Il conflitto per l’utilizzo delle strade

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Di chi sono le strade? Chi ha titolo di starci, di usarle? Quali utilizzi dovrebbero essere incentivati e quali limitati? Il dibattito su queste tematiche, nel nostro paese, è stato totalmente assente perlomeno da che ho memoria, diciamo l’intero ultimo mezzo secolo. Per questo motivo dovrò necessariamente partire da zero per sviluppare un excursus con minime pretese di senso compiuto.

Stando al corpus normativo le strade sono, almeno formalmente, spazio pubblico, quindi di tutti. Nessun cittadino dovrebbe avere a pretendere su di esse alcun diritto superiore ad altri. Questo, almeno, nella teoria. La pratica è, in realtà, ben diversa.

Nei contesti urbani la strada nasce fin dall’antichità come spazio di separazione tra le abitazioni. All’interno delle abitazioni si realizza l’ambito privato, mentre nello spazio tra le abitazioni si ha la dimensione pubblica, l’incontro, il confronto, lo scambio. Le strade, le piazze, rispondono ad un’esigenza innata dell’animo umano: la socialità.

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Nelle strade, nelle piazze, nasce la politica (da polis: città), perché solo in uno spazio pubblico le idee possono essere esposte alla popolazione, discusse, condivise, fino a trovare un consenso collettivo.

Nelle strade, all’aperto, si sviluppa il commercio al dettaglio, nascono i mercati, perché solo nello spazio pubblico, sotto gli occhi di tutti, si realizzano le condizioni più idonee a fare affari, sia per chi compra che per chi vende.

Nello spazio pubblico si realizza poi concretamente il senso di collettività, l’appartenenza di gruppo, di villaggio, di clan. Solo nello spazio pubblico si può arrivare a definire quali comportamenti ed azioni producano un miglioramento del benessere diffuso e quali, per contro, assecondino unicamente finalità egoistiche che nuocciano a gli altri.

Le strade, le piazze, gli spazi pubblici sono state questo, per millenni. Luoghi dove la popolazione commerciava, si radunava, dava luogo a cerimonie religiose, dove gli oratori arringavano le folle portando le proprie idee, dove i bambini giocavano, i giovani amoreggiavano, i mercanti commerciavano.

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Col passare dei secoli accade qualcosa che mette in crisi questo modello. Accadono più cose, in realtà. Possiamo elencare: la nascita delle nazioni moderne dalla frammentazione dell’Impero Romano, lo sviluppo delle città come sedi del potere militare, l’inurbazione legata al miglioramento delle tecniche agricole e di allevamento, ed infine la rivoluzione industriale, che stravolge i modelli di sussistenza di larghissime fette di popolazione.

Le città crescono in dimensione e complessità, e parallelamente crescono le esigenze di movimento all’interno delle stesse, nasce il trasporto collettivo, prima coi tram a cavalli, poi con quelli elettrici. Ma l’impatto realmente devastante si ha con la raffinazione del petrolio e la sua applicazione ad un mezzo di trasporto individuale: l’automobile.

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Il petrolio e l’automobile stravolgono completamente la forma delle città, e questo è più evidente nelle città del ‘nuovo mondo’, che sono cresciute senza un nucleo storico a fare da modello, ma influenza pesantemente la forma urbis di ogni città del globo terracqueo. Il petrolio fornisce quantità sconfinate di energia per animare i processi industriali, l’estrazione di materie prime, la produzione di cibo e la fabbricazione di oggetti.

D’un tratto l’occupazione principale dell’umanità passa dal farsi guerra reciprocamente al consumare il più in fretta possibile questa nuova risorsa, fabbricare oggetti di ogni forma e natura, nutrirsi meglio e godere di una ricchezza inimmaginabile per le generazioni precedenti.

Come impatta questo sulla forma città? In molti modi diversi. Più energia, più ricchezza, significano la possibilità di abitare in una casa propria, di possedere un’auto propria.

Se per generazioni la necessità era stata quella di una singola stanza, o anche solo di un letto in una stanza abitata da altre persone (senza andare lontano basta chiedere ai nonni, che ancora se ne ricordano), con l’avvento del consumismo si passa a desiderare un intero appartamento, sia per il nucleo famigliare, che per la coppia senza figli, che per il ‘single’. In qualche caso si arriva a possedere, oltre alla casa dove si abita, una seconda casa per le vacanze.

Questo fenomeno, da sé, produce l’esplosione delle periferie urbane, col risultato di aggravare altri problemi. Il primo fra tutti è che in queste città enormemente espanse le esigenze di mobilità aumentano esponenzialmente. Più persone devono spostarsi per raggiungere i luoghi di lavoro, o d’interesse, o del commercio.

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L’espansione della funzione abitativa non produce un equivalente decentramento delle altre funzioni della città, col risultato che masse di persone sempre più numerose sono ora costrette a muoversi frequentemente per tragitti progressivamente più lunghi.

Nell’immaginario collettivo l’unica soluzione possibile, e forse desiderabile, per far fronte a tale necessità diventa l’automobile.

Demonizzare l’automobile non è lo scopo di questo post. Rimane tuttavia necessaria una contestualizzazione degli esiti prodotti dall’utilizzo su larghissima scala di questo strumento, smontando le mitologie autoelogianti prodotte dalla massiccia e pervasiva propaganda, operata su un arco temporale di decenni, dall’industria dell’auto.

Cominciamo col dire che l’automobile è, del suo, un veicolo ingombrante. Questa realtà potrà non essere immediatamente percepita in una società ormai assuefatta al suo utilizzo, ma l’automobile occupa, abbastanza ingiustificatamente, molto più spazio di una persona che si sposti a piedi, ed occupa questo spazio, se parcheggiata in strada, anche quando non è in uso.

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La diffusione di massa di questo nuovo veicolo, agevolata da dinamiche economiche che ho spiegato in un precedente post ha modellato la crescita delle nuove urbanizzazioni e si è scontrata frontalmente con quelle più antiche.

Se nei nuovi quartieri lo spazio per l’auto di famiglia è stato ricavato, all’interno o all’esterno delle abitazioni (con garages e parcheggi all’aperto), nei centri storici delle città le sistemazioni preesistenti hanno impedito questo tipo di soluzione. Lo spazio per la sosta delle automobili è stato quindi ricavato disegnando parcheggi sulle sedi stradali, col risultato di restringere lo spazio destinato alla circolazione e marginalizzare le altre modalità di spostamento ed uso delle strade.

