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Rossi e Neri

Di Igor Giussani

rossi e neri

Quando ero giovane e frequentavo la vasta galassia del movimento no global – parlare di militanza sarebbe eccessivo – un amico mi diede un’importante lezione di vita spiegandomi che, in politica, le maggioranze silenziose combinano poco o nulla, mentre le minoranze casinare possono provocare grandi sconvolgimenti.  La rivoluzione di Ottobre e i nazifascismi, ad esempio, storicamente hanno avuto origine da gruppi talvolta sparuti per numero, ma capaci di farsi sentire, ricorrendo a strumenti alternativi alla voce se necessario.

Oggigiorno, esiste una minoranza casinara attiva soprattutto in Rete le cui idee vengono  spregiativamente etichettate come ‘rossobrunismo’ (termine soventemente adottato anche dal sottoscritto) o ‘populismo’ (dispregiativo o elogiativo a seconda di chi lo usa), che ha i suoi punti di riferimento (a torto o ragione) nelle formazioni politiche considerate meno legate al sistema (M5S, Lega Nord e Fratelli d’Italia), in giornalisti non mainstream quali Giulietto Chiesa o Paolo Barnard, in nuovi filosofi e icone mediatiche come Diego Fusaro.   Il personaggio di Napalm51, interpretato da Maurizio Crozza, ne è la caricatura satirica (ma talvolta abbastanza fedele).

Posso sembrare sarcastico e irrispettoso, invece se ci scherzo un po’ sopra è per risollevarmi pensando al solco che si sta gradualmente creando tra me e amici di vecchia data attratti dal nuovo pensiero: ex militanti altermondisti (alcuni dei quali già stravaganti vent’anni fa), sinceri ambientalisti e anche qualcuno con cui ho condiviso un percorso intellettuale radicale come quello della decrescita. Tutta gente di cui potrei decantare cultura e genuina passione civile, capace se necessario di mettere le ragioni della Causa al centro della propria esistenza, dando prova di un’abnegazione a me sconosciuta (fatto che può però avermi immunizzato dall’aderire a fedi fanatiche).

Personalmente, mi accorgo che il rossobrunismo è stato l’approdo finale per molti militanti di sinistra delusi. Penso a quelli che, al momento della ‘svolta riformista’, hanno rigettato l’illusione di dare una volto umano alla globalizzazione neoliberale, aderendo pertanto all’ala sedicente ‘radicale’ e ancora orgogliosamente comunista. Tuttavia, a fronte di pretese rivoluzionarie ridotte a battaglie di retroguardia per difendere il welfare state socialdemocratico, del disinteresse delle masse e di una leadership politica opportunista, la disillusione è rapidamente montata; ora hanno ritrovato una nuova carica ideale.

Si dichiarano orgogliosamente populisti anche molti che, nauseati dal dogma ideologico della ‘fine delle ideologie’ a dall’ascesa del pensiero debole, hanno cercato rifugio nelle narrazioni ‘forti’ novecentesche, originando bizzarri sincretismi.
Il giovane filosofo Diego Fusaro è uno dei loro principali punti di riferimento. Spiega Marcello Veneziani: ”Per riassumere il loro messaggio: rifacciamo il Novecento, ma stavolta facciamolo meglio. E non gli estremi, ma lasciamoli convergere, considerando che il vero antagonista è il Centro tecnocratico globale, la cinica Macchina che produce deserti… Difatti, mi dicono, la loro provenienza è mista e i libri citati pure. Da de Benoist a Preve, da Evola a Marx, da Giacinto Auriti a Serge Latouche. Marxisti evoliani, gramsciani-gentiliani, e via con gli ossimori”. (http://www.ilgiornale.it/news/cultura/giovani-trasversali-ribelli-evviva-i-nuovi-pensatori-1037328.html)

