il sistema che stiamo osservando è parte.
Se vogliamo essere pignoli, in realtà esiste infatti un unico sistema: l’universo (o, per essere ancora più pignoli: almeno un universo) e non sappiamo se ha dei limiti.  Non lo sappiamo e non lo sapremo mai perché dei limiti li ha invece l’universo conoscibile.   Per la felicità di Confini sistemi San TommasoS. Tommaso, questo è una sfera perfetta e geocentrica, avente per raggio la distanza percorsa da un fotone in circa 13,7 miliardi di anni.   Quello è infatti il limite, in espansione costante,  da cui in via del tutto teorica ci possono giungere delle informazioni.
All’interno di questo sistema, entro certi limiti oggettivo, ci sono miliardi di sottosistemi rappresentati da galassie, nebulose e molto altro, ognuno dei quali contiene miliardi di stelle, molte delle quali con i loro sistemi di pianeti e così via, a scendere di scala fino ad arrivare alle cellule che compongono gli organismi.   Ci sono altri livelli organizzativi più piccoli, ovviamente, ma il loro grado di complessità diminuisce e non è detto che siano definibili come “sistemi”.   Men che meno come “sistemi complessi”.

Il sistema minimo

Per fare un ragionamento su come sono fatti e come funzionano i sistemi, forse conviene partire proprio dall’estremo minimo della gamma, dalla matrioska più piccola e cioè dalla cellula.   Non solo per omaggio a von Bertalanffy (che era un biologo) ma anche perché è più facile.

confini membranaUna cellula è composta da diversi organuli che svolgono varie funzioni, immersi in un citoplasma delimitato da una membrana.    Perlopiù contengono un sotto-sistema, il nucleo, ma non sempre e qui lo ignoreremo.
Dunque torniamo alla membrana cellulare: come è fatta e a che serve?   La cellula, per restare funzionale, deve mantenere sotto il proprio controllo una serie di parametri interni, ad esempio la pressione osmotica.   Se ci sono troppi ioni, la cellula si risecchisce e muore, se c’è troppa acqua la cellula scoppia.   A questo serve la membrana: regolare gli scambi con il meta-sistema di cui la cellula fa parte secondo le necessità vitali di questa.   Per questo la membrana è semipermeabile.  Cioè consente il passaggio di alcune cose (ad esempio l’acqua), ma non altre (ad esempio ioni e virus).   Ma per controllare l’ambiente interno e nutrire la cellula non basta.   La membrana contiene dunque delle strutture specializzate che, dissipando energia, sono in grado di “mangiare”, oppure di espellere singoli ioni, acqua, molecole ed altro in modo da mantenere l’omeostasi necessaria.  In altre parole, la membrana è una struttura funzionale che, dissipando energia, protegge la cellula, assicurandone l’integrità e la funzionalità.

Salendo di scala

confini fogliaSaliamo di scala.   In una foglia, ad esempio, troviamo che le cellule non sono tutte uguali.   Quelle esterne sono blindate e svolgono la funzione specializzata di proteggere il tessuto interno che, al contrario, è assai più tenero e biologicamente attivo.   Anche a questo livello, abbiamo un confine che delimita il sistema foglia, costituito dall’epidermide (più eventuali elementi esterni) la cui funzione è quella di proteggere l’interno dall’esterno.   Ma abbiamo visto che nessun sistema vivente può esistere se isolato. Dunque l’epidermide ha dei fori, gli stomi, controllati da strutture apposite che lasciano passare la quantità di aria necessaria per la fotosintesi.  Nel frattempo, i pigmenti dell’epidermide fanno passare la quantità giusta di luce.  Né tanta da bruciare le cellule, né poca da farle morire di fame.  Cioè, la foglia è avvolta da qualcosa che, sempre dissipando energia, la mantiene funzionale.

Mutatis mutandis, lo stesso, identico schema si ripropone ai livelli crescenti di complessità a cui si organizzano la Vita ed il Pianeta nel suo insieme.   La più esterna delle barriere protettive terrestri è la ionosfera, che ci protegge dai raggi gamma, ma lascia passare la luce ultravioletta, visibile ed infrarossa.

A cosa servono i confini

Un punto fondamentale è dunque questo: qualunque sistema, per esistere, necessita di una barriera che lo delimita e deve quindi dissipare energia per costruire e far funzionare tale barriera.   Questo perché è necessario che le condizioni interne siano controllate.   D’altronde, Carnot ci ha insegnato che un sistema isolato vedrebbe la sua entropia crescere fino ad un massimo, mirabilmente definito da Nietzsche “morte termica”.
Dunque, se nessun sistema può esistere se non delimitato, nessun sistema può esistere se isolato.   In altre parole, ogni confine, dalla membrana di una singola cellula alla ionosfera ed oltre, ha la funzione non di isolare il sistema, bensì quello di controllarne gli interscambi con il sistema più ampio di cui fa parte, il quale a sua volta avrà i suoi propri confini e così via.

