La rabbia, la paura e la speranza

 

La maggioranza di noi si sente defraudata di un benessere e di una fiducia nel futuro che eravamo abituati a dare per acquisiti una volta per sempre.   Dimenticando che “per sempre” nella realtà riguarda eventualmente le perdite, mai le acquisizioni.
La reazione la vediamo quotidianamente sul web e sulla stampa: rabbia, rabbia e ancora rabbia.   Ed uno spasmodico desiderio di cambiamento: di un evento drammatico o di leader carismatico che rimetta il mondo sul giusto binario, dov’era prima che “loro” rovinassero tutto.

A livello cosciente, i ragionamenti che si fanno sono tanti e diversissimi, ma sotto sotto la trama mitica che li struttura è antica e narra di come il mondo corrotto sarà distrutto e dalle sue ceneri sorgerà un mondo finalmente giusto, dove gli ultimi saranno i primi.   La forza del mito nasce proprio dal fatto che rende sinergiche le tre passioni più forti: l’ira, la paura e la speranza.   Anzi, fa scaturire la terza dalle prime due.
Nella storia non si contano le sette religiose, i movimenti politici e le rivolte animate da questo tipo di mitologia, tuttora vivissima.

A ben vedere, un motivo per essere adirati effettivamente c’è, solo che non è quello che fa presa sulle folle.
La stravagante sovrabbondanza di risorse cui siamo abituati sta finendo, lasciandoci in eredità un livello di distruzione proporzionale alla quantità di risorse usate.   Non è un fatto banale da capire, ma è risaputo da almeno 50 anni e persone particolarmente intuitive lo avevano capito anche prima.
Dunque nessuno ci ha defraudati del nostro benessere e delle nostre aspettative.  Semplicemente è arrivato l’oste e sta facendo il conto di quel che abbiamo mangiato.   Arrabbiarsi servirà solo a farsi buttare fuori a calci, dopo aver comunque pagato.

Tuttavia, un paio di categorie di persone che meritano la nostra ira ci sono.   Innanzitutto coloro che speculano vantaggi politici e/o economici sfruttando la crisi.   Ma non perché non ci ridanno dei giocattoli che sono rotti per sempre, bensì perché continuano a prometterceli.   Mentre i loro predecessori nei decenni scorsi ci hanno aiutati a restare ben fissi nel sogno, invece di cercare di svegliarci.   Ma bisogna dire che riescono così bene solo perché noi ci ostiniamo a voler credere che ci sia un mezzo per riavvolgere il Tempo e far tornare la pacchia.  Oppure che questa sia l’occasione buona per far finalmente sbocciare “la primavera dei popoli”.

Diciamocelo chiaramente: quanti voterebbero un candidato che dicesse “Se votate me e facciamo un sacco di sacrifici subito forse, fra 10 anni, andrà un po’ meno peggio di come altrimenti andrebbe”?    Nessuno, nemmeno la sua mamma lo voterebbe.

E questo ci porta alla seconda categoria di persone contro cui ha senso arrabbiarsi: tutti coloro che preferiscono continuare a sognare panfili invece di darsi da fare per tenere a galla la scialuppa bucata in cui ci troviamo.   Oppure che pensano che finire di affondarla sia il modo migliore per provocare la generale catarsi da cui sorgerà il panfilo del futuro.
Amici miei, il mito dell’Apocalisse ha un forte e profondo fascino, ma per far risorgere una civiltà dalle ceneri della precedente di solito sono necessari alcuni secoli.   E non sempre succede.
Qualcuno mi accuserà di voler sostenere la classe dirigente attuale.   Niente di più sbagliato.   Anzi, l’unico modo per sbarazzarsene sarebbe proprio smettere di inseguire i sogni da cui dipende il perverso potere che hanno su di noi.   Se la piantassimo di farci delle illusioni, diventerebbe molto più difficile manipolarci.
La barca su cui troviamo fa schifo e fa acqua, ma è anche l’unica che c’è e intorno nuotano parecchi pescecani.   E’ meglio cercare di tappare qualcuno dei buchi o rovesciarla sognando panfili?