In pratica, si fondono l’anticapitalismo e le tendenze antiborghesi di destra e sinistra.   Siccome il capitalismo globalizzato ultima versione si è ammantato di cosmopolitismo ergendosi a campione dei diritti umani e civili, è prevalsa l’opinione che la resistenza passi attraverso la difesa a oltranza di nazione, religione, tradizione e conservatorismo sociale (il multiculturalismo è visto con estremo sospetto, ma è nota anche l’ossessione per ‘l’ideologia gender’ e le rivendicazioni del movimento LGTB), dimenticando che tali presunti strumenti di opposizione sono stati tutti vessilli del capitalismo in altre fasi storiche (e, giudicando l’armamentario retorico di Trump, si direbbe che il Capitale stia per indossare nuovamente le vecchie maschere).

Aggiunge ancora Veneziani: “Non manca, è vero, un vago sapore complottista nelle loro analisi, la convinzione che ci siano centrali più o meno occulte che dispongono gli eventi e i flussi e sono sempre le stesse, ormai ricorrenti, quasi proverbiali”.   Si assiste infatti a uno straordinario rovesciamento di valori per cui tutto ciò che è sostenuto dal ‘sistema’ (in tutte le sue forme, dalle istituzioni politiche ed educative fino ai mass media) diventa emblema di errore e falsità. Le élite mondiali esprimono preoccupazione per il global warming? E’ la prova che si tratta di un invenzione per manipolare le coscienze.  Il governo che precarizza il mercato del lavoro prepara una legge per le unioni civili e cerca di sensibilizzare in materia di omofobia e violenza sulle donne? Istanze da rigettare in quanto provvedimenti per distrarre l’opinione pubblica dai ‘veri’ problemi. La storia che vi hanno insegnato a scuola? Scritta dai vincitori, quindi menzogna.  Ambientalismo?  Un complotto ordito da associazioni massoniche come il Club di Roma.  I medici consigliano di vaccinare i bambini?  Sono assoldati dalla lobby farmaceutica per vendere i loro prodotti…

In sintesi, mi sembra di individuare quattro categorie di persone legate al fenomeno rossobruno:

  • ideologi e guru: con questi non vale la pena di parlare, nella migliore delle ipotesi si verrà accusati di essere “inutili idioti”, “servi sciocchi del capitale” e amenità simili;
  • fascisti 2.0: mi pare inconcepibile uno scambio costruttivo pure con chi semplicemente ricopre di intellettualismo le proprie inclinazioni violente e razziste;
  • sinistroidi: erano già abbastanza dogmatici quando il loro unico credo era Marx…
  • gente ‘normale’ delusa dalla società ed alla ricerca di qualche punto di riferimento: qui invece investirei del tempo. Ma di chi si tratta esattamente?

E’ gente che è entrata a far parte della minoranza casinara provenendo dalla maggioranza silenziosa e non ideologizzata, che non è mai stata violenta e che anzi si è sempre comportata da buon cittadino. Che credeva nella funzione informatrice di tv e giornali e oggi fatica a distinguere il giornalismo professionista da Lercio. Che ha creduto alle rassicurazioni di scienziati ed esperti per pentirsene amaramente in diverse occasioni. Che ha sostenuto la causa dell’antirazzismo e del multiculturalismo per poi vedere manodopera straniera sottopagata allo scopo di incrinare le conquiste sociali ed è stata travolta da un’immigrazione crescente e malgestita, con inevitabile degrado sociale. Che ha aderito a campagne umanitarie o di sensibilizzazione ecologica scoprendo di essere stata raggirata. Che ha votato a sinistra credendo di arginare il malcostume berlusconiano ottenendo invece un governo deciso a concludere il lavoro lasciato incompleto dalla destra e una classe politica non meno disinvolta dell’ex-cavaliere e dei suoi scagnozzi. Che si vergogna all’idea di lasciare ai figli un benessere inferiore a quello dei genitori.  Che ha gioito al crollo del muro di Berlino auspicando l’inizio di un’epoca di pace, per assistere invece al triste spettacolo della superpotenza vincitrice della guerra fredda (nonché presunta paladina di democrazia e diritti umani) che ne approfittava per disseminare guerre in Iraq, Kosovo, Afghanistan, Libia nel totale disprezzo del diritto internazionale. Che ha creduto nella fratellanza europea e ora deve soggiacere ai diktat della UE a guida tedesca. Che ha sentito discorsi solenni in occasione del giorno della Memoria ed eventi analoghi, per poi vedere gli oratori rimanere indifferenti (quando non sostenere attivamente) altri genocidi. Che dopo essersi sentita fregata da discorsi e persone all’apparenza ‘normali’ e ‘ragionevoli’ ora è irresistibilmente affascinata da qualsiasi narrazione ‘eretica’ e da personalità ‘inedite’ e ‘fuori dagli schemi’ (Trump, Berlusconi, Renzi, ecc).