Questo è il secondo punto fondamentale: ad ogni livello di organizzazione corrisponde una diversa delimitazione, con differenti funzioni.    Se ogni cellula avesse la permeabilità di quelle dell’epidermide foliare, la pianta morirebbe, anzi non esisterebbe neppure.   Dunque è necessario che le cellule si differenzino per svolgere funzioni specializzate.  In altre parole, per aumentare la propria efficienza, un sistema deve dissipare energia per aumentare la propria complessità.   Cioè diventare un più ampio insieme funzionale di elementi e di relazioni.

Livelli superiori di complessità consentono di assorbire e dissipare maggiore energia.  Dunque di prevalere nella competizione con altri sistemi e sotto-sistemi, ma richiede più risorse.  Per questo su di una roccia nuda nascono dei licheni. Non appena si forma un po’ di suolo, le erbe sostituiscono i licheni e quando c’è abbastanza terra, gli alberi prevalgono sull’erba.

tommaso campanellaSi badi bene che tutto questo non ha niente a che fare con questioni etiche e scelte umane, ma solo con quello che Tommaso Campanella chiamava il “senso delle cose” e che noi chiamiamo “gradiente termodinamico”. (Ai fisici non piace sentirselo dire, ma buona parte del loro lavoro consiste nel mettere a punto e chiarire le intuizioni dei migliori maghi del rinascimento).

Ma se livelli superiori di organizzazione hanno maggiori potenzialità,  necessitano anche di maggiori risorse e, di conseguenza, scaricano maggiore entropia nel meta-sistema di cui fanno parte.   Vale a dire che erodono più rapidamente le riserve di energia ed informazione del loro ambiente.  Riserve che possono essere reintegrate a scapito dei meta-sistemi via via sovraordinati, fino alla matrioska più grande: l’universo conoscibile.

Molto si discute del se e come, entro o fuori di questo, vi siano “fabbriche” di entropia negativa.   Oppure se tutto esista ed evolva solo grazie alle scorte di bassa entropia che abbiamo ereditato dal “big bang”.   Ma tutto questo, per quanto affascinante, ci riguarda molto poco.   A noi basta sapere che sulla Terra abbiamo una sola “macchina” che pompa l’entropia al contrario: la vegetazione.   Tutto il resto, compresi noi, dipende da lei.  Ovviamente, ciò avviene a spese del Sole e fra un paio di miliardi di anni saranno guai.

Ma non credo siano in molti a preoccuparsene. Piuttosto, nei prossimi post vedremo invece di utilizzare questi concetti per capire come ha funzionato la globalizzazione e come, in grandissime linee, probabilmente funzionerà la de-globalizzazione.

Destra versus Sinistra

destra versus sinistra
“L’illusione della libera scelta”. Due ingressi per il medesimo abbattitoio.

Senza pretendere di sviscerare una questione che appassiona fior di politologi, vorrei qui proporre alcune riflessioni molto parziali e personali, derivate dalla mia limitata esperienza di “navigatore internet”.   Le pubblico nella speranza di stimolare dei commenti che aiutino me ed altri a raccapezzarmi in questo guazzabuglio.

Per cominciare

Per cominciare, vorrei ricordare che, anche in passato, Destra e Sinistra sono spesso state abbastanza vicine da scambiarsi idee, metodi e scopi.   Populisti  e socialisti  sono stati spesso nemici giurati, pur volendo entrambi proteggere la gente comune dalla rivoluzione capitalista.   Il Fascismo nacque da una costola del Partito Socialista ed il nome completo del partito di Hitler era “Partito Nazional-Socialista”; un partito che nella DDR è rimasto al potere fino al 1989 senza neppure cambiare nome.   Tanto per citare un paio di esempi scelti non a caso.
Ben più vicino a noi, nei momenti caldi della guerra del Donbass si sono visti volontari internazionali comunisti e fascisti combattere dalla stessa parte, talvolta contro altri miliziani non meno fascisti.   Il governo russo finanzia apertamente partiti come Forza Nuova e Front National, ma questo non impedisce a Putin di essere molto popolare in un’ampia fascia della sinistra euro-occidentale.   In Italia, la Lega ha le sue roccaforti in zone un tempo comuniste e Grillo raccoglie consensi da entrambe le parti.  Tanto per citare solo qualche altro esempio.

Dunque, stando così le cose, la domanda che tanti si pongono è se una differenza esista ancora e, se si, quale sia.