Man mano che la gran parte della popolazione si convertiva all’uso dell’automobile, questo innescava ulteriori problemi, primo fra tutti l’intasamento delle arterie stradali.

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Inevitabilmente, il trasferimento di buona parte della popolazione nei nuovi quartieri di periferia, e l’assenza di un reale piano di decentramento delle attività lavorative e produttive, ha finito col produrre flussi centripeti di cittadini automuniti in direzione dei centri città, e l’esigenza di destinare spazi sempre maggiori alla sosta di tali veicoli.

Un’ulteriore aggravante a tale situazione è risultata l’abitudine tradizionale al possesso della casa in cui si vive. Questo ha prodotto, nel corso degli anni, un irrigidimento delle abitudini abitative, cui non ha corrisposto un’altrettanta rigidità delle situazioni lavorative. Il risultato, sull’arco dei decenni, è che le distanze tra abitazioni e luoghi di lavoro sono mediamente aumentate, e con esse la necessità di spostarsi con mezzi propri.

Il trasporto pubblico ha sofferto in vario modo queste trasformazioni sociali. Le politiche che hanno favorito la motorizzazione di massa non potevano che svantaggiare l’utilizzo del trasporto collettivo, ben più efficiente in termini di persone trasportate e limitata occupazione del suolo pubblico. Nel tempo è stata proprio la crescita esponenziale del numero di veicoli in circolazione ad imprigionare gli autobus negli ingorghi e ridurne la velocità commerciale.

Il colpo di grazia, ad una situazione già del suo estremamente degradata, è stata l’idea che il traffico, per scorrere, dovesse essere “fluidificato”. Questo ha comportato l’ampliamento delle sedi stradali, la riduzione degli spazi pedonali (marciapiedi), la marginalizzazione di modalità di spostamento più lente (anche se molto meno voraci quanto ad occupazione di spazi) come le biciclette. Per lunghi anni si è lavorato ad aumentare la velocità di scorrimento delle automobili all’interno dei centri urbani.

Il risultato di queste politiche è sotto gli occhi di tutti. In primis si registra un aumento dell’incidentalità stradale e della gravità degli incidenti. Il problema degli ingorghi non è stato risolto, al contrario, la velocizzazione operata sulle arterie che danno accesso al centro città ha esasperato la quantità di veicoli che si imbudellano quotidianamente nelle vie storiche. L’assenza di qualsivoglia piano per la delocalizzazione dei parcheggi di superficie ha condotto alla saturazione degli spazi sosta esistenti ed alla pratica diffusa ed incontenibile della sosta in doppia fila.

Tutto questo ha portato guadagni enormi nelle tasche di pochi, ed esasperato la conflittualità urbana per il diritto a spostarsi ed utilizzare le pubbliche strade. Senza contare il fatto che lo spazio pubblico è stato pressoché interamente destinato ai clienti dell’industria dell’auto ed alle loro necessità, marginalizzando ogni possibile utilizzo alternativo.

Le strade si sono trasformate, lentamente e senza che ce ne rendessimo pienamente conto, da luoghi di incontro, socialità, gioco e commercio, in spazi destinati unicamente alla movimentazione ed alla sosta di automobili. Ogni altra attività che le aveva caratterizzate nell’arco dei millenni è stata resa per legge impossibile, impraticabile o troppo pericolosa.

La medicina per tale forma ormai conclamata di disagio psichico è una e una soltanto: ridurre i dosaggi di questa droga che sta uccidendo le nostre città e distruggendone la socialità. Non a caso è esattamente la direzione in cui si stanno muovendo le realtà europee più evolute.

Riduzione dell’uso dell’auto, riduzione degli spazi ad essa dedicati, riduzione delle direttrici di transito e liberazione dal traffico delle zone residenziali in primis. L’organizzazione della mobilità nelle città dovrà privilegiare il trasporto collettivo affrancandolo dall’imprigionamento negli ingorghi prodotti dai mezzi privati.

Parallelamente si dovranno ridurre tutte le facilitazioni all’uso ed al possesso di veicoli privati, dall’ampiezza delle carreggiate stradali alla disponibilità di spazi di sosta sul suolo pubblico, cercando di limitare per quanto possibili gli utilizzi non motivati da reale necessità.

Ridurre l’utilizzo diffuso di auto private comporterà prima di tutto benefici economici rilevanti. La sola spesa sanitaria legata all’incidentalità stradale ed ai danni sanitari direttamente imputabili all’uso di automobili è nell’ordine di 1000€ l’anno a testa, mentre i costi annui di possesso ed utilizzo delle automobili sono nell’ordine di 6/7000€ a veicolo.

La semplice sostituzione dell’auto di proprietà con un abbonamento a servizi di auto condivise (car-sharing), unito ad un abbonamento annuale al trasporto pubblico, comporterebbe un abbattimento di tali costi ed un rientro in circolo nell’economia locale di ingenti flussi economici.

Sul lungo periodo le strade smetteranno di essere parcheggi a cielo aperto e/o trappole potenzialmente mortali ad ogni attraversamento, e ridiventerebbero spazi delegati all’incontro ed alla socialità, dove sedersi a sorseggiare una bibita, guardare i bambini giocare a palla, leggere un libro, sfidare a carte gli amici, cenare all’aperto o corteggiare un/a potenziale partner.

Niente di più, o di meno, di quello che sono state per secoli, prima che decidessimo di riempirle di automobili e finire col dimenticarci a cosa servissero.

Destra versus Sinistra

destra versus sinistra
“L’illusione della libera scelta”. Due ingressi per il medesimo abbattitoio.

Senza pretendere di sviscerare una questione che appassiona fior di politologi, vorrei qui proporre alcune riflessioni molto parziali e personali, derivate dalla mia limitata esperienza di “navigatore internet”.   Le pubblico nella speranza di stimolare dei commenti che aiutino me ed altri a raccapezzarmi in questo guazzabuglio.

Per cominciare

Per cominciare, vorrei ricordare che, anche in passato, Destra e Sinistra sono spesso state abbastanza vicine da scambiarsi idee, metodi e scopi.   Populisti  e socialisti  sono stati spesso nemici giurati, pur volendo entrambi proteggere la gente comune dalla rivoluzione capitalista.   Il Fascismo nacque da una costola del Partito Socialista ed il nome completo del partito di Hitler era “Partito Nazional-Socialista”; un partito che nella DDR è rimasto al potere fino al 1989 senza neppure cambiare nome.   Tanto per citare un paio di esempi scelti non a caso.
Ben più vicino a noi, nei momenti caldi della guerra del Donbass si sono visti volontari internazionali comunisti e fascisti combattere dalla stessa parte, talvolta contro altri miliziani non meno fascisti.   Il governo russo finanzia apertamente partiti come Forza Nuova e Front National, ma questo non impedisce a Putin di essere molto popolare in un’ampia fascia della sinistra euro-occidentale.   In Italia, la Lega ha le sue roccaforti in zone un tempo comuniste e Grillo raccoglie consensi da entrambe le parti.  Tanto per citare solo qualche altro esempio.

