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L’ideologia dei consumi

quino(post originariamente pubblicato sul blog Mammifero Bipede)

Facendo seguito alla riflessione iniziata una settimana fa, sento la necessità di approfondire la questione delle ideologie, per comprendere il potere che hanno su di noi e quanto profondamente influenzino le scelte della società attuale. La nostra percezione della realtà è infatti in larga parte frutto di una stratificazione di ideologie, non di rado fra loro contrastanti, che la nostra cultura ha ereditato dai secoli precedenti.

Per circoscrivere l’ambito del ragionamento cominciamo col dare una definizione di ideologia. Stando a Wikipedia ‘L’ideologia è il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale’. L’ideologia è, in base a questa definizione, l’architettura mentale all’intero della quale il nostro cervello colloca gli avvenimenti per potergli attribuire un ordine ed un senso.

Storicamente l’esigenza di possedere una ‘visione del mondo’ globale emerge in parallelo allo sviluppo del cervello umano, all’aumentata capacità di raccogliere e ricordare informazioni, eventi, situazioni, alla necessità di prendere decisioni ed orientare scelte.

La più antica forma di ideologia è con molta probabilità il pensiero religioso, nato per dar conto della quantità di eventi inspiegabili ed incomprensibili cui i nostri antenati erano soggetti (oltre a dar sollievo alla già discussa angoscia della morte). Il pensiero religioso attribuisce gli eventi inspiegabili all’intervento di entità soprannaturali come divinità, angeli e demoni, narra la nascita del mondo e la sua fine, detta comportamenti corretti e minaccia ritorsioni ‘nell’aldilà’, o sventure accidentali, a chi non vi ottempera.

Le religioni costituiscono una prima forma di interpretazione globale dell’esistente. All’interno di un unico sistema di idee viene dato conto dell’esistenza del Mondo e vengono fornite le istruzioni di base per relazionarsi reciprocamente (codificate, per le religioni di origine biblica, nei famosi Dieci Comandamenti). Un sistema di idee che necessariamente coinvolge il concetto di ‘giustizia’, elemento chiave per la gestione delle dispute tra singoli individui e tra individui e gruppi.

Man mano che le popolazioni crescono numericamente, migrano e si espandono, mescolando fedi e credi, l’elaborazione dell’idea di giustizia si svincola formalmente dalla dimensione teologica producendo codici di leggi atti a regolare i rapporti tra i singoli, tra i gruppi, su su fino alle sovra-entità, come le città stato o le prime piccole nazioni. Tuttavia la legge umana non può ancora, in questa fase, mancare di discendere da quella divina, producendo l’avvento delle religioni di stato, dotate dell’autorità di designare imperatori e re.

Le religioni hanno di fatto dominato il mondo fino a tempi relativamente recenti, articolandosi, differenziandosi, e dotandosi di diversi sistemi di leggi in base alla complessità delle strutture sociali e statali realizzate dai popoli ad esse sottomessi. Gli ultimi secoli, tuttavia, hanno visto l’avvento di un sistema di idee completamente diverso.

Il ‘pensiero scientifico’ è un’ideologia relativamente recente che afferma la conoscibilità dell’Universo per mezzo dell’osservazione, avendo cura di eliminare gli errori introdotti dalla soggettività dell’osservatore. così facendo ha imposto una brusca accelerazione alla comprensione del mondo, svincolando la realtà fattuale dall’intervento di entità divine e mettendo in crisi l’autorevolezza delle religioni preesistenti.

Tuttavia il metodo scientifico presenta un margine di incompletezza che non gli consente di rimpiazzare interamente le religioni. Il suo campo di applicabilità si limita alla definizione di ‘come’ i fatti avvengano, mentre l’animo umano è costantemente alla ricerca di risposte alla domanda: ‘perché’.