Per cominciare, ho raccolto in una tabella alcuni temi caldi del momento, con la posizione più generalmente adottata da persone che si definiscono di destra o di sinistra.   Preciso che con Sinistra, non mi riferisco al PD o ad altri partiti di lungo corso, ma ai delusi dei medesimi che ora vagano in cerca di una casa politica.    Inoltre, la classificazione in “destra” e “sinistra” è ovviamente riduttiva, ma una trattazione approfondita esula dai limiti di un post.

Ovviamente, in tabella figurano solo alcuni dei temi politici del momento, ma sono quelli che suscitano il massimo di commenti e di animosità.   Quindi, probabilmente quelli che più fortemente influenzeranno le prossime elezioni.

In verde gli argomenti su cui si registra una sostanziale convergenza, in blu quelli su cui la convergenza è parziale, in rosso quelli su cui c’è una differenza sostanziale.

TEMA DESTRA SINISTRA
ISTITUZIONI EUROPEE fortemente contrari fortemente contrari
LIBERISMO ECONOMICO fortemente contrari fortemente contrari
EURO fortemente contrari fortemente contrari
SOVRANITÀ NAZIONALE fortemente favorevoli Favorevoli, ma non sempre
GLOBALIZZAZIONE fortemente contrari fortemente contrari
ATTUALE POLITICA RUSSA fortemente favorevoli fortemente favorevoli
TRUMP più o meno favorevoli posizioni prevalentemente contrarie, ma favorevoli su alcuni punti.
REDDITO DI CITTADINANZA fortemente favolrevoli fortemente favorevoli
POLITICA ECONOMICA ESPANSIVA fortemente favorevoli fortemente favorevoli
ISLAM fortemente contrari favorevoli
EBREI E ISRAELE (DI SOLITO CONFUSI) posizioni diverse, da contro per antisemitismo a pro per anti-islamismo. contrari o molto contrari per via della questione palestinese.
RAZZISMO favorevoli, talvolta molto. fortemente contrari
IMMIGRAZIONE fortemente contrari fortemente favorevoli (con qualche eccezione)
DIRITTI GAY fortemente contrari fortemente favorevoli (con qualche eccezione)
TENDENZE MACHISTE frequenti rare
AMBIENTE scarso interesse o contrari posizioni diverse, interesse da elevato a nullo a seconda.
CRISTIANESIMO molto favorevoli (nella versione Ratzinger) Spesso molto favorevoli (nella  versione Bergoglio).
GIUSTIZIALISMO fortemente favorevoli fortemente favorevoli

Salta all’occhio che, sulla maggior parte delle questioni che tengono banco sui social, molte posizioni sono tendenzialmente convergenti almeno in parte, anche se, spesso, per motivi almeno in parte diversi.

Le posizioni sono invece fortemente distinte in materia di diritti dei gay e delle donne, ma soprattutto in materia di immigrazione, islamica e non.

Prospettive

Partendo dal presupposto che la crescita economica non tornerà mai più (oramai lo dice anche il FMI) e che, anzi, tenderà a peggiorare, quali possono essere gli sviluppi della situazione?

Per quanto riguarda il primo punto (diritti gay e femminismo), più che vere posizioni politiche siamo spesso di fronte ad atteggiamenti mentali.   Attualmente sono inconciliabili, ma si sta assistendo alla rapida erosione delle posizioni “progressiste”.   Man mano che la crisi economica svuota le tasche della gente, la disponibilità a preoccuparsi per il matrimonio tra omosessuali, per dire, scema rapidamente.   Anche le posizioni duramente conquistate dalle femministe della passata generazione vengono rapidamente erose per ragioni analoghe, perfino fra le donne che pure sono il 50% del corpo elettorale.

L’immigrazione e tutta la galassia di argomenti che si muovono intorno ad essa sono invece un punto di scontro fondamentale che, al contrario di altri, tende a radicalizzarsi.   Anzi, la faccenda è tanto sentita che sorpassa oramai in peso politico quasi tutte le altre questioni.   Perfino le questioni economiche vengo spesso discusse in relazione agli effetti dell’immigrazione sul PIL, benefici o nefasti secondo le fonti.    Ben più vitale, il giudizio sull’adesione alla Comunità Europea oramai viene spesso discusso in relazione a come si pensa che la Commissione voglia gestire i flussi migratori.
In questo caso non credo che si possa mai arrivare ad una convergenza, ma penso che le prossime ondate di crisi economica e di crisi migratoria inevitabilmente sposteranno un’ulteriore quota di voti verso la destra.