Guerra fredda, calda, tiepida? – Seconda puntata

Nella precedente puntata ho tentato di fare una sintesi estrema dei principali presupposti ad un’ipotetica futura guerra di vasta portata.   Ma nel frattempo l’attacco a Mossul è cominciato, senza fretta.   la grossa incognita è: cosa succederà quando i curdi e gli sciiti si incontreranno in centro?

Intanto vediamo molto sommariamente alcuni elementi importanti che la stampa trascura completamente quando tratta di questi argomenti.

 

Cosa si dimentica

crisi USA - CinaDunque Aleppo (e dal  17-10-2016 anche Mossul) non sono che minimi tasselli di un mosaico globale in cui si fronteggiano due potenze vicine al loro zenith, USA e Cina.   Una terza, decaduta ma tuttora importante, cerca di recuperare terreno verso la prima, ma per farlo ne perde con la seconda.   La guerra fredda (o peggio) che si sta addensando non è quindi un revival di schemi cari ai nostalgici dell’Unione Sovietica, bensì un quadro completamente nuovo in cui Cina (ascendente) ed USA (calante) si contendono la carcassa del mondo.   Tutti gli altri sono pedine di questo gioco.

Ancor più importante, a mio avviso, è il fatto che il movente principale dell’ostilità  non è più imporre un dato sistema politico-economico al mondo, bensì puntellare le proprie società in disintegrazione.  Il che rende la situazione molto più pericolosa, anche se non nell’immediato.

Ma perché mai le società di quasi tutti i paesi del mondo, comprese le super-potenze,  sono in così grave crisi da dover rischiare una guerra, pur di tenerle insieme?    Ovviamente la concause sono molte.   Alcune sono specifiche dei vari paesi, altre riguardano invece tutti, sia pure in modi diversi.

limiti-dello-sviluppoIl principale punto volentieri dimenticato è che la crisi globale attuale è l’avvisaglia dell’impatto della civiltà industriale contro i limiti invalicabili delle leggi fisiche.  E il “bello” deve ancora arrivare.   Dietro il tuonare dei cannoni e lo sferragliare dei cingoli si cela lo stringersi ineluttabile della triplice morsa costituita dal decadimento delle risorse, una complessità non più sostenibile e l’aumento dell’entropia planetaria.
In queste condizioni, le guerre non sono altro che un modo per accelerare la decandenza.   Lo abbiamo già visto con le piccole guerre  in corso o recenti: anche chi vince non ha poi i mezzi per controllare il territorio conquistato.   Tantomeno per ricostruire ciò che la guerra ha distrutto.   In pratica, anche i vincitori perdono.

Ma una nuova “grande guerra” non penso sia dietro l’angolo, neppure fredda.    La globalizzazione ha fatto enormi danni nel mondo, ma ha un indubbio vantaggio.    50 anni fa i sistemi economici dei due blocchi erano largamente indipendenti, mentre oggi sono inestricabilmente interdipendenti.   Né USA, né EU, Russia, Cina e nessun’altro attore grande o piccolo di questa tragica farsa può sopravvivere senza i propri nemici.   Nessuno può ormai tirarsi fuori dall’economia globalizzata senza collassare all’istante ed il collasso di uno qualunque dei grossi provocherebbe (provocherà) il collasso di tutti gli altri.   Lo sanno molto bene i pezzi grossi, ma lo ignorano le basi nazionaliste od integraliste che li sostengono.   Una situazione che diverrà sempre più pericolosa, man mano che le condizioni economiche e sociali peggioreranno per tutti i paesi (ma non per tutte le classi sociali), inducendo i governi ad agitare sempre di più le spade.

Una win-win situation?