Perché esistiamo? Perché dobbiamo gioire e soffrire? Perché adesso? Perché noi e non altri? L’animo umano si dibatte fin dalla notte dei tempi per trovare una propria collocazione all’interno del quadro degli eventi. Le risposte che il pensiero scientifico è in grado di produrre non riescono a soddisfare questa domanda di identità e di senso, semmai la negano.

La scienza ci ha fornito strumenti straordinari per la manipolazione del mondo: motori, macchine, sistemi di trasporto merci, rilanciando massicciamente un’ideologia di dominio già propria degli imperi dell’antichità. Basata, al pari delle religioni, su assunti indimostrabili, ma capace di conferire ricchezza e potere mai visti prima.

Detronizzate le religioni dal loro pulpito e nell’incapacità, da parte del pensiero scientifico, di offrire orientamenti di ordine etico, l’umanità ha abbracciato l’idea che lo sfruttamento del Mondo fosse il proprio destino manifesto inventando l’ideologia del progresso (la cui declinazione economica è detta ‘teoria della crescita indefinita’). Un’apologia dell’avanzamento tecnologico che ha prodotto nel tempo ricchezza, prosperità ed una superiorità militare tale da imporre la propria volontà al resto del mondo.

Perché, va detto, il successo o l’insuccesso di un’ideologia dipende strettamente, molto più che dalla logica e verosimiglianza degli assunti, dai vantaggi immediati e di medio periodo che l’ideologia stessa è in grado di garantire dapprima ai singoli individui, ed al crescere del fattore di scala ai gruppi sociali che la abbraccino.

Detto in poche parole l’attuale ‘crescita dei consumi’ è consistita sostanzialmente nella conversione di fonti energetiche fossili, materie prime minerali, suoli fertili e risorse generalmente non rinnovabili in cibo e manufatti di breve durata, che dato il velocissimo tasso di sostituzione trovano rapidamente la strada della discarica, trasformandosi, al termine di un ciclo di vita estremamente rapido, in rifiuti velenosi o tossici.

L’ideologia del progresso ha plasmato gli ultimi tre secoli di storia umana producendo un’accelerazione senza precedenti nel consumo di risorse, nell’aspettativa di benessere, nella trasformazione (distruzione) di ecosistemi, nella generazione di sostanze inquinanti ed un parallelo, drammatico, declino della biodiversità.

Se l’Universo non appartiene più a Dio, l’uomo si sente autorizzato a farne ciò che vuole. L’ideologia del progresso ha, in ultima istanza, deresponsabilizzato l’umanità facendo leva sull’avidità e sul tornaconto immediato. L’intera società moderna, l’organizzazione delle città, il sistema dei trasporti basato sulle automobili private, i meccanismi disumani di produzione industriale di merci e cibo, la sovrappopolazione, sono tutte filiazioni di questo miraggio infondato ed indimostrabile.

In ultima analisi il pensiero scientifico ci ha fornito strumenti senza precedenti per la comprensione della realtà fisica, ma nel contempo ha mancato di produrre un’architettura etico/morale in grado di gestire le trasformazioni da esso stesso innescate, scoperchiando un colossale Vaso di Pandora capace di attentare all’esistenza stessa del mondo come lo conosciamo.

È proprio all’interno di questo quadro che si può fotografare il momento attuale: un’umanità affascinata dall’ideologia del consumo fine a se stesso, egoistico e deresponsabilizzante, che finisce col consumare, in ultima istanza, senza inibizioni o freni di natura etico/morale, gli individui che ne fanno parte, le loro vite ed il mondo intero.

Strategie dissipative

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L’enorme debito che ho nei confronti del pensiero di Charles Darwin consiste nell’acquisita consapevolezza che le trasformazioni si verificano sotto la spinta di necessità, non del caso. Le specie viventi, e parimenti le società, non evolvono se non in risposta ad un cambiamento profondo nelle condizioni di contorno. Se tale cambiamento non avviene le specie, le società, restano immobili.