Dunque, stando così le cose, la domanda che tanti si pongono è se una differenza esista ancora e, se si, quale sia.

Per cominciare, ho raccolto in una tabella alcuni temi caldi del momento, con la posizione più generalmente adottata da persone che si definiscono di destra o di sinistra.   Preciso che con Sinistra, non mi riferisco al PD o ad altri partiti di lungo corso, ma ai delusi dei medesimi che ora vagano in cerca di una casa politica.    Inoltre, la classificazione in “destra” e “sinistra” è ovviamente riduttiva, ma una trattazione approfondita esula dai limiti di un post.

Ovviamente, in tabella figurano solo alcuni dei temi politici del momento, ma sono quelli che suscitano il massimo di commenti e di animosità.   Quindi, probabilmente quelli che più fortemente influenzeranno le prossime elezioni.

In verde gli argomenti su cui si registra una sostanziale convergenza, in blu quelli su cui la convergenza è parziale, in rosso quelli su cui c’è una differenza sostanziale.

TEMA DESTRA SINISTRA
ISTITUZIONI EUROPEE fortemente contrari fortemente contrari
LIBERISMO ECONOMICO fortemente contrari fortemente contrari
EURO fortemente contrari fortemente contrari
SOVRANITÀ NAZIONALE fortemente favorevoli Favorevoli, ma non sempre
GLOBALIZZAZIONE fortemente contrari fortemente contrari
ATTUALE POLITICA RUSSA fortemente favorevoli fortemente favorevoli
TRUMP più o meno favorevoli posizioni prevalentemente contrarie, ma favorevoli su alcuni punti.
REDDITO DI CITTADINANZA fortemente favolrevoli fortemente favorevoli
POLITICA ECONOMICA ESPANSIVA fortemente favorevoli fortemente favorevoli
ISLAM fortemente contrari favorevoli
EBREI E ISRAELE (DI SOLITO CONFUSI) posizioni diverse, da contro per antisemitismo a pro per anti-islamismo. contrari o molto contrari per via della questione palestinese.
RAZZISMO favorevoli, talvolta molto. fortemente contrari
IMMIGRAZIONE fortemente contrari fortemente favorevoli (con qualche eccezione)
DIRITTI GAY fortemente contrari fortemente favorevoli (con qualche eccezione)
TENDENZE MACHISTE frequenti rare
AMBIENTE scarso interesse o contrari posizioni diverse, interesse da elevato a nullo a seconda.
CRISTIANESIMO molto favorevoli (nella versione Ratzinger) Spesso molto favorevoli (nella  versione Bergoglio).
GIUSTIZIALISMO fortemente favorevoli fortemente favorevoli

Salta all’occhio che, sulla maggior parte delle questioni che tengono banco sui social, molte posizioni sono tendenzialmente convergenti almeno in parte, anche se, spesso, per motivi almeno in parte diversi.

Le posizioni sono invece fortemente distinte in materia di diritti dei gay e delle donne, ma soprattutto in materia di immigrazione, islamica e non.

Prospettive

Partendo dal presupposto che la crescita economica non tornerà mai più (oramai lo dice anche il FMI) e che, anzi, tenderà a peggiorare, quali possono essere gli sviluppi della situazione?

Per quanto riguarda il primo punto (diritti gay e femminismo), più che vere posizioni politiche siamo spesso di fronte ad atteggiamenti mentali.   Attualmente sono inconciliabili, ma si sta assistendo alla rapida erosione delle posizioni “progressiste”.   Man mano che la crisi economica svuota le tasche della gente, la disponibilità a preoccuparsi per il matrimonio tra omosessuali, per dire, scema rapidamente.   Anche le posizioni duramente conquistate dalle femministe della passata generazione vengono rapidamente erose per ragioni analoghe, perfino fra le donne che pure sono il 50% del corpo elettorale.

L’immigrazione e tutta la galassia di argomenti che si muovono intorno ad essa sono invece un punto di scontro fondamentale che, al contrario di altri, tende a radicalizzarsi.   Anzi, la faccenda è tanto sentita che sorpassa oramai in peso politico quasi tutte le altre questioni.   Perfino le questioni economiche vengo spesso discusse in relazione agli effetti dell’immigrazione sul PIL, benefici o nefasti secondo le fonti.    Ben più vitale, il giudizio sull’adesione alla Comunità Europea oramai viene spesso discusso in relazione a come si pensa che la Commissione voglia gestire i flussi migratori.
In questo caso non credo che si possa mai arrivare ad una convergenza, ma penso che le prossime ondate di crisi economica e di crisi migratoria inevitabilmente sposteranno un’ulteriore quota di voti verso la destra.

Non credo infatti che la vertiginosa crescita dei movimenti xenofobi dipenda da un aumento di veri fascisti ed assimilabili, bensì dall’aumento di gente che si sente minacciata e si rivolge a chi, magari per ragioni non condivise, promette provvedimenti drastici (anche se magari irrealizzabili o inefficaci).   Poco importa a questo punto il come ed il perché, importa solo la paura.  Una paura che è alimentata tanto dalla propaganda xenofoba e razzista della destra, quanto dalla propaganda negazionista e buonista della sinistra.   E questo è un punto fondamentale su cui credo che non si sia riflettuto abbastanza.

Propaganda e contro-propaganda

La propaganda di destra è incentrata principalmente sul fatto che gli immigrati sono diversi da noi e che perciò creano problemi.   Si parla anche del fatto che sono tanti e che i governi devolvano ad essi risorse che vengono a mancare agli autoctoni.   Argomenti complessi ma che, comunque, rappresentano aspetti della situazione teoricamente gestibili. Viceversa, non una parola sull’unico aspetto drammaticamente inoppugnabile: l’Europa è un paese già terribilmente sovrappopolato che ha urgente bisogno di ridurre la propria massa umana, pena un rapido e dolorosissimo collasso.   In un passato anche recente molte società hanno infatti trovato il modo di funzionare con popolazioni assai diversificate, ma solo finché queste non hanno superato la capacità di carico dei loro territori.  Una cosa che gli europei hanno fatto un paio di secoli addietro, cavandosela poi solo grazie al fatto di essere stati in grado di far pagare ad altri in conto della loro prolificità.