E’ d’uopo terminare gli articoli con una parola di speranza.    In questo caso è uno poco perversa, ma c’è.
E’ infatti molto possibile che i governi principali riescano a mantenere il controllo della situazione e non prendano misure eccessivamente dannose per le proprie poplazioni.   Guerre regionali anche più grosse di quelle in corso ci saranno di sicuro.   Ad esempio, penso sia molto elevato il rischio di una guerra regionale che coinvolga direttamente Arabia Saudita, Turchia ed Iran (con quali protettori internazionali sarebbe probabilmente una sorpresa per molti).    Tuttavia, il generalizzato macello che qualcuno paventa potrebbe benissimo non avvenire.   In questo caso, il declino della civiltà industriale proseguirà a sdrucciolare lungo la china termodinamica attuale.
Se, viceversa, si giungerà alla formazione di due blocchi isolati, il danno economico sarà terribile per tutti.   La miseria dilagherà molto rapidamente, portando ad una drastica riduzione di consumi ed emissioni.   A ruota seguirà l’indispensabile calo della popolazione mondiale.   Insomma, una nuova guerra fredda accelererebbe i tempi per il collasso dell’economia industriale in gran parte del mondo, a vantaggio di quel che resta della Biosfera.    Uno scenario molto peggiore per noi, ma probabilmente migliore per i nostri discendenti.
Infine, che accadrebbe se i pesi massimi si scontrassero sul serio?     L’immenso volume di fuoco che potrebbero mettere in campo sarebbe concentrato sulle grandi città, le infrastrutture di trasporto ed i centri industriali.   Certamente ci sarebbero impatti disastrosi anche dal punto di vista ambientale, ma la civiltà industriale troverebbe la sua fine nel giro di anni (forse di mesi) anziché di decenni.
Ad oggi pare una possibilità molto remota, ma se dovesse succedere sarebbe probabilmente la migliore notizia possibile per la Biosfera.

Cosa vogliamo sperare che accada?   Ognuno di noi può scegliere cosa sperare, ricordandosi però che è contemporaneamente parte integrante del sistema economico globale, di uno dei blocchi politici contrapposti e della Biosfera.    La nostra vita dipende contemporaneamente da questi tre sistemi incompatibili.    Possiamo scegliere per chi fare il tifo.

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Il conto della serva

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Nel dibattito sulle infrastrutture per la ciclabilità raramente si discutono i motivi alla base della loro realizzazione. In un paese abituato ad affrontare i problemi reali con lo stesso approccio riservato alle discussioni sul calcio è, purtroppo, ormai abituale assistere alla contrapposizione di opposte tifoserie. Tra i favorevoli, ovviamente, i ciclisti, dall’altra parte gli automobilisti, in una guerra di posizione tesa a difendere il territorio conquistato, che sia spazio urbano o la priorità nell’assegnazione di fondi pubblici.

Se però guardiamo un attimo fuori dal ‘paesone Italia’ e proviamo a ragionare con la testa degli altri, ci rendiamo immediatamente conto delle reali argomentazioni a favore delle sistemazioni ciclabili e dell’uso della bicicletta, soprattutto nei contesti urbani. Per meglio contestualizzare il quadro complessivo farò un passo indietro e ragionerò sui motivi che hanno portato, in passato, ad investire così tanto sul trasporto automobilistico.

Negli anni del primo dopoguerra la priorità era risollevare il paese dalle devastazioni prodotte dalla seconda guerra mondiale e saltare in fretta sul ‘carro’ della crescita economica. L’Italia aveva un importante comparto meccanico/industriale che andava rimesso in moto ed un’industria petrolifera nazionale, oltre ad un territorio ancora per larghi versi mal collegato. In questo contesto promuovere l’utilizzo dell’automobile servì a ridare al paese la spinta, anche ideale, necessaria a dar vita al boom economico degli anni ’60 ed entrare a testa alta a far parte del mondo industrializzato.

