Il lavoro di assessore alla mobilità mi sta mettendo di fronte ad una serie di contraddizioni generate proprio dalle normative per l’organizzazione degli spazi urbani. L’esigenza di trasformare quegli stessi spazi in luoghi adatti alla fruizione ed alla socialità, e non soltanto al transito ed alla sosta dei veicoli, confligge continuamente con normative che frenano ogni cambiamento e contribuiscono a definire le città alienanti e disfunzionali che sperimentiamo ogni giorno sulla nostra pelle.
Pochi giorni fa si è trasformato nell’ennesimo battibecco un confronto, in sede di conferenza dei servizi, sul nodo di intersezione tra due piste ciclabili, una esistente e l’altra da realizzare. La soluzione proposta per l’attraversamento dell’incrocio da parte del flusso ciclistico si presentava ai miei occhi come inefficace, comportando una perdita di tempo totalmente priva di senso per la necessità di attendere ben tre fasi semaforiche al fine di raggiungere il lato opposto.
Da ciclista ho imparato negli anni a muovermi attraverso una città totalmente priva di infrastrutture dedicate, quelle poche presenti mal realizzate. Ho imparato a considerarmi di volta in volta veicolo e pedone, e ad utilizzare gli spazi in maniere creative, volte alla ricerca del miglior compromesso tra le esigenze di sicurezza e di velocità negli spostamenti. A muovermi, in sostanza, in modi che i manuali, redatti da gente che non ha mai avuto familiarità con la mobilità ciclabile, non è nemmeno in grado di immaginare.
Per questo, come già avvenuto molti anni prima per una diversa ciclabile (quella di viale Palmiro Togliatti), ho fermato la presentazione in corso ed ho rappresentato la soluzione per me ottimale, tracciando una linea in diagonale attraverso il centro dell’incrocio, anziché percorrerne le due estremità, e realizzando l’intero attraversamento in un’unica fase semaforica, impiegando per il transito un tempo stimabile tra i cinque e i dieci secondi.
Inutile dire che ciò ha sollevato le immediate obiezioni dei progettisti che, oltre a sentirsi scavalcati nel loro ruolo, hanno iniziato a fare riferimento a norme e normette, leggi e leggine, del tutto incuranti di quanto disfunzionale e scarsamente fruibile, per non dire priva di qualsiasi appeal per l’utenza ciclistica, fosse la soluzione da essi proposta. O, peggio, del tutto incapaci di comprenderne i limiti.
Altrettanto vani i miei tentativi di fare appello al buonsenso, di far comprendere loro che un impedimento del genere avrebbe ottenuto soltanto di spingere i ciclisti ad attraversare l’incrocio in modalità diverse e più efficaci, rendendo di fatto inutile la sistemazione realizzata. Modalità per me tanto evidenti e preferibili, quanto bizzarre ed incomprensibili devono essere risultate per loro.
Il fatto è che in una città dove la presenza dei ciclisti non è mai stata presa seriamente in considerazione, in una città che risulta integralmente ostile e scarsamente fruibile al punto da obbligare il ciclista ad inventare, giorno per giorno, minuto per minuto, le scelte da operare per preservare la propria incolumità, in una simile città la presenza di infrastrutture ciclabili appare come un orpello. Se queste infrastrutture sono oltretutto anche mal disegnate, l’unico risultato che ci si può attendere è che la loro presenza non venga neppure presa in considerazione, che i ciclisti non ne registrino la presenza o, una volta sperimentata, la rimuovano immediatamente dalla propria memoria e dalle proprie abitudini.
Più in generale, questa vicenda racconta di un conflitto insanabile tra norme mal ideate ed uso reale degli spazi pubblici, viari e non. Se la città risulta un coacervo di veicoli incolonnati, in sosta vietata, ammucchiati in ogni spazio disponibile, se i flussi pedonali risultano discontinui ed ostacolati da ogni sorta di intralcio, se i ciclisti non hanno spazi protetti ad essi dedicati e fanno un uso creativo e totalmente discrezionale di quanto trovano di fronte a sé, il motivo è uno solo: le regole che ci siamo dati sono difettose, deficitarie, incoerenti ed, in ultima analisi, sbagliate.