L’umanità ha attraversato senza trasformazioni significative gli ultimi centomila anni, conducendo un’esistenza di cacciatori-raccoglitori, diffondendosi sulla maggior parte delle terre emerse del pianeta e dando vita a forme primitive di organizzazione sociale. Le principali trasformazioni si sono avute negli ultimi diecimila anni, in seguito alla domesticazione di forme animali e vegetali.

L’invenzione di allevamento ed agricoltura ci ha proiettati fuori dall’equilibrio instaurato con l’ambiente naturale, producendo una cascata di trasformazioni ed innovazioni: la regimentazione idrica, l’invenzione dell’aratro e delle prime macchine, la lavorazione di legno e metalli, l’aumentata disponibilità di energia (cibo, quindi lavoro umano ed animale) per comunità organizzate su larga scala.

Questo surplus di risorse ed energia ha prodotto, come conseguenza, i grandi imperi ed i grandi monumenti del passato. Gli imperatori dell’antichità sapevano bene di dover gestire il consumo di queste risorse, altrimenti l’avrebbe fatto qualcun altro al posto loro, e la soluzione al surplus fu l’erezione di monumenti alla propria grandezza, che le popolazioni percepivano come monumenti all’intera civiltà di cui essi stessi facevano parte.

In questa prospettiva è l’aumento di risorse disponibili, la momentanea ricchezza, ad innescare le trasformazioni sociali, a dar vita agli aggregati umani, alle città, ai regni, agli imperi. Ed è la cattiva gestione di questa estemporanea ricchezza, o il suo inevitabile esaurimento spontaneo, a causarne il collasso.

La crisi di una forma di approvvigionamento energetico produce, come diretta conseguenza, la ricerca di una fonte alternativa. Per millenni la forma di lavoro più utilizzata è stata quella muscolare, umana ed animale, che richiedeva come fonte energetica il cibo. A questa forma di forza lavoro si sono via via affiancate altre modalità, meccaniche, in grado di sfruttare disponibilità energetiche diverse da quelle alimentari.

La movimentazione di pesanti macine si è realizzata sfruttando l’energia potenziale dell’acqua in caduta, per mezzo di mulini idraulici. In qualche caso al posto dell’acqua si è usato il vento, già impiegato come propellente per viaggiare sull’acqua per mezzo di vele. Queste applicazioni erano però strettamente legate ai luoghi dove gli impianti risultavano originariamente localizzati.

La progressiva sostituzione nei macchinari delle parti in legno con equivalenti in metallo ha infine condotto alla possibilità di sfruttare una nuova forza lavoro: la pressione del vapore, e condotto all’epoca d’oro di una nuova fonte energetica: il carbone. Le macchine a vapore innescarono la rivoluzione industriale, rendendo disponibili quantità d’energia pro-capite prima di allora impensabili.

Riassumendo: una tribù di cacciatori-raccoglitori ha a disposizione solo la forza lavoro delle singole persone, e questa viene impiegata integralmente per la sopravvivenza e la fabbricazione di semplici utensili. Una città stato agricola ha parte della popolazione occupata nella produzione di cibo, in questo modo producendo un surplus di cibo in grado di alimentare altra popolazione impiegabile in attività accessorie (artigiani, artisti, sacerdoti, scienziati, militari).

Una civiltà industriale in grado di sfruttare fonti energetiche fossili ha una percentuale minima della popolazione impiegata nella produzione di cibo, ed una percentuale ben maggiore impiegata nella produzione di beni. La quantità di beni producibile comporta la necessità di una ulteriore trasformazione culturale e sociale.

Poiché, come già accennato prima, risulta sul breve termine premiato il soggetto in grado di realizzare il massimo consumo di risorse, qualunque civiltà deve sviluppare strategie dissipative in grado di massimizzare i propri consumi. Da un lato per avere un margine di creatività per sviluppare nuove idee e tecnologie, dall’altro per impedire che le stesse risorse siano rese disponibili alle civiltà antagoniste.