Parliamo però di qualcosa come sessant’anni fa. In questi sei decenni la situazione è profondamente mutata. L’automobile, da sogno di libertà, si è trasformata in un insaziabile divoratore dello spazio urbano, fino al punto da saturare la rete viaria e produrre ingorghi e rallentamenti. Parallelamente a questo si è divenuti via via consapevoli del rovescio della medaglia, rappresentato da inquinamento, sedentarietà, incidentalità. Tutto questo mentre l’industria petrolifera nazionale perdeva terreno e la produzione di automobili si spostava all’estero, inseguendo l’opportunità di salari più bassi e privando il paese di un essenziale ricircolo di ricchezza. La mobilità a motore, col passare del tempo, si è trasformata per la collettività da risorsa a costo sociale.

Quello che, in tempi più o meno recenti, hanno fatto in Olanda, Germania, Danimarca, è stato darsi degli strumenti per contabilizzare quale ritorno per la collettività producano gli spostamenti in macchina. Su un piatto della bilancia c’è l’indotto fiscale derivante dalla vendita di automobili (vetture ed accessori), carburanti, assicurazioni, che rappresentano una buona fetta del PIL nazionale. Sull’altro piatto ci sono i costi di sviluppo e manutenzione della rete viaria e dei servizi connessi, i costi sanitari dell’incidentalità stradale, dell’inquinamento, della sedentarietà (sia in termini di malattie connesse che di mancato gettito per il tempo-vita e le ore lavoro perse), la perdita di ore lavorative generata dalle congestioni del traffico, il degrado dei centri urbani, lo stress prodotto dall’inquinamento acustico, la minor attrattività turistica delle città, il drenaggio monetario derivante dall’acquisto di carburanti dai paesi produttori e via elencando.

In uno studio del 2010  la città di Copenhagen quantifica queste analisi in termini di distanze: ogni chilometro percorso in bici comporta un guadagno economico netto di 42 centesimi alla società. Lo stesso chilometro, se percorso in auto, genera una perdita di 3 centesimi. Questo consente finalmente di ragionare sullo sviluppo della mobilità ciclabile in termini quantitativi, svincolandosi dal vicolo cieco delle opposte tifoserie: le infrastrutture ciclabili non solo servono, ma se ben realizzate producono un reddito per la collettività.

E qui facciamo un passo ulteriore, perché non tutte le infrastrutture ciclabili producono reddito, occorre che rispondano a requisiti stringenti. Il primo è che siano realmente utili ai cittadini per gli spostamenti quotidiani. Una pista realizzata male, poco fruibile, insicura, vandalizzabile (in questo includo tutta una serie di comportamenti che vanno dalla sosta di veicoli sulla sede ciclabile al passeggio di pedoni, cani, ecc… che ne frenano l’utilizzo da parte dei ciclisti), una pista che vaga ‘a zonzo’, senza condurre nei luoghi di interesse, sarà sicuramente poco utile e poco utilizzata, e non produrrà reddito.

Pertanto, a monte della progettazione e realizzazione, andrà fatta una valutazione costi/benefici per ogni singola infrastruttura, che comprenda oltre ai costi vivi una stima sull’utilizzo e le tempistiche di rientro dell’investimento. A 42 centesimi a chilometro, un segmento di infrastruttura ciclabile lungo un chilometro restituisce alla collettività 42 euro ogni 100 ciclisti che lo percorrano. Se viene utilizzato in media da 1000 persone al giorno (i numeri nel centro di Copenhagen sono ancora maggiori) realizzerà un utile di 420€/giorno, pari a oltre 150.000€ l’anno. Su questa base è facile stimare il tempo di ammortamento delle infrastrutture.

È anche più facile comprendere perché nelle grandi città europee si trovino tanti contatori di ciclisti: il numero di utenti è il fine ultimo della realizzazione. Se un’infrastruttura risulta poco usata non si da la colpa ai ciclisti ‘che non la vogliono utilizzare’, come accade qui da noi: se ne chiede conto all’urbanista che ne ha decretato la necessità, o al progettista che l’ha realizzata. Perché alla fine di tutto lo sviluppo dell’uso della bici, il trasferimento di utenza dalla mobilità motorizzata alla mobilità attiva, è una cosa che conviene a tutti noi, automobilisti compresi, indipendentemente dal fatto che ad una fetta di popolazione ‘piaccia’ andare in bicicletta.