Al di là delle differenze culturali, religiose, ecc. l’unico vero problema – il vero “elefante nella stanza” – è quindi che l’immigrazione vanifica la salutare decrescita della natalità interna.

Dal canto suo, la sinistra incentra la sua propaganda fondamentalmente su alcuni temi che le sono cari: l’uguaglianza, la solidarietà, il senso di colpa verso le classi ed i popoli più o meno maltrattati dal capitalismo occidentale.   C’è una parte di verità in quel che dice e, certamente, sono nobili i sentimenti cui fa appello.   Ma trascura di dire che la solidarietà e l’accoglienza hanno un prezzo in termini di ampliamento dell’Impronta Ecologica nazionale.   Un’impronta che già eccede di almeno il 50% i più prudenti parametri di sostenibilità.   Il fatto è che hanno perfettamente ragione a dire che gli stranieri sono proprio come noi: hanno gli stessi bisogni ed in gran parte gli stessi desideri.   Un fatto inoppugnabile che
Certo, la maggioranza di noi potrebbe rinunciare ad una fetta del proprio benessere a favore di altri, ma questo punto non è fra quelli posti in risalto.   Né si dice che questo prezzo salirà esponenzialmente man mano che i flussi necessariamente cresceranno, mentre la situazione ambientale e sociale europea non potrà che peggiorare.   Beninteso, peggiorerebbe anche senza immigrazione del tutto, solo un tantino meno rapidamente.   Ma il flusso di gente dall’estero crea una situazione troppo facilmente strumentalizzabile perché non venga sfruttata.

Questo è un punto chiave perché, mano a mano che la situazione sociale ed economica degrada, i problemi direttamente od indirettamente connessi con la sovrappopolazione non possono che aggravarsi.   Ed un numero crescente di persone deluse o spaventate continuerà a passare sul fronte opposto, facilitate proprio dal fatto che, su molti altri punti essenziali, i distinguo sono sempre più fumosi.

In sintesi, la pertinace ostinazione nel negare l’esistenza di un problema di numero di persone, apre la porta chi sostiene che il problema derivi dal colore delle persone.   In pratica, la sinistra dovrebbe capire che la sua propaganda e le politiche che sostiene (anche se spesso assai più dichiarate che praticate) stanno erodendo i margini per un ragionevole compromesso e stanno aprendo la strada a reazioni violente.

Un pronostico

In conclusione, azzardo un pronostico che spero sia sbagliato:  O i partiti di sinistra e di centro si affrettano ad elaborare posizioni e provvedimenti capaci di riportare i flussi, a livello europeo,  nell’ordine delle migliaia di persone l’anno, oppure un’ondata di governi “Trump stile” diverrà praticamente inevitabile.   Un errore che potrebbe risultare irreparabile, come sta ampiamente dimostrando l’amministrazione Trump.   Mentre vara prevedimenti tanto spettacolari quanto inutili o inattuabili sul fronte dell’immigrazione, il “tycoon” scatena tutto l’arsenale possibile per distruggere ciò che resta della capacità di carico del suo paese e del mondo intero.   Che poi è solo un altro modo per aggravare gli effetti della sovrappopolazione che, ricordiamoci, non derivano dal numero assoluto di persone, ma da come l’impatto complessivo di queste (popolazione moltiplicato consumi) incide sull’ambiente.   E dalla capacità degli ecosistemi di tamponare le alterazioni antopogeniche.

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Rossi e Neri

Di Igor Giussani

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Quando ero giovane e frequentavo la vasta galassia del movimento no global – parlare di militanza sarebbe eccessivo – un amico mi diede un’importante lezione di vita spiegandomi che, in politica, le maggioranze silenziose combinano poco o nulla, mentre le minoranze casinare possono provocare grandi sconvolgimenti.  La rivoluzione di Ottobre e i nazifascismi, ad esempio, storicamente hanno avuto origine da gruppi talvolta sparuti per numero, ma capaci di farsi sentire, ricorrendo a strumenti alternativi alla voce se necessario.

Oggigiorno, esiste una minoranza casinara attiva soprattutto in Rete le cui idee vengono  spregiativamente etichettate come ‘rossobrunismo’ (termine soventemente adottato anche dal sottoscritto) o ‘populismo’ (dispregiativo o elogiativo a seconda di chi lo usa), che ha i suoi punti di riferimento (a torto o ragione) nelle formazioni politiche considerate meno legate al sistema (M5S, Lega Nord e Fratelli d’Italia), in giornalisti non mainstream quali Giulietto Chiesa o Paolo Barnard, in nuovi filosofi e icone mediatiche come Diego Fusaro.   Il personaggio di Napalm51, interpretato da Maurizio Crozza, ne è la caricatura satirica (ma talvolta abbastanza fedele).

Posso sembrare sarcastico e irrispettoso, invece se ci scherzo un po’ sopra è per risollevarmi pensando al solco che si sta gradualmente creando tra me e amici di vecchia data attratti dal nuovo pensiero: ex militanti altermondisti (alcuni dei quali già stravaganti vent’anni fa), sinceri ambientalisti e anche qualcuno con cui ho condiviso un percorso intellettuale radicale come quello della decrescita. Tutta gente di cui potrei decantare cultura e genuina passione civile, capace se necessario di mettere le ragioni della Causa al centro della propria esistenza, dando prova di un’abnegazione a me sconosciuta (fatto che può però avermi immunizzato dall’aderire a fedi fanatiche).

Personalmente, mi accorgo che il rossobrunismo è stato l’approdo finale per molti militanti di sinistra delusi. Penso a quelli che, al momento della ‘svolta riformista’, hanno rigettato l’illusione di dare una volto umano alla globalizzazione neoliberale, aderendo pertanto all’ala sedicente ‘radicale’ e ancora orgogliosamente comunista. Tuttavia, a fronte di pretese rivoluzionarie ridotte a battaglie di retroguardia per difendere il welfare state socialdemocratico, del disinteresse delle masse e di una leadership politica opportunista, la disillusione è rapidamente montata; ora hanno ritrovato una nuova carica ideale.