Insomma, queste persone hanno assistito al declino inesorabile di importanti istituti del mondo moderno, quali la democrazia liberale, lo sviluppo tecnico-scientifico, la tolleranza e l’apertura culturale. E’ un’impresa far ragionare un amante tradito, è più probabile che la pancia si imponga sulla testa facendo scambiare le cause con le conseguenze, operando semplificazioni indebite e inneggiando a motti assurdi del tipo ‘il nemico del mio nemico è mio amico’ o ‘tanto peggio tanto meglio’. Ma se fosse possibile dialogare?

Bisognerebbe spiegare che indipendenza di giudizio, riappropriazione del proprio spazio esistenziale dall’invadenza degli esperti e rifiuto della commercializzazione di ogni aspetto della vita umana non possono sfociare nella chiusura culturale, nel disprezzo per il sapere e nell’elevazione del conformismo a regola sociale. Che il desiderio di ‘sovranità’ e la ricostruzione di uno spazio politico contro il pensiero unico non possono coincidere con la riproposizione di vecchie istituzioni logore e stantie, se non proprio corresponsabili della situazione attuale.  Soprattutto, la critica della modernità non deve trasformarsi in rifiuto della modernità, occorre invece una modernità riflessiva – per utilizzare un’espressione di Ulrich Beckche analizzi criticamente i suoi stessi capisaldi  (progresso, sviluppo, controllo della natura e pretese conoscitive) così come fece a suo tempo con religione e tradizione.  Invece della retorica identitaria, dovremmo imparare che la nostra personalità è il risultato della continua tensione dialettica tra attaccamento alla tradizione e apertura all’influenza esterna (proveniente da mercato, mass media, incontri con culture differenti, ecc.), dove l’adesione incondizionata a uno dei due estremi significa soltanto alienazione. E laddove si vedono ‘complotti’ o ‘apparati’ bisogna imparare a riconoscere ‘sistemi’, nel senso inteso da Jay Forrester, i Meadows e altri pionieri del pensiero contemporaneo; rigettando le spiegazioni semplicistiche del populismo e accettando che a problemi complessi corrispondono spiegazioni complessi (e parziali).

Oramai queste persone potrebbero essere troppo stanche e disilluse per interessarsi seriamente a un messaggio complicato e ricco di concetti anti-intuitivi, senza contare il rischio di passare per pedanti grilli parlanti non meno tediosi dei truffatori passati. Ma proprio perché esiste ancora un terreno comune tra noi e loro, la possibilità di un dialogo è ancora reale. In futuro, nuove generazioni populiste imbevute fin dalla culla di rossobrunismo potrebbero rifiutare qualsiasi confronto se non addirittura  proporsi risolutamente di zittirci.

Possiamo imparare qualcosa dal referendum?