E soprattutto noi ciclisti dobbiamo smetterla di atteggiarci a filosofi ed amanti del bello e scendere sul piano del ‘vile danaro’. La ciclabilità nelle città non è tanto una questione di soddisfazione personale o di convincere gli altri che abbiamo capito qualcosa più di loro (pensiero che peraltro rivendico), quanto di ‘saccoccia’, che è un argomento comprensibile all’intero universo mondo.

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Guerra fredda, calda o tiepida? – prima puntata.

Prima di tutto vorrei ricordare che il sottoscritto, come tutti voi, dispone esclusivamente di notizie di stampa quanto meno partigiane.   Non penso dunque di sapere come effettivamente stiano le cose, ma semplicemente di suggerire una serie di riflessioni che cercano di trascendere l’animosità e la partigianeria insiti nel nostro modo di rapportarci alla politica.

Aleppo

guerra aleppoMentre prosegue la “varsavizzazione” dei quartieri ribelli di Aleppo, i rapporti fra USA e Russia si sono ulteriormente deteriorati.   Tanto che da molte parti, anche autorevoli, si parla ormai apertamente di un ritorno alla guerra fredda.   O peggio.

Apparentemente, la causa di tanto disastro sarebbe lo scontro fra le truppe di Assad (sostenute da Mosca) e varie milizie ribelli, fra cui l’Esercito Siriano Libero ed i curdi dell’YPG (entrambi sostenuti dagli Stati Uniti, ma nemici fra loro; l’ESIL è appoggiato anche dalla Turchia che è invece contro l’YPG).    Certo non è una sorpresa per nessuno che l’accordo ufficioso anti-ISIL fra USA e Russia sia saltato appena il “califfato” ha cessato di essere pericoloso per i rispettivi interessi (l’ISIL ad Aleppo non c’è più dal gennaio 2014).   E neppure è sorprendente che sia saltata l’alleanza fra YPG e Assad, nonappena i due si sono incontrati sul terreno.   E non sappiamo neppure quanto sia effettivo il controllo dei “pezzi grossi” sui rispettivi “clienti”.

Ma, mi domando, è mai possibile che due dei paesi più importanti del mondo arrivino ai ferri corti per una fetta in più o in meno di quello che era uno stato fallito già prima che 5 anni di guerra lo riducessero in pezzi?   Vista così, sembra davvero poco credibile.    Tanto più che sia gli americani che i russi dovrebbero aver imparato la differenza che c’è fra conquistare un territorio e controllare il medesimo.
Proviamo allora ad allargare lo sguardo.

Il Medio Oriente

Accanto alla Siria c’è l’Iraq, dove l’ultima città importante in mano all’ISIL è Mossul, da mesi sotto un lasco assedio.   Da sud premono i governativi, sostenuti da fanterie iraniane ed aviazione USA; a nord ci sono i curdi sostenuti dai turchi.   Se Turchia e USA continuano (per ora) ad essere alleati, i loro protetti (rispettivamente curdi  e governativi iraqueni) sono invece nemici da sempre.

Allarghiamo ancora un poco l’orizzonte e troviamo Turchia, Iran, Arabia Saudita ed Egitto; tutti in piena ebollizione.

La Turchia è stata per 70 anni l’alleato di ferro dell’Occidente, ma dai tempi dell’invasione USA dell’Iraq, nel 2003, l’alleanza si è incrinata ed oggi appare fatiscente.   La progressiva islamizzazione del regime ormai quasi dittatoriale di Erdogan e la repressione seguita al fallito colpo di stato del 15 luglio scorso, hanno precipitato la situazione.
Intanto l’esercito turco ha occupato fette di Siria per impedire che fossero occupate dall’YPG e dagli americani.