Si dichiarano orgogliosamente populisti anche molti che, nauseati dal dogma ideologico della ‘fine delle ideologie’ a dall’ascesa del pensiero debole, hanno cercato rifugio nelle narrazioni ‘forti’ novecentesche, originando bizzarri sincretismi.
Il giovane filosofo Diego Fusaro è uno dei loro principali punti di riferimento. Spiega Marcello Veneziani: ”Per riassumere il loro messaggio: rifacciamo il Novecento, ma stavolta facciamolo meglio. E non gli estremi, ma lasciamoli convergere, considerando che il vero antagonista è il Centro tecnocratico globale, la cinica Macchina che produce deserti… Difatti, mi dicono, la loro provenienza è mista e i libri citati pure. Da de Benoist a Preve, da Evola a Marx, da Giacinto Auriti a Serge Latouche. Marxisti evoliani, gramsciani-gentiliani, e via con gli ossimori”. (http://www.ilgiornale.it/news/cultura/giovani-trasversali-ribelli-evviva-i-nuovi-pensatori-1037328.html)

In pratica, si fondono l’anticapitalismo e le tendenze antiborghesi di destra e sinistra.   Siccome il capitalismo globalizzato ultima versione si è ammantato di cosmopolitismo ergendosi a campione dei diritti umani e civili, è prevalsa l’opinione che la resistenza passi attraverso la difesa a oltranza di nazione, religione, tradizione e conservatorismo sociale (il multiculturalismo è visto con estremo sospetto, ma è nota anche l’ossessione per ‘l’ideologia gender’ e le rivendicazioni del movimento LGTB), dimenticando che tali presunti strumenti di opposizione sono stati tutti vessilli del capitalismo in altre fasi storiche (e, giudicando l’armamentario retorico di Trump, si direbbe che il Capitale stia per indossare nuovamente le vecchie maschere).

Aggiunge ancora Veneziani: “Non manca, è vero, un vago sapore complottista nelle loro analisi, la convinzione che ci siano centrali più o meno occulte che dispongono gli eventi e i flussi e sono sempre le stesse, ormai ricorrenti, quasi proverbiali”.   Si assiste infatti a uno straordinario rovesciamento di valori per cui tutto ciò che è sostenuto dal ‘sistema’ (in tutte le sue forme, dalle istituzioni politiche ed educative fino ai mass media) diventa emblema di errore e falsità. Le élite mondiali esprimono preoccupazione per il global warming? E’ la prova che si tratta di un invenzione per manipolare le coscienze.  Il governo che precarizza il mercato del lavoro prepara una legge per le unioni civili e cerca di sensibilizzare in materia di omofobia e violenza sulle donne? Istanze da rigettare in quanto provvedimenti per distrarre l’opinione pubblica dai ‘veri’ problemi. La storia che vi hanno insegnato a scuola? Scritta dai vincitori, quindi menzogna.  Ambientalismo?  Un complotto ordito da associazioni massoniche come il Club di Roma.  I medici consigliano di vaccinare i bambini?  Sono assoldati dalla lobby farmaceutica per vendere i loro prodotti…

In sintesi, mi sembra di individuare quattro categorie di persone legate al fenomeno rossobruno:

  • ideologi e guru: con questi non vale la pena di parlare, nella migliore delle ipotesi si verrà accusati di essere “inutili idioti”, “servi sciocchi del capitale” e amenità simili;
  • fascisti 2.0: mi pare inconcepibile uno scambio costruttivo pure con chi semplicemente ricopre di intellettualismo le proprie inclinazioni violente e razziste;
  • sinistroidi: erano già abbastanza dogmatici quando il loro unico credo era Marx…
  • gente ‘normale’ delusa dalla società ed alla ricerca di qualche punto di riferimento: qui invece investirei del tempo. Ma di chi si tratta esattamente?

E’ gente che è entrata a far parte della minoranza casinara provenendo dalla maggioranza silenziosa e non ideologizzata, che non è mai stata violenta e che anzi si è sempre comportata da buon cittadino. Che credeva nella funzione informatrice di tv e giornali e oggi fatica a distinguere il giornalismo professionista da Lercio. Che ha creduto alle rassicurazioni di scienziati ed esperti per pentirsene amaramente in diverse occasioni. Che ha sostenuto la causa dell’antirazzismo e del multiculturalismo per poi vedere manodopera straniera sottopagata allo scopo di incrinare le conquiste sociali ed è stata travolta da un’immigrazione crescente e malgestita, con inevitabile degrado sociale. Che ha aderito a campagne umanitarie o di sensibilizzazione ecologica scoprendo di essere stata raggirata. Che ha votato a sinistra credendo di arginare il malcostume berlusconiano ottenendo invece un governo deciso a concludere il lavoro lasciato incompleto dalla destra e una classe politica non meno disinvolta dell’ex-cavaliere e dei suoi scagnozzi. Che si vergogna all’idea di lasciare ai figli un benessere inferiore a quello dei genitori.  Che ha gioito al crollo del muro di Berlino auspicando l’inizio di un’epoca di pace, per assistere invece al triste spettacolo della superpotenza vincitrice della guerra fredda (nonché presunta paladina di democrazia e diritti umani) che ne approfittava per disseminare guerre in Iraq, Kosovo, Afghanistan, Libia nel totale disprezzo del diritto internazionale. Che ha creduto nella fratellanza europea e ora deve soggiacere ai diktat della UE a guida tedesca. Che ha sentito discorsi solenni in occasione del giorno della Memoria ed eventi analoghi, per poi vedere gli oratori rimanere indifferenti (quando non sostenere attivamente) altri genocidi. Che dopo essersi sentita fregata da discorsi e persone all’apparenza ‘normali’ e ‘ragionevoli’ ora è irresistibilmente affascinata da qualsiasi narrazione ‘eretica’ e da personalità ‘inedite’ e ‘fuori dagli schemi’ (Trump, Berlusconi, Renzi, ecc).

Insomma, queste persone hanno assistito al declino inesorabile di importanti istituti del mondo moderno, quali la democrazia liberale, lo sviluppo tecnico-scientifico, la tolleranza e l’apertura culturale. E’ un’impresa far ragionare un amante tradito, è più probabile che la pancia si imponga sulla testa facendo scambiare le cause con le conseguenze, operando semplificazioni indebite e inneggiando a motti assurdi del tipo ‘il nemico del mio nemico è mio amico’ o ‘tanto peggio tanto meglio’. Ma se fosse possibile dialogare?