Strategie dissipative che hanno prodotto l’opulenza della civiltà egizia prima e romana dopo. Che hanno visto una crisi temporanea nel medioevo dalla quale si è poi usciti con la rivoluzione industriale. L’enorme disponibilità energetica pro-capite resa disponibile dallo sfruttamento petrolifero si è infine tradotta in un modello culturale e sociale improntato al consumo sfrenato.

Come i grandi monumenti del passato, le città imperiali dell’antichità, furono il prodotto di una trasformazione epocale nella disponibilità di risorse, innescata dall’invenzione dell’agricoltura e dalla metallurgia, così l’automobile privata ed il consumismo sono state la risposta ad una disponibilità di energia pro-capite mai verificatasi prima su così larga scala nella storia dell’umanità.

Nella trasformazione culturale che ha accompagnato tale transizione è risultata funzionale l’invenzione di una nuova ‘idea del mondo’ caratterizzata dalla proiezione delle trasformazioni in atto nel vicino e lontano futuro dell’avventura umana. A distanza di diversi decenni potremmo chiederci come stia andando in realtà. La risposta è molto diversa dalle aspettative nel tempo maturate.

Tutta una serie di concause convergono nel produrre una progressiva riduzione della disponibilità energetica pro-capite. In primis la sovrappopolazione, conseguenza inevitabile dell’aumentata disponibilità di risorse, sta aumentando il denominatore dell’equazione più rapidamente di quanto aumenti il numeratore. Detta in maniera più spicciola, se in un arco di tempo la quantità di energia disponibile aumenta del 50% e la popolazione del 100%, alla fine ognuno avrà a disposizione meno energia, anche se il totale prodotto è superiore a prima.

Il secondo problema è che gran parte dell’apparente aumento di produzione energetica è annullato dalla riduzione dell’EROEI. Se anche la produzione mondiale di petrolio aumenta leggermente da un anno all’altro, quello che si riduce è il conto energetico netto, perché man mano che i pozzi si esauriscono l’estrazione di petrolio diventa via via più costosa.

Il terzo problema è che, ad oggi, non sono state individuate fonti energetiche, fossili o rinnovabili, con un bilancio energetico paragonabile a quello del petrolio all’inizio del ventesimo secolo (un valore di EROEI pari ad 1:100, ovvero 100 barili di petrolio estratti al costo di un solo barile). Possiamo mettere in opera centrali solari ed eoliche, ma non arriveremo mai più alla disponibilità energetica pro-capite degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

Il quarto problema è che, al pari delle fonti fossili, anche la disponibilità di materie prime si va riducendo, le miniere sovrasfruttate rendono meno, le terre fertili si impoveriscono e degradano, i costi energetici di produzione aumentano. Queste quattro concause, come i quattro cavalieri dell’apocalisse, rendono ineluttabile un ripensamento delle aspettative globali riguardo alla disponibilità di ricchezza individuale.

La crisi attuale è solo l’avvisaglia di un declino generalizzato nella disponibilità di energia, materie prime e cibo che dovremo fronteggiare nei decenni a venire. Pretendere di affrontarla con gli strumenti culturali del positivismo illuminista, o con l’ideologia della ‘crescita indefinita’, che obnubila ogni analisi di natura economica è, a mio avviso, di una scelleratezza criminale.

La trappola della scimmia

Monkey trap
Da diversi giorni vado ragionando sulle trappole per scimmie. Non so se l’idea mi sia arrivata da Jacopo, che ne aveva scritto pochi mesi addietro, o stesse lì già da tempo. Fatto sta che l’ho in testa da un po’ e, riflettendoci, continua a trasmettermi con prepotenza una sensazione di spiacevole familiarità. Il mio amico Paolo è solito affermare che, se si vogliono capire i comportamenti umani, basta pensare alle scimmie e tutto trova spiegazione. Dunque, che cosa sta tentando di raccontarmi questa idea, su di me e sul resto dell’umanità?