L’Iran, dopo essere stato l’inventore dell’integralismo islamico post-moderno e l’arcinemico dell’occidente per decenni, sta rapidamente riallacciando rapporti di collaborazione anche militare con USA ed EU.   Ma l’Iran mantiene anche buoni rapporti con la Russia e sostiene Assad, sia pure in modo sempre più tiepido, man mano che i dittatore riacquista potere.

L’Arabia Saudita sembra sul’orlo di un’implosione, sia sul piano interno che su quello internazionale.  Dopo aver demolito mezzo Yemen senza riuscire a vincere la guerra, si è vista tagliare gli aiuti militari proprio dagli USA che la hanno sempre sostenuta ad oltranza.   E mentre il governo saudita espelle o incarcera buona parte degli esponenti yemeniti che fino a ieri erano suoi alleati, qualcuno spara contro le navi USA che incrociano a largo dello Yemen (padellando).

L’egitto, ex campione dell’Unione Sovietica ai tempi di Nasser e poi fedelissimo degli USA, è sicuramente sull’orlo di un’implosione.   Probabilmente il regime militare rimane in sella solo grazie alla terroristica repressione di ogni forma di dissenso.   D’altronde, l’alternativa sarebbe un altrettanto feroce regime islamista.   Al Sisi lo sa e, pur restando alleato degli USA, lancia strizzatine d’occhio a Mosca in cerca di conforto.   Nel frattempo la popolazione egiziana cresce al ritomo di quasi due milioni di persone all’anno.   Le conseguenze sono inevitabili e ci saranno 100 milioni di persone disperate ai nostri confini.   Sarebbe bene cominciare a pensarci.

Dunque il quadro medio-orientale appare in una fase caotica (in senso sistemico).   Vale a dire una fase in cui tutti gli elementi principali fluttuano senza una regola identificabile e possono quindi essere attratti in una delle molte direzioni possibili anche da spostamenti minimi di fattori interni od esterni.

Le grandi potenze

USA - RussiaAllargando ancora il campo, troviamo che lo scontro fra Russia e NATO non è limitato al Medio Oriente.   Indipendentemente dalla complessa genesi della crisi ucraina, non c’è dubbio che la linea di demarcazione fra la parte di questo paese che gravita verso est e quella che gravita verso ovest è tutt’altro che pacificata.  Sparatorie e scambi di cannonate sono quotidiani e, se la situazione rimane praticamente immutata, è solo perché nessuno dei contendenti ha il fiato di tentare un’offensiva.   Per Putin, l’intervento in Siria ha probabilmente anche la funzione di attirare l’attenzione dei nazionalisti russi su di un fronte più remoto, ma la questione del Donbass rimane una ferita aperta che può suppurare in qualunque momento.   Anche in considerazione dello scarso controllo che igoverni esercitano su parte delle milizie impiegate in entrambi i campi.

E veniamo dunque a dare un’occhiata ai due contendenti principali (o apparentemente tali): USA e Russia.

I primi sono stati paragonati ad un “guscio di acciaio vuoto dentro”.    In effetti, se la potenza militare statunitense attuale non teme confronti, la società che questa forza protegge si sta disintegrando e credo che il livello della campagna presidenziale in corso sia un buon indicatore in questo senso    Di qui la necessità per il governo di compattare il paese mantenendo uno stato di allerta crescente, anche a rischio di aumentare il pericolo reale.   Specialmente a ridosso di elezioni in cui entrambi i candidati hanno deciso di giocare il ruolo dei “duri”.