In un precedente post avevo preso una posizione del tipo “voto no, ma senza entusiasmo” in quanto convengo che la costituzione attuale non sia più adeguata ai tempi, ma la riforma mi pareva peggiorativa.   Il referendum è stato votato e ora tutti si ingegnano ad analizzarne il risultato.   Su di un blog come questo non possiamo esimerci dal fare la nostra piccola parte in questa discussione cercando, come al solito, di dare un punto di vista un tantino diverso da quelli più di moda.  Non migliore, semplicemente un pochino diverso.

Perciò qui non vorrei discutere nel merito della riforma che,  giusta o sbagliata che fosse, non si farà.   Vorrei invece dare un’occhiata agli errori che Renzi ha commesso nella campagna elettorale “peggiore di sempre” e quali lezioni politiche se ne possono eventualmente ricavare.

Sbaglio 1.   La sua riforma era tecnicamente pasticciata.   Al di la del merito, gli articoli erano scritti in modo da lasciare ampio margine di manovra ai giuristi ed ai costituzionalisti che la avversavano.  Era ovvio che la grande maggioranza dei magistrati e dei costituzionalisti avrebbero preso una posizione conservatrice, è il loro ruolo, e Renzi avrebbe fatto meglio a mandare in giro gente meglio preparata.   Al di là di questo, qui la lezione è che manipolare un sistema estremamente complesso come un moderno sistema normativo ed istituzionale è un compito pazzescamente difficile che può essere tentato solo sulla scorta di una competenza tecnica estrema di ogni dettaglio.   Altrimenti il rischio di fare danni imprevisti ed imprevedibili è molto alto, per quanto buone possano essere le intenzioni.

Sbaglio 2. Farsi dare sostegno ufficiale dalle istituzioni finanziarie, dalla confindustria, perfino dalla Merkel e da Schäuble, due dei soggetti meno popolari del momento (a buon diritto, peraltro).  Mica male per uno che nel frattempo si proponeva come paladino “contro il sistema”.   Stesso identico errore fatto dalla Clinton: ad ogni “endorsment” da parte di pezzi grossi dell’economia e della finanza ha perso voti.   Lo stesso ha fatto Cameron, mentre il contrario lo ha fatto Trump che, malgrado sia lui stesso un “big” ben piazzato nel cuore del sistema, ha vinto anche grazie al voto di protesta.
porte pericoloseA parte l’errore tattico, cosa ci dice questo? Una cosa estremamente allarmante: che le istituzioni ed i personaggi illustri hanno perso la fiducia e la credibilità.   Questo è estremamente pericoloso perché, letteralmente, spalanca porte da cui è molto più facile che passino diavoli piuttosto che angeli.

Sbaglio 3. Personalizzare il voto.   Come capo dell’esecutivo, Renzi avrebbe avuto il dovere istituzionale di essere (o perlomeno di fingersi) neutrale.   Cinicamente, avrebbe così evitato che, di fatto, si formasse una coalizione di tutti contro di lui, ma soprattutto avrebbe messo il governo al riparo dai risultati incerti della consultazione.  In altre parole, mentre tuonava contro l’instabilità, era lui il primo a destabilizzare.  Non predisporre una scappatoia in caso di sconfitta è un errore di una banalità disarmante.   Comunque, anche qui c’è una lezione da imparare: la popolarità si perde con estrema rapidità.   Renzi ha fatto una parabola per alcuni aspetti simile a quella di Berlusconi, ma che si è conclusa dopo 3 anni invece che in 20.   Molti sono gli elementi di diversità fra i due casi, ma comunque chi si pone come “leader carismatico” può oramai contare su pochi anni di autonomia, se non pochi mesi.   Parlare di stabilità in queste condizioni è possibile solamente se, anziché sulla faccia del leader, ci si basa sulle istituzioni.  Cioè proprio quella cosa che tutti gli aspiranti “capi” si affannano a picconare.   Aprendo altre porte molto pericolose.