Bisognerebbe spiegare che indipendenza di giudizio, riappropriazione del proprio spazio esistenziale dall’invadenza degli esperti e rifiuto della commercializzazione di ogni aspetto della vita umana non possono sfociare nella chiusura culturale, nel disprezzo per il sapere e nell’elevazione del conformismo a regola sociale. Che il desiderio di ‘sovranità’ e la ricostruzione di uno spazio politico contro il pensiero unico non possono coincidere con la riproposizione di vecchie istituzioni logore e stantie, se non proprio corresponsabili della situazione attuale.  Soprattutto, la critica della modernità non deve trasformarsi in rifiuto della modernità, occorre invece una modernità riflessiva – per utilizzare un’espressione di Ulrich Beckche analizzi criticamente i suoi stessi capisaldi  (progresso, sviluppo, controllo della natura e pretese conoscitive) così come fece a suo tempo con religione e tradizione.  Invece della retorica identitaria, dovremmo imparare che la nostra personalità è il risultato della continua tensione dialettica tra attaccamento alla tradizione e apertura all’influenza esterna (proveniente da mercato, mass media, incontri con culture differenti, ecc.), dove l’adesione incondizionata a uno dei due estremi significa soltanto alienazione. E laddove si vedono ‘complotti’ o ‘apparati’ bisogna imparare a riconoscere ‘sistemi’, nel senso inteso da Jay Forrester, i Meadows e altri pionieri del pensiero contemporaneo; rigettando le spiegazioni semplicistiche del populismo e accettando che a problemi complessi corrispondono spiegazioni complessi (e parziali).

Oramai queste persone potrebbero essere troppo stanche e disilluse per interessarsi seriamente a un messaggio complicato e ricco di concetti anti-intuitivi, senza contare il rischio di passare per pedanti grilli parlanti non meno tediosi dei truffatori passati. Ma proprio perché esiste ancora un terreno comune tra noi e loro, la possibilità di un dialogo è ancora reale. In futuro, nuove generazioni populiste imbevute fin dalla culla di rossobrunismo potrebbero rifiutare qualsiasi confronto se non addirittura  proporsi risolutamente di zittirci.

Il mondo A, il mondo B

Il mondo A e il mondo B orbitano uno intorno all’altro, si osservano reciprocamente coi telescopi ma hanno sviluppato civiltà completamente diverse. Nel mondo A gli abitanti ragionano in anticipo sulle complicazioni che potrebbero generarsi dall’adozione di nuovi comportamenti ed abitudini, modellando le leggi in base ai risultati desiderati. Nel mondo B si lasciano andare le cose un po’ a casaccio, confidando che si assesteranno da sé (come un illuminato filosofo ha teorizzato secoli prima). Il mondo A è regolato, il mondo B è ‘libero’.

Nel mondo A i governanti hanno seguito attentamente l’avvento dell’automobile privata. L’analisi del trend di occupazione di spazi pubblici da parte dei nuovi veicoli ha mostrato una progressione preoccupante. Uno studio dell’Università Mondiale ha dimostrato che, ai tassi attuali di crescita, tutto lo spazio pubblico nelle città sarebbe stato occupato nel volgere di pochi decenni, al punto che nessuno più sarebbe stato in grado di muoversi per pura e semplice mancanza di spazi sulle strade.

Nel mondo B l’automobile viene accolta con spontaneo entusiasmo. Le pubblicità delle case automobilistiche promettono libertà illimitata agli acquirenti dei veicoli, status sociale, eleganza e successo. L’idea di porre dei limiti al possesso ed all’utilizzo di tali mezzi viene strangolata nella culla dall’opportunismo delle classi politiche e dal timore di perdere consensi. L’intera organizzazione urbana viene piegata alla volontà popolare, manipolata dal bombardamento pubblicitario, ed orientata ad offrire ogni spazio possibile alla movimentazione ed alla sosta dei veicoli privati.

Il mondo A attiva pertanto politiche di regolazione e limitazione sull’uso delle strade. Il numero di spazi destinati alla sosta viene contingentato in base alla popolazione residente, la sosta a tempo indefinito in strada viene vietata e come condizione obbligata per l’acquisto di una nuova autovettura viene imposto il possesso di un’area privata (box o parcheggio condominiale) dove posteggiarla quando non è in uso. Il numero complessivo delle autovetture vendute si stabilizza su cifre estremamente basse.

vienna-kaerntnerstrasse

Nel mondo B la sosta in strada è consentita senza limitazioni, al punto che gli abitati finiscono col considerarla un diritto inalienabile. Col progressivo aumentare della ricchezza, un numero sempre maggiore di autovetture viene lasciato in sosta sulle strade, restringendo le carreggiate ed eliminando ogni possibilità di sosta temporanea. Col passare degli anni si inizia progressivamente a tollerare la sosta temporanea in doppia fila, sugli attraversamenti, sui marciapiedi, e considerata dai più non evitabile, il risultato è una ulteriore congestione delle sedi stradali, un rallentamento complessivo dei flussi di traffico e l’estrema frequenza di ingorghi. Questo induce negli abitanti un senso di frustrazione, sfogata sotto forma di stili di guida aggressivi.

Nel mondo A, grazie alle sedi stradali non congestionate, i mezzi pubblici scorrono alla velocità commerciale ottimale, trasportano in poco spazio molti passeggeri, sono veloci, efficienti e puntuali. Un’efficienza tale da far sì che molte famiglie non abbiano necessità di possedere un’automobile.

Nel mondo B i mezzi pubblici sono fortemente penalizzati dall’esiguità delle sedi stradali, dalla sosta d’intralcio in doppia fila, dalla pura e semplice congestione delle strade. Le dimensioni di tali veicoli li rendono svantaggiati nei confronti delle più veloci e scattanti auto private, penalizzati nella competizione per lo spazio stradale che si fa di giorno in giorno più aggressiva. Di pari passo con la perdita di efficienza del trasporto pubblico si ha la migrazione degli abitanti in direzione del trasporto privato, che viene percepito come l’unica maniera efficiente di muoversi da un punto all’altro della città. L’abitudine ad utilizzare sempre e soltanto l’auto privata fa sì che si perda una precisa cognizione delle potenzialità dell’offerta pubblica, con un progressivo calo dell’utenza e l’impossibilità di giustificare i costi di gestione a causa dello scarso utilizzo. Nel corso degli anni vengono quindi smantellate le forme di trasporto ad alta efficienza in sede propria (tram, treni) per fare ulteriore spazio alla movimentazione delle auto private.

Nel mondo A, non essendo garantita a priori la possibilità di spostarsi ovunque con mezzi privati, le nuove edificazioni devono rispondere a standard urbanistici estremamente rigidi. Le infrastrutture di mobilità vengono progettate contestualmente agli edifici, in modo che a breve distanza da ogni abitazione sia presente un efficiente nodo di scambio col trasporto pubblico, e che le esigenze di mobilità dei futuri abitanti non motorizzati non siano penalizzate.