La trappola per le scimmie sfrutta un meccanismo psicologico molto sottile. Il cacciatore predispone un contenitore, vaso o bottiglia, o anche la semplice cavità di un tronco, con un’apertura da un lato, ampia a sufficienza perché la scimmia possa infilarci la zampa, quindi inserisce nell’apertura un frutto all’incirca della stessa grandezza dell’orifizio, e si apposta a breve distanza. La scimmia infila la mano nell’apertura, afferra il frutto, ma a questo punto non riesce più a sfilare l’arto. Potrebbe farlo facilmente se decidesse di lasciare andare l’oggetto afferrato, ma lo desidera troppo, quindi rimane imprigionata per il tempo necessario alla cattura.

Una delle costanti culturali della specie umana, fin dalla notte dei tempi, è il tentativo di rimarcare la nostra differenza dal resto del regno animale. Dall’antichità più remota l’uomo descrive sé stesso come apice della creazione divina, dominatore del mondo, cui tutte le altre specie viventi devono essere asservite. Così ce la raccontiamo da millenni, confidando che il ripetere sufficientemente a lungo una bugia la trasformi magicamente in verità. Abbiamo dovuto attendere la metà dell’ottocento perché l’accumularsi di evidenze, ed il genio di Charles Darwin, ricostruissero la realtà di una specie tra tante altre, caratterizzata unicamente dallo sviluppo evolutivo di un cervello di grandi dimensioni.

Ricollocato l’uomo ad animale tra altri animali ho pertanto cominciato a domandarmi quali e quanti parallelismi comportamentali fosse possibile sviluppare, analisi che mi ha condotto in tempi relativamente recenti all’idea di Domesticazione Umana ed all’analisi dei suoi perversi effetti. Ma l’intrappolamento della scimmia ci mostra qualcosa che va oltre la riduzione in cattività. Mostra come la nostra stessa avidità possa venire subdolamente ritorta contro di noi, portandoci in conclusione alla perdita della libertà.

Ovviamente per l’uomo non bastano un frutto ed una bottiglia, serve qualcosa di più complesso, ma l’esito finale è del tutto analogo. Proviamo quindi a sostituire al frutto i beni di consumo, ed alla bottiglia l’insieme delle regole sociali ed economiche, che conosciamo perfettamente, che accettiamo, ma il cui reale funzionamento sfugge ai più. Ci renderemo conto di come quotidianamente veniamo solleticati da ‘oggetti del desiderio’ che hanno sia un costo reale che un costo occulto. L’umorista Altan ce lo spiega efficacemente con questa fulminante vignetta.

AltanL’uomo moderno individua gli oggetti del proprio desiderio in accordo, per solito, con le convenzioni ed i valori condivisi dal gruppo sociale di cui fa parte. È la collettività con la quale ci relazioniamo a dettare i canoni comportamentali accettati ed i marker dello status sociale. Ogni cultura umana identifica gli indicatori di ricchezza, benessere e leadership, dai primitivi copricapi in piume d’uccello ai moderni yacht.

L’oggetto che più comunemente caratterizza l’attribuzione di status nelle economie occidentali, o se vogliamo quello più immediatamente riconoscibile, è al momento l’automobile. Non perché non ve ne siano di più diffusi (televisori, gioielli, gingilli elettronici) o più costosi (case, barche), ma semplicemente perché l’automobile si sposta con noi ed ha assunto nel tempo la funzione di un ‘secondo abito’, indossato ed esibito per raccontare quello che siamo (o che crediamo, o che vorremmo essere) agli altri.