Sbaglio 4.  Presentare gli avversari come imbecilli, retrogradi, ecc.   Non funziona, semmai motiva chi già propende per l’altro campo a diventare un attivista.   Ancora più grave, per avallare questa tesi la propaganda renziana ha dato risalto ai più fanfaroni dei suoi avversari, anziché a quelli più seri e competenti.   Col risultato di avere, ancora una volta, creato un sacco di polverone laddove ci sarebbe voluta lucida critica e puntuale analisi.
Altra lezioncina: nel dibattito politico meglio concentrarsi sugli avversari più credibili ed affidabili (in questo caso buona parte della magistratura).   Non per dar loro ragione, ma per alzare il livello del dibattito e marginalizzare quelli che sanno solo sbraitare.  Sempre che si sia in grado di competere su di un terreno di questo tipo.

Sbaglio 5.  Scimmiottare gli slogan antieuropeisti di Salvini e Grillo, oltre che infarcire la legge finanziaria di marchette che sai non essere fattibili.  Lo scopo era quello di blandire vari settori di elettorato, in particolare con gli  eurofobici.  Geniale per uno che avrebbe potuto essere il leader del secondo partito europeo se solo ci avesse fatto caso!   Ancora più geniale sparare su Junker (che per una volta è stato furbo), mentre chiedeva appoggio alla Merkel!  Comunque,  l’elettorato eurofobico ha già i suoi punti di riferimento consolidati nella Lega e nei 5stelle, cioè nei due principali avversari del PD.   Non poteva funzionare.
Ancora una volta, la lezione dovrebbe essere quella che conviene sempre cercare di tenere il dibattito il più in alto possibile, spiegando le cose nel merito e nel dettaglio, distinguendo e precisando in modo da lasciare un’utile eredità anche in caso di sconfitta.

Sbaglio 6.   Agitare la paura del caos che dovrebbe seguire la tua eventuale sconfitta.  Si sa, la paura del nemico aggrega e rende i cittadini consenzienti a molte cose altrimenti inaccettabili.   Una ricetta che, chi più chi meno, stanno usando un po’ tutti i governi del mondo.   Ma se in Russia la paura degli americani può funzionare, in Italia la paura di Grillo non basta.   Sono troppo diversi i contesti e la percentuale di realtà sottostante l’esagerazione propagandistica.   Inoltre, si da il caso che una grossa percentuale di elettorato abbia raggiunto un limite di esasperazione tale da desiderare il caos più della stabilità che pretendi di rappresentare (e che invece picconi per primo).   Questa è, secondo me, la lezione principale: soffiare sul fuoco per cavalcare le fiamme è un gioco che finisce molto più facilmente male che bene.   E fa perdere l’appoggio di quanti hanno invece l’abitudine di riflettere; cioè proprio della porzione di opinione pubblica su cui si può appoggiare un’azione politica costruttiva.

In sintesi, se mi potessi permettere di dare un consiglio non richiesto ai politici, direi questo:   Piantatela di sfruttare l’onda del malcontento per la vostra personale carriera.   Certo, l’onda vi può portare in alto, ma per gli stessi motivi per cui  vi favorisce finché siete all’opposizione, vi travolge quando siete al governo.
Se davvero volete stabilità, la prima cosa da fare è smettere di spararle grosse e concentrarsi sui fatti.   Pensare che calmare gli animi e spiegare le cose è più importante che vincere la prossima consultazione e che perdere bene può essere meglio che vincere male.
Chi vincerà cavalcando le onde della rabbia e della paura durerà comunque poco.   A meno che non sia in grado di cogliere un’occasione fugace per insediare un governo più o meno totalitario: un pericolo gravissimo e molto presente per tutti noi.   L’aver avuto 70 anni di sostanziale libertà personale non ci mette al riparo da niente, anzi ci rende particolarmente vulnerabili perché abbiamo dimenticato quanto facilmente certi fenomeni avvengono.  E quanto la rabbia, la paura e l’esasperazione facilitino la scalata al potere di personaggi pericolosi.