Se Atene piange Sparta non ride (o viceversa) si diceva un tempo.   La Russia post sovietica ha rimesso insieme una variante di economia capitalista basata essenzialmente sull’esportazione di materie prime in Europa.   Ma dal 2008 la situazione ha ricominciato a peggiorare e dal 2014 è precipitata.   Non tanto per le sanzioni occidentali, quanto per la crisi economica dei loro principali clienti (noi) e del mondo intero, che si è portata dietro il crollo del prezzo del petrolio.   Non dimentichiamoci inoltre che, malgrado la Russia sia oggi il principale esportatore mondiale di energia, la maggior parte dei suoi giacimenti di petrolio sono post-picco.   Questo significa costi crescenti ed EROEI calanti.
I giacimenti di gas sono invece irreversibilmente collegati all’UE.   Mosca sta cercando di sviluppare i giacimenti di gas siberiani collegandoli alla Cina, ma la nuova rete di metanodotti dovrebbe essere costruita in tempi di migragna e di ritorni rapidamente decrescenti, oltre che su terreni in parte resi instabili dal riscaldamento climatico.   Non sarà una cosa semplice, né veloce.
Anche in questo caso, solleticare il proverbiale patriottismo russo è un modo semplice e sicuro di compattare il paese, specie se alla guida c’è un personaggio particolarmente popolare come Vladimir Putin.   Ma se Putin è molto popolare, il suo partito non lo è affatto e questo pone il capo nella delicata posizione di dover costantemente rinfrescare la sua vernice di uomo duro e vincente.   Un gioco che diventa sempre più pericoloso, man  mano che i margini di manovra si assottigliano.

Guerra, contenimento CinaMentre tutti gli occhi guardano la Russia europea, cosa succede dalla parte opposta del pianteta?   Succede che la Cina si trova anch’essa nelle peste di una crisi economica che si va cronicizzando.   Anche se formalmente il PIL continua a crescere, la gente si va rendendo conto che la festa è finita e diventa nervosa.   Pronta anche qui un’altra iniezione di nazionalismo e di paura, con una serie di azioni per rivendicare alcuni scogli.   Ma dietro queste sceneggiate, Pechino sta mettendo in atto una serie di operazioni molto più consistenti.   Nel Mar Cinese e nell’Oceano Indiano sta infatti stabilendo una serie di basi logistiche e militari che (giustamente) spaventano i suoi vicini.
Se ne è accorto Obama che, da qualche anno, ha avviato una complessa politica di contenimento, saldando un’alleanza fra molti degli stati più o meno direttamente minacciati.   Da Giappone, Korea del Sud e Taiwan, fino al Vietnam ed alle Filippine (con una minaccia di Duterte di cambiare campo se non gli lasciano ammazzare i 3 milioni di filippini che vuole eliminare).   Ma ultimamente anche Indonesia ed India sembrano aver deciso che la Cina è più pericolosa degli USA.
Dunque, mentre l’espansione cinese verso il mare sta incontrando resistenza, verso il continente le porte le si spalancano.   Le difficoltà in cui annaspa la Russia favoriscono infatti la Cina che si sta letteralmente comprando d’occasione le risorse siberiane, tanto quelle russe che quelle dei suoi satelliti asiatici.   Per ora fa eccezione il Kazakistan che tiene fuori i cinesi, ma non i russi.
Dunque, abbiamo una potenza in declino, erede una notevole forza militare, ma senza più un sistema industriale in grado di sostenerla.   Questa, per difendere i suoi confini occidentali (o comunque quelli che considera tali), sta svendendo i suoi confini orientali dove una potenza prossima al suo picco sta cercando disperatamente spazio.

Il seguito alla prossima puntata.

PS. Aggiornamento dell’ultim’ora: pare sia iniziato l’attacco dei governativi iraqueni a Mossul.   Il rischio che vada come ad Aleppo è molto alto.    Così come è molto alto il rischio di uno scontro diretto fra Turchia e Iraq per il controllo di parti della città.

 

A che punto è la Brexit?

 

Un pochino prima del punto di partenza.