Nella fase del desiderio l’automobile appare, alla scimmia umana, alla stregua di un frutto come tutti gli altri, forse solo un po’ più vistoso. Col tempo, tuttavia, diviene oggetto di uso quotidiano e finisce col modellare intorno a sé le nostre intere vite. Abituati a muoverci in macchina ogni altra forma di spostamento ci apparirà via via strana e poco familiare, inusuale, scomoda, oltre alla spiacevole sensazione di dover dipendere, per i nostri spostamenti, da modalità esterne ed al di fuori del nostro controllo. In più, vivendo l’automobile come un secondo abito, la sua assenza indurrà la sgradevole sensazione di andare in giro nudi, l’equivalente sociale del non possedere più uno status nettamente percepibile dagli altri.

L’automobilista compulsivo finisce con lo sviluppare, rispetto al proprio veicolo, una forma di simbiosi non troppo lontana dalla dipendenza psicologica, che culmina nell’incapacità di immaginare altre modalità di spostamento. Frequenterà di preferenza locali e centri commerciali facilmente raggiungibili in auto, o dove sia comodo parcheggiare. Sceglierà di vivere nei quartieri che consentono un comodo raggiungimento in automobile del posto di lavoro. Percepirà il mondo come una serie di luoghi puntiformi disarticolati, raggiungibili per mezzo di strade più o meno veloci, più o meno tortuose, più o meno faticose.

Privo di argini, tale processo ha come esito finale una condizione in cui le nostre intere esistenze ruotano intorno all’uso dell’oggetto automobile, fino al punto da renderci incapaci di concepire una vita in assenza di essa. Non sono tanto i costi, pur elevati, che l’automobile ci impone, a rappresentare la vera trappola, quanto la perdita della libertà di spostarci in maniere differenti, di frequentare luoghi diversi dai soliti, operata a livello spesso inconscio. Abbiamo ancora tutte queste potenzialità, ma ci manca la capacità immaginativa necessaria a metterle in pratica.

L’adesione in massa a questo modello di mobilità, operata come collettività ingenua ed entusiasta, ha finito col modellare l’intera organizzazione urbana e del territorio. L’automobile, o se vogliamo il fenomeno consumistico nel suo complesso, ha prodotto lo sprawl urbano, l’ipertrofia abitativa (case sempre più grandi abitate da sempre meno persone) la proliferazione di corridoi stradali pensati per alte velocità di percorrenza, l’ingombro di suolo pubblico per le necessità di sosta.

Nel corso degli anni, spazi sempre più estesi sono stati sottratti ad ogni possibile utilizzo sociale e destinati esclusivamente alla movimentazione ed alla sosta delle auto private, producendo la marginalizzazione di ogni altra attività, erodendo spazi alla mobilità leggera, agli spostamenti a piedi, al gioco dei bambini ed al riposo ed alla socialità degli anziani. Ciò ha reso le strade cittadine dei non-luoghi pericolosi, rumorosi, puzzolenti, ed il raggiungimento di spazi e realtà piacevoli da frequentare un lungo viaggio da affrontare forzatamente a bordo del proprio veicolo.

Come nella trappola della scimmia, pensando di afferrare l’oggetto automobile per possederlo abbiamo finito con l’esserne catturati e perdere la capacità di farne a meno. Né più né meno di ciò che in medicina viene definito come acquisizione di una forma di dipendenza.

Ho voluto utilizzare l’esempio dell’automobile perché è quello col quale ho maggiore familiarità, ma considerazioni analoghe possono essere sviluppate per l’intrattenimento televisivo che ci aliena dagli altri (lo scrittore David Foster Wallace ha confessato in un’intervista di aver sofferto di ‘dipendenza da intrattenimento’, situazione narrata in chiave paradossale nel suo monumentale capolavoro “Infinite Jest”), per l’uso dei Social Network in alternativa al contatto interpersonale non mediato, per tutte le situazioni in cui sostituiamo il possesso e l’uso di oggetti, anche immateriali, alla vita relazionale.