A questo punto fare appello a quelle stesse regole dovrebbe apparire da sé non sufficiente a garantire il buon esito dell’intervento. Come il ciclista deve individuare da sé la modalità migliore per muoversi attraverso questo caos, così il progettista di sistemazioni urbane dovrebbe comprendere che è richiesto un surplus di intelligenza e buonsenso per ovviare alle carenze intrinseche della normativa corrente, dato che quella stessa normativa non è stata in grado fin qui di disegnare città vivibili.
Questa è, attualmente, la grande sfida del rinnovamento urbano: rileggere con occhio critico gli errori del passato ed essere in grado, sfruttando un corpus legislativo che non può essere ignorato, di disegnare spazi pubblici radicalmente diversi da quelli prodotti fin qui, aggiungendoci del proprio l’intelligenza ed il buonsenso di cui la legislazione attuale risulta carente. Una sfida che evidentemente non tutti possono essere interessati, o semplicemente motivati, ad affrontare.
Quando si parla di qualcosa, è una buona abitudine di chiarire prima il significato delle parole che si usano. Specialmente quando ci sono ampi margini di vaghezza.
Dunque:
1 – Immigrato. Persona che si trasferisce per un lungo periodo di tempo (anni o decenni) in un luogo diverso da quello dove è nato. Può significare che proviene da un paese estero, ma anche da un’altra regione del medesimo paese, come i calabresi a Milano. Quasi sempre, il motivo per emigrare è la ricerca di un lavoro. Il 1 gennaio 2017, i cittadini stranieri regolarmente residenti in Italia erano circa 5 milioni (dati ISTAT), di cui circa 1.150.000 romeni e circa 100.000 da altri paesi UE. I residenti stabili con passaporto non europeo sono quindi circa 3,5 milioni, perlopiù albanesi e marocchini, seguiti da cinesi e ucraini. L’unico paese africano ad avere una comunità residente consistente è il Senegal con poco meno di 100.000 persone (v. tabella in calce all’articolo).
Norme e condizioni per gli immigrati sono completamente diverse a seconda dei paesi di partenza e di arrivo. Ad esempio, i cittadini dei “paesi Maastricht” possono stabilirsi dove vogliono, all’interno dell’UE, senza richiedere particolari permessi; di fatto non sono “stranieri”. Cittadini di altri paesi (ad es. la Georgia e l’Ucraina) possono invece entrare in Italia liberamente, ma per stabilircisi hanno bisogno di un permesso di soggiorno rilasciato dalla prefettura. Altri ancora hanno infine bisogno anche di un visto d’entrata, solitamente a termine, rilasciato dalla locale ambasciata del paese di destinazione.
2 – Profugo. Spesso usato come sinonimo di rifugiato, giuridicamente indica invece la persona che è costretta a tornare in patria dal paese dove era emigrata. Un esempio tipico sono gli europei tornati a seguito dell’indipendenza delle colonie; oppure gli italiani fuggiti dall’Argentina durante la dittatura. Attualmente, per l’Italia è un fenomeno irrilevante, ma fra un paio di anni potrebbe esserci una grave crisi, a seconda di come andranno le trattative per la “Brexit”.
4 – Richiedente asilo. Persona che richiede lo status di “Rifugiato” che viene rilasciato dalla prefettura in base alle disposizioni diramate dal Ministero degli Interni (v. seguito). Quantificare questa aliquota di persone è arduo perché in costante e rapida evoluzione. Sappiamo però che i “centri di accoglienza” ed il sistema “Sprar” (compreso il famoso albergo a 30 € giornalieri) accolgono circa 174.000 persone (dati Ministero dell’Interno aggiornati al marzo 2017). Non tutti sono richiedenti asilo, ma può andare come ordine di grandezza. Teoricamente, coloro le cui richieste non vengono accolte dovrebbero essere respinti o rimpatriati. In pratica ciò non avviene e, di solito, le persone si danno alla macchia arrangiandosi poi in qualche modo (v. seguito).
5 – Rifugiato. Persona che viene protetta dalle autorità del paese di accoglienza perché in patria è vittima di una specifica persecuzione per motivi politici, etnici o di altro genere. Di solito si tratta di singole persone come esponenti ed attivisti politici ; per esempio molti intellettuali russi fuggiti in occidente durante l’epoca sovietica. A seguito di guerre possono però acquisire lo status di rifugiato intere popolazioni, come i palestinesi fuggiti dalle zone occupate da Israele nel ’48 o gli Yazidi siriani fuggiti dalle zone occupate dall’ISIL nel 2015. Oggi i rifugiati in Italia sono fra i 150.000 ed i 190.000 a seconda degli anni, una delle cifre più basse d’Europa. E’ anche importante ricordare che lo status di rifugiato garantisce una serie di diritti, ma impone anche obblighi ben precisi.