Il mio consiglio agli elettori è quindi questo: diffidate sempre di chi fomenta sentimenti forti e contagiosi come la rabbia e la paura.   I pericoli ci sono e sono molto più grandi di quel che molti di noi non sospettino, ma farsi prendere dalla furia o dal panico è il modo più sicuro per esserne travolti nel peggiore dei modi possibili.

A.A.AFFARONE: capro espiatorio offresi

capro espiatorioUna delle cose su cui sociologi e psicologi concordano è che quando i fatti entrano in conflitto con gli schemi mentali che usiamo per analizzarli, si genera sofferenza.    Può essere passeggera, ma se il conflitto fra realtà e mitologia è duraturo e forte, la sofferenza cresce fino a sfociare in sentimenti potenzialmente molto distruttivi, come la rabbia ed il desiderio di vendetta.

Questo è un fenomeno antico quanto l’uomo, ma non per questo meno doloroso quando capita a noi.   E quello che sta capitando gradualmente all’intera umanità è proprio questo: abituati da diverse generazioni a pensare  che il destino dell’umanità fosse un graduale, faticoso, ma inarrestabile ascendere dalla caverne alle stelle, ci troviamo a gestire un processo ben diverso.   Al netto degli appartenenti alle classi più privilegiate, oramai molti avvertono, anche solo a livello inconscio, che è ora di archiviare programmi di crescita e sogni di grandezza per imparare ad accontentarsi del sempre meno che c’è.   Per molti nel mondo si tratta anzi di rinunciare alla speranza di uscire da quella miseria che, gli era stato assicurato, sarebbe stata del tutto provvisoria.   Una speranza, si noti bene, che era diventata il cuore del nostro sistema di pensiero, sostituendo o marginalizzando tutto il resto.    Perciò, oggi, tutto ciò crea uno stato di sorda sofferenza che, in occidente, si manifesta perlopiù in una forte sensazione di essere stati ingannati e defraudati.   Un sentimento cui spesso
porta un certo sollievo il dare la colpa a qualcuno.

A livello personale il meccanismo psicologico è abbastanza semplice: se posso capro espiatorioindividuare il responsabile della mia sgradevole situazione posso pensare di combatterlo e, almeno potenzialmente, posso recuperare i miei diritti o, perlomeno, vendicarmi.   Comunque, potrò evitare di accollarmi una quota, sia pur minima, di co-responsabilità.
A livello collettivo la dinamica fondamentale è la stessa, ma con in più il volano moltiplicatore delle retroazioni che si creano all’interno di comunità i cui membri si confermano a vicenda, alzando via via la posta ed i toni.   Internet rappresenta un catalizzatore nuovo e formidabile di questi processi.

Molte società antiche conoscevano bene queste dinamiche e le gestivano tramite appositi rituali che avevano appunto lo scopo di offrire uno sfogo controllato all’ira popolare e mantenere la pace sociale.   Altre volte, politici assetati di potere hanno usato- e tuttora usano – gli stessi meccanismi al contrario; cioè per alzare la febbre sociale e far del torbido in cui pescare.   Orwell ne ha fatto una descrizione letteraria perfetta, ma fu, credo, Anna Arendt che identificò questo tipo di manipolazione come uno degli elementi caratterizzanti i governi totalitari.  O aspiranti tali.

In qualità di cittadino europeo post-picco, credo che tutto ciò ci riguardi molto da vicino.

La ricerca di qualcuno a cui assegnare la colpa di qualunque calamità ci colpisca sta diventando frenetica.  Se poi il soggetto identificato è anche effettivamente corresponsabile della crisi, tanto meglio.   Se non lo è pazienza, l’essenziale è individuare un nemico, sconfitto il quale tutto tornerà come prima, anzi meglio.   Il fatto che la storia e la cronaca dimostrino che tutto questo non porta mai niente di buono non può cambiare né i sentimenti delle persone, né le loro reazioni.   Specialmente a livello collettivo.