Un processo iniziato per ragioni di necessità legate alla sopravvivenza che ci ha col tempo preso la mano, subendo un’impennata con la rivoluzione industriale, la cui evoluzione terminale consiste nell’attuale ‘società dei consumi’: una bolla temporale caratterizzata da accumulo compulsivo, sovrappopolazione e conseguente devastazione ambientale. Tre fra le attività che alla nostra specie riescono meglio.

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Il cielo sopra il mondo

Aracoeli(tra l’Altare della Patria e la piazza del Campidoglio sorge la Basilica di Santa Maria in Aracoeli, eretta nel VI secolo sul sito di un preesistente tempio romano. Vi si accede per mezzo di una lunga e ripida scalinata e fu luogo, diversi anni fa, di una delle esperienze più profonde, intense e spiazzanti della mia vita)

È un sabato pomeriggio. Con mia moglie abbiamo deciso di fare un po’ i ‘turisti in casa’, andando a passeggiare nel centro storico, senza una meta precisa. Quando ci ritroviamo a passare sotto la chiesa dell’Aracoeli vediamo un’ambulanza ferma, e mi rendo conto che in cima alla scalinata sta accadendo qualcosa. Un gruppo di paramedici si sta dando da fare su di un corpo steso a terra. Non so esattamente cosa mi muove, Emanuela vuole andar via, io sento che il mio posto è lassù. La convinco e saliamo lentamente le scale.

Giunti in cima ci troviamo di fronte una scena surreale. I paramedici stanno praticando il massaggio cardiaco sul corpo di un uomo a terra. Accanto a loro due donne, di età diversa (moglie e figlia, penso) li osservano ammutolite. Nessuno osa parlare. Sotto di noi, lontani, i suoni attutiti della città ci raggiungono da una distanza che appare incolmabile. Sopra le nostre teste, nere nuvole temporalesche creano una luce cupa, rarissima da osservare. Sembra la scena di un film. Non un film qualsiasi. È Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.

Wenders
Nel film il protagonista è un angelo. La realtà degli angeli coesiste con la nostra, ma su un piano diverso. Gli angeli vedono un mondo in bianco e nero, privo di suoni. Non sentono le parole degli uomini, ma ne ascoltano i pensieri. Non possono interagire né interferire. Provano a consolarli quando sono disperati, ma molto spesso sono semplici testimoni dei fatti che accadono: della vita, del dolore, della morte. In cima a quella scalinata, sotto un cielo plumbeo, mentre abbraccio mia moglie senza parlare, mi sento così: mero testimone di un momento di passaggio, forse l’ultimo, per un mio simile. Il passaggio del confine tra la vita e la morte.

Cerco di immaginare i momenti precedenti. La famiglia in vacanza. La decisione di salire a vedere quella chiesa. La scalinata, forse troppo lunga e ripida per quell’uomo corpulento, di mezza età. Sull’ultimo gradino l’arresto cardiaco. Le due donne, poco prima allegre, improvvisamente sole di fronte alla tragedia inaspettata. Il mondo, sotto di loro, che indifferente va avanti con le sue routines. Osservo commosso questa scena cercando di darle un senso. Un senso difficile da trovare.

Dopo un tempo non quantificabile, dieci minuti, forse venti, i paramedici smettono di praticare i tentativi di rianimazione. Si fermano stremati a contemplare il corpo esanime. Io ed Emanuela entriamo in chiesa, storditi, lei per pregare, io per riflettere. All’interno della chiesa è in corso una funzione religiosa: una messa del sabato pomeriggio celebrata per una manciata di astanti, in prevalenza anziani. Dopo poco il sacerdote, informato dell’accaduto, interrompe la funzione. Avvisa che deve recarsi all’esterno per impartire l’estrema unzione al defunto, si allontana dall’altare a passi lenti e gravi.