5 – Extracomunitario. Persona che non ha un passaporto europeo. Dunque, fra gli altri, sono extracomunitari i somali ed i cinesi, ma anche gli americani e, fra un paio di anni, anche gli inglesi.
6 – Immigrato irregolare o Clandestino. Persona che si trova in territorio italiano senza autorizzazione. Per definizione, solo gli extracomunitari possono essere clandestini. Quanti siano ovviamente non si sa, ma sono stimati fra i 400 ed i 500.000 (dati Ministero degli Interni). Perlopiù è gente a cui è stato rifiutato lo status di rifugiato, ma a cui è stato dato un permesso temporaneo; oppure che semplicemente se la è squagliata da un centro di accoglienza. Teoricamente dovrebbero essere rimpatriati e le prefetture emanano circa 35.000 decreti di espulsione l’anno. Ma ne vengono effettuate meno del 10%, per una combinazione di fattori (costo elevato dell’operazione, farraginosità della procedura, ordini ministeriali). In compenso si conoscono bene le due principali porte di ingresso: gli aeroporti di Malpensa e di Fiumicino. La maggior parte degli irregolari arriva infatti tranquillamente in aereo, se necessario con un visto turistico o di studio, per poi rimanere campando di espedienti nella speranza di incappare in una sanatoria od altro sistema per regolarizzarsi.
La seconda rotta è quella dei barconi e dei salvataggi in mare che tanto spazio ottiene sui media, malgrado sia quantitativamente secondaria.
Un problema cruciale è che molte di queste persone vanno ad ingrossare le fila dei parassiti sociali, della malavita e/o dei nuovi schiavi, volenti o nolenti.
Dunque quale è il problema?
Tirando le somme, la popolazione extracomunitaria in Italia ammonta probabilmente a qualcosa vicino ai 4,5 milioni di persone (clandestini compresi), pari a circa il 7-8% della popolazione. E per rispondere a chi teme l’islamizzazione del paese, di questi meno della metà provengono da paesi a maggioranza mussulmana, e la metà di questi (circa 400.000) dall’Albania; non propriamente terra di islamisti scatenati.
Può non sembrare molto, eppure un pericolo che rischia di determinare in buona parte il futuro dell’Italia e dell’Europa, anche se per ragioni solitamente trascurate (o addirittura negate) anche da chi più teme questo fenomeno.
1 – La principalissima ragione è che l’Italia, come tutto il resto d’Europa e del mondo, è tremendamente sovrappopolata. Gli indicatori sono molteplici, ma qui citerò solamente l’Impronta ecologica che, molto approssimativamente, misura quanto una data popolazione ecceda la capacità di carico del suo territorio. L’Italia ha un’impronta pari a circa il quadruplo di ciò che sarebbe probabilmente sostenibile. Ovviamente, non conta solo il numero delle persone, ma anche quanto queste consumano. Non per niente, al calo del 25% del nostro PIL pro-capite dal 2008 (dati Banca Mondiale), ha fatto riscontro un quasi equivalente calo della nostra impronta ecologica. Una tendenza contrastata dall’aumento demografico, ma in misura limitata perché la stragrande maggioranza degli immigrati appartengono alle classi più povere che, loro malgrado, consumano meno della media nazionale. Dovrebbe perciò essere evidente che continuare a ridurre i consumi sarà necessario (probabilmente anche inevitabile), ma che su tempi nell’ordine dei decenni non può bastare. La decrescita dei consumi, felice o meno, potrà riportare la bilancia in equilibrio solo se accompagnata da una parallela, graduale riduzione della popolazione. Cioè esattamente quel 1,2 – 1,5 % l’anno circa che avremmo in assenza di un’immigrazione che, viceversa mantiene la popolazione su tassi di crescita molto alti: circa il 2% annuo, anche se con fortissime fluttuazioni (dati ISTAT). Ovviamente, 50 o 60 anni di decrescita demografica comporterebbero enormi difficoltà legate allo sbilanciamento verso l’alto della struttura demografica, ma sarebbe una crisi gestibile e prodroma di un migliore futuro. L’alternativa, continuare a crescere, servirebbe solo a rimandare ed aggravare il problema, visto che i bambini di oggi saranno i vecchi di domani (si spera). Finché, non sappiamo come e non sappiamo quando, sarà superato un limite oltre il quale la decrescita demografica avverrà comunque, ma in modo precipitoso ed incontrollabile.