Ma vediamo di fare un tantino di chiarezza.    Innanzitutto, da un punto di vista legale, ancora non è successo assolutamente niente e non è neanche sicuro che succeda in futuro.     Il fatto che alle dogane europee gli inglesi facciano spesso la coda insieme agli africani ed agli arabi è  un solo dispetto e niente di più.
Certo, le migliaia di britannici che lavorano sul continente (moltissimi per l’eurocrazia) e le migliaia di continentali che lavorano in Inghilterra hanno ottime ragioni per dormire male e maledire chi a montato tutto questo circo contando di perdere.   Ma ad oggi tutti i trattati sono ancora pienamente operativi ed il governo britannico ancora non ha neppure formalizzato la richiesta di avviare i negoziati in vista di una possibile uscita (art. 50 del trattato dell’Unione Europea- versione consolidata).   Inoltre, il referendum era classificato come consultivo.   Questo significa che, se la trattativa andasse male, il governo potrebbe anche non farne più di niente.   Oppure tirare in lungo fino a mandare tutto in cavalleria.   Potrebbe, ma non è detto che lo faccia.

In effetti, l’impressione è che, passati i primi due mesi di panico, i promotori del “leave” abbiano cominciato a trattare di sottobanco, per decidere se avviare o meno la trattativa ufficiale.   Forse hanno trovato una finestra, visto che hanno annunciato l’avvio formale della trattativa fra 5-6 mesi (si vede che hanno fretta).   Cosa puntano?   A quanto pare, mirano ad uno statuto simile a quello della Norvegia; vale a dire stretta coesione economica, ma totale autonomia politica.   C’è da vedere se gli altri saranno d’accordo e, per ora, pare di no; vedremo se per davvero o se è un gioco delle parti.

Comunque, come al solito, l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica è tutta concentrata sugli indicatori economici, con grida di gioia alternati dei “filo-brexit” e degli “anti-brexit” ad ogni accenno di miglioramento o di peggioramento in questo o quel settore.   A mio avviso si tratta di purissima fuffa da entrambe le parti.   E’ chiaro che un sistema così complesso come l’economia britannica, sottoposto ad uno stress così articolato come la potenziale riscrittura di parte dei trattati che legano il Regno Unito al resto d’Europa, non può dare risposte lineari.   E neanche è così importante, secondo me, per la semplice ragione che, brexit o mica brexit, il complesso di fattori che maggiormente influenza le economie attuali è l’impatto contro i limiti globali della crescita.   Tutto il resto è secondario.

Viceversa, sempre come al solito, nessuno si interessa degli aspetti politici della faccenda.   Ed è un peccato perché qui, invece, le novità ci sono già, e parecchie altre ne arriveranno.   Certo, l’andamento delle trattative potrà cambiare di parecchio il risultato finale, ma non penso che potrà mai annullare il brusco calo di potere che l’Inghilterra ha subito nei confronti degli alleati.   Non penso che il Regno unito imploda (non converrebbe a nessuno), ma il suo peso politico all’interno dell’Unione è si è drasticamente ridimensionato, lasciando anche qualche orfanello in giro per l’Europa orientale.   Ora, si da il caso che il peso politico sovradimensionato di cui, fino a qualche mese fa, godeva l’Inghilterra dipendeva in gran parte da un perverso gioco di equilibrio che i vari governi inglesi hanno sempre praticato.   Vale a dire che, essendo uno dei pezzi grossi all’interno dell’UE, gli inglesi avevano buon gioco a boicottare tutte le iniziative che dispiacevano agli americani (ad esempio l’esercito europeo).   Questo dava loro un peso più che proporzionale presso la segreteria di stato di Washington, che ricambiava il favore.   Ecco perché fra i più delusi dall’esito del referendum ci sono stati proprio i nostri ingombranti cugini d’oltreoceano.

In pratica, contavano molto in Europa perché avevano dietro gli USA, e contavano molto in USA perché avevano dietro l’Europa.

Il giochino è finito del tutto?   Per ora no, ma è ridimensionato.   Vedremo come si svilupperà.