Da ateo non posso partecipare alla dimensione trascendente della celebrazione, ma mi colpisce, all’improvviso, quel grumo di umanità, quel piccolo popolo legato a riti antichi. Percepisco la loro esigenza di una dimensione umana che travalichi il consumismo, il mero desiderio di oggetti inanimati. Comprendo, almeno in parte, la contrapposizione tra materialismo e trascendenza in una chiave di conflitto ideologico.

Pur ateo, la filosofia cristiana all’interno della quale sono stato cresciuto (e che ho introiettato, nonostante la rinuncia alla dimensione teologica) mi spinge ad agire in termini cooperativi, solidali, a considerare le dinamiche egoistiche e competitive come una strategia erronea dell’agire umano. Nonostante ciò devo riconoscere in questo momento storico il primato della sopraffazione. Come conciliare teoria e realtà?

Seguendo un filo di analisi che avevo già introdotto nel finale di un precedente post, la mia conclusione attuale è che competizione e cooperazione restano le due dinamiche portanti del comportamento umano, ma il punto di equilibrio è determinato dal contesto, ed il contesto che abbiamo sviluppato nell’arco dei millenni è totalmente diverso da quello che ha dato origine all’etica ebraica prima, e cristiana in seguito.

L’etica ebraico-cristiana, elaborata in seno ad un popolo disperso di pastori nomadi, fornisce indirizzi efficaci in situazioni di povertà di risorse e scarsità d’individui. Dato un simile contesto, la solidarietà, la condivisione, l’aiuto reciproco contribuiscono fattivamente al benessere delle comunità ed alla loro prosperità. Ma il mondo che ha visto la luce in seguito alla rivoluzione industriale non presenta più queste caratteristiche.

Il mondo in cui viviamo oggi è dominato dalla sovrabbondanza di beni e di popolazione, animato da collegamenti veloci che consentono di trasferire rapidamente persone e beni materiali da un paese all’altro, da un continente all’altro. Regolato da legislazioni che favoriscono l’accumulo di ricchezza in poche mani, perfettamente compatibili con pesanti disparità sociali che producono masse sfruttate da un lato ed oligarchie economico-finanziarie dall’altro.

In questo contesto l’etica solidale cristiana risulta ancora premiante al livello dei singoli individui, delle relazioni interpersonali, ma le modalità predatorie tipiche dell’accumulazione capitalista offrono vantaggi sconfinati per quanto riguarda le manipolazioni su vasta scala, dai singoli paesi ad interi continenti. Nella modernità globalizzata, singoli egoismi individuali possono arrivare a disporre di un potere di gran lunga superiore a quello esercitabile dalla vasta maggioranza della popolazione, grazie al controllo sulla politica e sui mezzi di comunicazione, alla propaganda strisciante ed onnipresente, alla menzogna reiterata.

Eppure anche questo momento storico  folle, estemporaneo ed esplosivo, si schianterà di fronte ai limiti fisici del pianeta che ci ospita. La cultura dell’accumulo egoistico dovrà sperabilmente far posto a quella della ridistribuzione, perché l’alternativa produrrebbe paesi spopolati ed indeboliti. Non possiamo dare per scontato che questo avvenga nell’immediato.  Nel secolo scorso il crollo dei mercati degli anni ’20, ed il conseguente impoverimento delle popolazioni, produssero al contrario ideologie fortemente aggressive come il Fascismo in Italia e il Nazismo in Germania.

Quale tipo di etica, o di ideologia, o di religione potrà guidare la transizione verso una cultura a minor impatto ambientale non ci è dato sapere, probabilmente deve ancora essere formulata. Abbiamo accumulato negli anni una lunga serie di tesi puramente razionali, ma sappiamo bene quanto poco la razionalità riesca a pesare nei momenti di crisi sociale. Converrà trovare il modo di elaborare una nuova Idea del Mondo nel tempo che ancora ci resta, a rischio di non poterne disporre quando ne avremo un disperato bisogno.