Non credo infatti che la vertiginosa crescita dei movimenti xenofobi dipenda da un aumento di veri fascisti ed assimilabili, bensì dall’aumento di gente che si sente minacciata e si rivolge a chi, magari per ragioni non condivise, promette provvedimenti drastici (anche se magari irrealizzabili o inefficaci).   Poco importa a questo punto il come ed il perché, importa solo la paura.  Una paura che è alimentata tanto dalla propaganda xenofoba e razzista della destra, quanto dalla propaganda negazionista e buonista della sinistra.   E questo è un punto fondamentale su cui credo che non si sia riflettuto abbastanza.

Propaganda e contro-propaganda

La propaganda di destra è incentrata principalmente sul fatto che gli immigrati sono diversi da noi e che perciò creano problemi.   Si parla anche del fatto che sono tanti e che i governi devolvano ad essi risorse che vengono a mancare agli autoctoni.   Argomenti complessi ma che, comunque, rappresentano aspetti della situazione teoricamente gestibili. Viceversa, non una parola sull’unico aspetto drammaticamente inoppugnabile: l’Europa è un paese già terribilmente sovrappopolato che ha urgente bisogno di ridurre la propria massa umana, pena un rapido e dolorosissimo collasso.   In un passato anche recente molte società hanno infatti trovato il modo di funzionare con popolazioni assai diversificate, ma solo finché queste non hanno superato la capacità di carico dei loro territori.  Una cosa che gli europei hanno fatto un paio di secoli addietro, cavandosela poi solo grazie al fatto di essere stati in grado di far pagare ad altri in conto della loro prolificità.

Al di là delle differenze culturali, religiose, ecc. l’unico vero problema – il vero “elefante nella stanza” – è quindi che l’immigrazione vanifica la salutare decrescita della natalità interna.

Dal canto suo, la sinistra incentra la sua propaganda fondamentalmente su alcuni temi che le sono cari: l’uguaglianza, la solidarietà, il senso di colpa verso le classi ed i popoli più o meno maltrattati dal capitalismo occidentale.   C’è una parte di verità in quel che dice e, certamente, sono nobili i sentimenti cui fa appello.   Ma trascura di dire che la solidarietà e l’accoglienza hanno un prezzo in termini di ampliamento dell’Impronta Ecologica nazionale.   Un’impronta che già eccede di almeno il 50% i più prudenti parametri di sostenibilità.   Il fatto è che hanno perfettamente ragione a dire che gli stranieri sono proprio come noi: hanno gli stessi bisogni ed in gran parte gli stessi desideri.   Un fatto inoppugnabile che
Certo, la maggioranza di noi potrebbe rinunciare ad una fetta del proprio benessere a favore di altri, ma questo punto non è fra quelli posti in risalto.   Né si dice che questo prezzo salirà esponenzialmente man mano che i flussi necessariamente cresceranno, mentre la situazione ambientale e sociale europea non potrà che peggiorare.   Beninteso, peggiorerebbe anche senza immigrazione del tutto, solo un tantino meno rapidamente.   Ma il flusso di gente dall’estero crea una situazione troppo facilmente strumentalizzabile perché non venga sfruttata.

Questo è un punto chiave perché, mano a mano che la situazione sociale ed economica degrada, i problemi direttamente od indirettamente connessi con la sovrappopolazione non possono che aggravarsi.   Ed un numero crescente di persone deluse o spaventate continuerà a passare sul fronte opposto, facilitate proprio dal fatto che, su molti altri punti essenziali, i distinguo sono sempre più fumosi.

In sintesi, la pertinace ostinazione nel negare l’esistenza di un problema di numero di persone, apre la porta chi sostiene che il problema derivi dal colore delle persone.   In pratica, la sinistra dovrebbe capire che la sua propaganda e le politiche che sostiene (anche se spesso assai più dichiarate che praticate) stanno erodendo i margini per un ragionevole compromesso e stanno aprendo la strada a reazioni violente.

Un pronostico

In conclusione, azzardo un pronostico che spero sia sbagliato:  O i partiti di sinistra e di centro si affrettano ad elaborare posizioni e provvedimenti capaci di riportare i flussi, a livello europeo,  nell’ordine delle migliaia di persone l’anno, oppure un’ondata di governi “Trump stile” diverrà praticamente inevitabile.   Un errore che potrebbe risultare irreparabile, come sta ampiamente dimostrando l’amministrazione Trump.   Mentre vara prevedimenti tanto spettacolari quanto inutili o inattuabili sul fronte dell’immigrazione, il “tycoon” scatena tutto l’arsenale possibile per distruggere ciò che resta della capacità di carico del suo paese e del mondo intero.   Che poi è solo un altro modo per aggravare gli effetti della sovrappopolazione che, ricordiamoci, non derivano dal numero assoluto di persone, ma da come l’impatto complessivo di queste (popolazione moltiplicato consumi) incide sull’ambiente.   E dalla capacità degli ecosistemi di tamponare le alterazioni antopogeniche.

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