Nel mondo B si costruiscono case, palazzi, complessi residenziali, intere urbanizzazioni senza la minima progettualità su come i futuri abitanti dovranno poi muoversi. Spesso le nuove urbanizzazioni finiscono a ricasco della rete viaria, già satura, di altri quartieri, prolungando i tempi di accesso alla viabilità principale e paralizzando completamente il già sofferente trasporto pubblico. L’assenza di pianificazione delle modalità di spostamento produce quartieri dormitorio, privi dei servizi sociali e culturali essenziali, che obbligano i residenti ad un continuo viavai in automobile, da un quartiere all’altro, da un ingorgo al successivo.

Nel mondo A le attività produttive devono ragionare la propria collocazione in base alle esigenze di mobilità dei propri dipendenti. Sono obbligate a rendere disponibile uno spazio di sosta per ogni singolo dipendente che pervenga con l’auto privata perché, come già detto, la sosta sulle sedi stradali è vietata, ma devono anche tener conto che molti potenziali dipendenti non possiedono un’auto, e se vogliono accedere alle migliori eccellenze del settore non possono collocarsi troppo lontano dai nodi del trasporto pubblico. Questo fa sì che le attività produttive siano in genere collocate in zone facilmente raggiungibili anche senza bisogno di automobili.

Nel mondo B, la modalità con la quale i dipendenti raggiungono il posto di lavoro non è un problema degli imprenditori. Dato per scontato che tutti si possano muovere in macchina, le attività produttive orientano la scelta della propria collocazione in base ad altre priorità, come i bassi costi dei terreni e/o degli uffici o gli incentivi pubblici per le aree depresse. In questo modo vengono privilegiate aree lontane dagli abitati. Il risultato è che costi e tempi di percorrenza (traducibili in ore di vita) vengono scaricati con la massima tranquillità sulle spalle dei dipendenti, che sono obbligati a provvedere da sé al raggiungimento di luoghi di lavoro spesso lontanissimi dalle abitazioni, con costi familiari poco percepiti e contribuendo all’ulteriore intasamento della rete stradale.

Nel mondo A l’aria è scarsamente inquinata, la maggior parte delle persone si sposta velocemente su mezzi pubblici elettrici (treni, metropolitane, tram), o veicoli privati leggeri (biciclette tradizionali ed a pedalata assistita), risparmia sui costi del possesso di un’automobile privata senza subire penalizzazioni alla propria vita sociale, culturale e relazionale. Le strade relativamente sgombre consentono all’esigua minoranza che si sposta ancora con l’auto privata di avere tempi certi di spostamento, senza lo stress degli ingorghi ed il rischio di non arrivare in orario. Questo produce stili di guida più rilassati, velocità più basse e maggior attenzione alla sede stradale, col corollario di una minor incidentalità, che a sua volta si traduce in minori costi collettivi per la spesa sanitaria.

Nel mondo B le strade sono un luogo di perenne conflitto: tra automobilisti, tra automobilisti e pedoni, tra automobilisti e ciclisti. Lo spazio delle sedi stradali è conteso tra i veicoli che lo usano per muoversi e quelli che vi devono sostare temporaneamente per svolgere le proprie commissioni. Si registra un’elevata incidentalità, malattie da stress, da sedentarietà, aggressività diffusa e disagio sociale. Il tutto è aggravato dall’enorme drenaggio di risorse economiche prodotto dal possesso di auto private, pari ad un quarto di quanto mediamente guadagnato da ogni lavoratore dipendente, dalla perdita di ore di vita e lavorative quotidianamente spese ad annaspare nel traffico, dalla frustrazione, dai costi collettivi e sociali di tale modello.

Ora il mondo B osserva coi telescopi il mondo A. Gli abitanti del mondo B vedono che sul mondo A tutto funziona, ma non riescono a comprendere come tutto ciò si sia prodotto, nel tempo. Colgono l’esteriorità di uno stile di vita più funzionale, più felice, meglio organizzato, ma non sono in grado di guardare con distacco ai propri errori, alle proprie contraddizioni, che anzi in molti continuano a giustificare nel meccanismo psicologico noto come ‘negazione’. Nessuno vuole ammettere di essere compartecipe del disastro collettivo, ed ognuno cerca un capro espiatorio cui accollare tutte le colpe. In ultima istanza, nel mondo B ogni abitante pretende che il cambiamento inizi da qualcun altro che non sia sé stesso, additando di volta in volta soluzioni inefficaci pur di continuare a mantenere le proprie abitudini, inevitabilmente sbagliate.

Nel mondo B, anno dopo anno, decennio dopo decennio, non si registra alcun cambiamento.

(l’idea per questo post deve un enorme un tributo al romanzo “The Dispossessed”, della scrittrice americana Ursula K. Le Guin)

La grande onda e piccoli uomini

hokusai surfing the big wave

Un’altra onda dipinta da Hokusai

Di recente Ugo, ha fatto un passo al di la del suo ormai celeberrimo dirupo di Seneca. E l’ha esemplificato con la grande onda di Hokusai. Credo abbia ragione.

E’ facile, dopo la tragedia dell’Hotel di Rigopiano, gridare all’evento straordinario, oppure, al contrario alla speculazione edilizia. La verità secondo me è che quella di Rigopiano non è stata una tragedia annunciata. Ne è un canarino nella miniera, che segnala che qualcosa sta succedendo al clima. E’ piuttosto il simbolo, l’ennesimo, della nostra incapacità di piccoli uomini di avere la piena consapevolezza di quel che facciamo, delle conseguenze delle nostre scelte, vicine e lontane. In pratica, stiamo esponendo l’intero pianeta ad un esperimento climatico mai visto INSIEME ad un esperimento ecologico mai visto. L’asservimento dell’intera biosfera ai bisogni di una singola specie. E la devastazione del sottile equilibrio che aveva garantito, fin qui, il clamoroso successo evolutivo di quella specie.

O credete che sia un caso, il fatto che ci siano voluti quasi centomila anni, ad uomini indistinguibili da noi, dal punto di vista fisiologico, per uscire dal paleolitico?

Ora, è decisamente tardi, troppo troppo tardi per stupirsi e, d’altronde è anche troppo tardi per prendere provvedimenti che non siano quelli di prepararsi a molti, forse troppi, avvenimenti del genere. Abbiamo scatenato una belva. Tre metri di neve. o tre giorni di pioggia. o tre mesi di siccità. o tre ore di uragano. Non importa. E gli albergatori di Rigopiano, con il loro albergo realizzato su un’area non sicura al cento per cento sono in clamorosa compagnia di buona parte degli insediamenti montani moderni e non solo.