2 – La seconda ragione è che attualmente l’Italia funziona come principale porta di ingresso in Europa per un flusso di persone che cercano poi di raggiungere altri paesi, soprattutto Francia, Germania, Inghilterra e paesi scandinavi. Vale a dire che l’Italia contribuisce largamente non solo alla crescita della propria popolazione extracomunitaria, ma anche a quella dei nostri vicini. Cosa che sta rendendo problematici i nostri rapporti con gli altri paesi europei. Temporanee e parziali chiusure delle nostre frontiere sono già avvenute. Se dovessero diventare definitive, il rischio di diventare un “cul di sacco” per una massa non valutabile di persone sarebbe molto elevato.
3 – Gli attuali livelli di pressione migratoria sono solo un blando assaggio di ciò che avverrà nei decenni venturi. Con l’intera Africa e l’intero mondo islamico, dal Pakistan al Marocco, sull’orlo del collasso e forse di una grande guerra pan-islamica le prospettive sono nerissime. Ciò che sta accadendo è solo l’inizio della deflagrazione della Bomba Demografica globale, qualcosa che non è mai accaduto prima nella storia dell’umanità e dalle conseguenze molto più tragiche di quanto non ci piaccia immaginare. In altre parole, una vera invasione non è ancora in corso, ma è fra le prospettive possibili già nel giro di pochi anni.
4 – Il pericolo maggiore connesso con il proseguimento dell’attuale politica sull’immigrazione è una crescita del livello di stress sociale che, prima o poi, finirà col portare partiti nazionalisti al governo di molti paesi UE. Certo, non possiamo essere certi di cosa farebbero una volta al comando; la differenza fra ciò che si dichiara quando si è all’opposizione e ciò che si fa quando si è al governo è solitamente notevole. Tuttavia è un’eventualità che potrebbe provocare la disintegrazione almeno parziale della delicata struttura comunitaria, lasciando parecchi paesi privi dei mezzi necessari per fronteggiare e gestire le crisi davvero gravi che sicuramente ci aspettano. Per esempio, non penso proprio che l’Italia odierna avrebbe né la forza politica, né quella militare per trattare accordi convenienti con gli altri paesi. Men che meno per controllare una frontiera come la nostra.
Proposte?
E’ molto rilassante essere un “signor Nessuno”, garantisce dal rischio che i propri eventuali errori vengano pagati da altri. Forte di ciò, vorrei azzardare qualche suggerimento.
Il primo punto da mettere in conto ritengo sia recuperare un ragionevole controllo sulle frontiere interne ed esterne. Che non significa sigillarle (non sarebbe nemmeno fattibile), bensì poter controllare l’ordine di grandezza dei flussi. Una cosa vitale per qualunque paese che intenda continuare ad esistere, ma molto più facile da dire che da fare e, comunque, molto costosa. Per questo, ritengo che solo un’effettiva collaborazione a livello europeo sarebbe una condizione necessaria , ancorché non sufficiente per riuscirci. Ciò presuppone che tutti i paesi concordino e rispettino un ragionevole compromesso fra le loro diverse posizioni; una cosa che finora nessuno ha voluto fare.
Il secondo punto è che non sono e non saranno un problema i rifugiati. Sono troppo pochi, sono i più motivati ad integrarsi e sono anche la categoria che pone i maggiori obblighi etici, visto che respingerli significa esporli a rischi elevati, non di rado mortali.
Il terzo è che l’accoglienza dei migranti in cerca di lavoro dovrebbe essere commisurata alla possibilità di un loro inserimento lavorativo. Certamente ci sono ancora dei margini, ma esigui ed in contrazione, vista la generale contrazione del nostro sistema economico che tende ad espellere e non ad assorbire forza lavoro.
Potrebbero sembrare banalità, ed invece sono alcuni degli scogli su cui si stanno infrangendo molte delle nostre speranze per una transizione non troppo dolorosa verso il mondo che sarà.
Cittadini stranieri regolarmente residenti al 1º gennaio
Nota: le comunità sovraelencate sono quelle che superano i 50.000 residenti nel 2016 e complessivamente costituiscono oltre l’82% degli stranieri in Italia.