Motivo semplice: eventi rarissimi, plurisecolari, di cui pure si conserva debole traccia geologica, diventano sempre più frequenti tanto da essere probabili nel corso della vita di un insediamento.

Se i nostri nonni erano sufficientemente prudenti e sufficientemente pochi, in queste zone di montagna, da scegliere solo i luoghi più sicuri e più riparati per gli insediamenti, ormai i villaggi  di montagna sono cresciuti a dismisura, trasformandosi in alcuni casi in vere cittadine e saturando lo spazio di fondovalle disponibile. spesso questi fondovalle nascondono le tracce di eventi catastrofici antichi, remoti o addirittura recenti. Un caso per tutti: Alleghe.

alleghe

Attualmente un ridente borgo di montagna, adagiato intorno ad un bellissimo laghetto. questo laghetto fino al 1771 non esisteva. Una enorme frana, staccatasi dal Monte Piz, sbarrò una valle, uccise 49 persone, distrusse un paio di paesi e portò alla formazione del lago.

SE fosse successa oggi, e potrebbe succedere, in uno delle centinaia di borghi montani sviluppatisi nel frattempo, in tutte le Alpi,  i morti si sarebbero contati a migliaia. La frana non era caduta per un caso, ovviamente ma per ben precisi motivi geologici. Questi motivi permangono ed eventi climatici estremi potrebbero riattivare la zona di frana o altre zone limitrofe con simili configurazioni geologiche. Allo stesso modo, il numero crescente di eventi meteoclimatici estremi non è un caso ma la conseguenze, prevedibile e prevista, del riscaldamento globale che solo un diversamente biondo, inopinatamente presidente degli Stati Uniti, può ritenere non nostra responsabilità.  Il combinato disposto di elevata antropizzazione delle nostre montagne e crescente esposizione ad eventi estremi rende certi altri eventi disastrosi. frane, inondazioni, slavine catastrofiche. Prepariamoci a tanti Rigopiano. Ce li siamo cercati. La grande onda che abbiamo generato non possiamo fermarla. Possiamo solo provare a surfarla.

L’errore evolutivo

Charles-Robert-Darwin

Torno dopo molto tempo e, purtroppo per i lettori, stavolta il post è su un argomento strettamente filosofico, di quelli che raccolgono pochissime letture e condivisioni. Nondimeno la sensazione che ho è quella di aver toccato uno dei ‘grandi temi’: il ruolo dell’intelligenza umana nello schema generale delle cose.

Fino a non molto tempo addietro mi è capitato di sollevare il dubbio che l’intelligenza umana non fosse altro che un errore del processo evolutivo. Era poco più che un’intuizione, che ora proverò a sostanziare. Inevitabilmente dovrò partire da una descrizione generale dei processi vitali.

Quella che chiamiamo ‘vita’ è, in estrema sintesi, un processo in cui molecole autoreplicanti, a diversi gradi di complessità, competono per le risorse disponibili. Le forme viventi, fin dalle più semplici, si nutrono di altre molecole, organiche ed inorganiche. Questo processo, in larga misura cannibalistico, comporta un progressivo aumento della complessità.

Se osserviamo la biosfera nel suo complesso quello che vediamo sono forme di vita che si nutrono di altre forme di vita, un processo che si nutre principalmente di se stesso, alimentato dall’energia radiante gentilmente fornitaci dal nostro Sole. All’interno di questo meccanismo di creature che si nutrono di altre creature si produce nel tempo quella che Darwin definì ‘selezione naturale’, gli individui più efficienti hanno maggior probabilità di sopravvivere e riprodursi: ciò innesca il processo evolutivo.

Ora, il punto è questo: finché il processo non coinvolge l’intelligenza, quello che osserviamo è un progressivo incremento della quantità di biomassa e della biodiversità. Finché gli esseri viventi si limitano a competere fra loro per le risorse, il processo produce spontaneamente un aumento della biomassa complessiva ed il progressivo sequestro delle sostanze (atomi, molecole, prodotti chimici complessi) nocive per la vita stessa.

Questo perché i processi biologici comportano di per sé, spontaneamente, una trasformazione degli habitat in luoghi favorevoli alla vita. Le sostanze tossiche o inquinanti vengono o metabolizzate e scomposte, o allontanate dai luoghi dove i processi vitali si svolgono, seppellite, precipitate come sali neutri, rese innocue. E ciò semplicemente procedendo in via egoistica, semplicemente lasciando che ogni singolo individuo, animale o vegetale, persegua il suo personale benessere metabolizzando quello che ha intorno a sé.

Cosa avviene, dunque, con l’avvento dell’intelligenza? Questo ciclo virtuoso si interrompe, dal momento che le esigenze di benessere individuale (e collettivo) coincidono col rimettere in circolo veleni e sostanze tossiche da lungo tempo sepolte e sequestrate. L’intelligenza, per mezzo dello sviluppo della tecnologia, scava dal terreno gli idrocarburi sepolti per rilasciare, a seguito della combustione, CO2 nell’atmosfera, scava dal terreno metalli radioattivi a bassa intensità e con essi, per mezzo della fissione nucleare, produce ulteriore radioattività.

L’incapacità dell’intelligenza umana di riconoscere la propria appartenenza ai processi biologici, anzi, molto spesso il rifiuto categorico di questa elementare verità, immobilizzato e trasmesso attraverso i libri sacri, fa sì che la fase terminale del processo di industrializzazione coincida con una devastazione senza precedenti della biodiversità a livello globale.

In questo contesto, i processi innescati dall’intelligenza umana differiscono profondamente da quanto prodotto dall’evoluzione lungo l’intero arco temporale dallo sviluppo della vita sulla Terra. Credo perciò che questo possa dimostrare la tesi iniziale, ovvero che lo sviluppo dell’intelligenza rappresenti un cambio di paradigma che dirotta drasticamente i processi biologici dalla linea seguita con continuità nelle ere geologiche precedenti.

Se questo possa essere considerato un errore di percorso cui rimediare, a pena di un’estinzione massiva di specie viventi, ivi inclusa quella portatrice di intelligenza, o semplicemente un necessario incidente di percorso cui farà seguito un assestamento che non comporterà la scomparsa dell’intelligenza dal pianeta, ad oggi è cosa impossibile da stabilire.