Dunque la caccia al capro continua.  Anzi è appena cominciata ed al momento c’è una vera folla di possibili canditati a tale catartico ruolo: le istituzioni comunitarie, i banchieri ed i politici sono fra i più gettonati.   Ma non mancano soggetti più tradizionali come varie categorie di stranieri e gli “evergreen” ebrei e zingari; fino a giungere ad un assoluto “loro”, passando per i rettiliani e gli Illuminati.
Veramente ce n’è per tutti i gusti cosicché la rabbia popolare si distribuisce ancora su troppi soggetti per poter essere efficacemente manipolata ed indirizzata dal prossimo “padre della Patria”.   Ma l’esperienza storica ci insegna che queste fasi caotiche non durano per sempre.   Dapprima impercettibilmente, alcuni dei candidati “capri” cominciano a riscuotere più successo di altri ed il meccanismo della reciproca conferma li fa salire in classifica.   Questo li rende più visibili, attivando retroazioni che, superata una soglia imprevedibile, possono creare molto rapidamente dei fenomeni di massa incontrollabili e cruenti.

islam in EUUn altro aspetto importante da considerare è che alcuni di questi soggetti, ad esempio banchieri e politici, non solo sono in grado di difendersi, ma sono anche in grado di dirigere altrove l’ira che li minaccia.   Non tanto dando una migliore immagine di sé, quanto agitando davanti agli occhi del “99%” il drappo rosso di altri soggetti, ben più facili da colpire.   Ed è qui che interviene la comunità islamica europea (nei labili limiti in cui ha senso parlare di “comunità islamica”.

A livello europeo i mussulmani sono circa il 3% della popolazione, circa un terzo del flusso migratorio (dati Eurostat).   Il paese dove sono più numerosi è la Francia con l’8%; in Italia sono il 4% e di questi una buona parte sono albanesi; dunque europei a tutti gli effetti.   Tuttavia la percezione comune è assai diversa.   Come si vede dalla cartina, gli italiani pensano che i mussulmani (spesso sommariamente assimilati ai magrebini) siano il 20%, mentre in Francia la gente pensa che oramai quasi un terzo della popolazione sia fedele al Profeta.   In Ungheria, dove i mussulmani sono lo 0,1%, la risposta più gettonata è 7%!   Come è possibile un simile fenomeno?

Sicuramente c’è una parte di responsabilità nei politici e nella stampa che stanno cavalcando il malcontento.   Ma in gran parte ciò è dovuto alla comunità mussulmana stessa.   E non mi riferisco tanto agli attentati che certo hanno nuociuto molto ai mussulmani del mondo, ma che da soli non bastano.   Negli anni ’70 bombe e sparatorie erano all’ordine del giorno, ma non vi furono crisi isteriche di massa come quelle odierne.   Forse ancor più dei criminali e degli stragisti, contano i piccoli idioti che danno fastidio alle ragazze sull’autobus, spacciano sotto casa, vanno in giro vestiti in modo volutamente strano, fanno dei figli che non si possono permettere per poi pretendere che vangano presi in carico dalla comunità, ostacolano il traffico con la scusa di pregare, piantano grane per un crocifisso, ecc.    Insomma, tutta quella serie di comportamenti che vanno dalla micro-criminalità, fino alla semplice maleducazione che, complessivamente, rendono gli islamici molto più malvisti degli altri.

Per fare un esempio pratico, prendiamo il caso della Germania.   Dopo un’iniziale schermirsi, il governo ha aperto le frontiere ai profughi siriani, fra il plauso di gran parte della popolazione.   Come previsto, mescolati ai fuggiaschi sono giunti in Europa anche alcuni miliziani dell’ISIL ed altri soggetti molto pericolosi.   Ma ciò che ha fatto virare di colpo l’opinione pubblica tedesca dalla propensione all’accoglienza a quella opposta è stato un altro fatto.   Nella notte del capodanno scorso, alcune decine di cialtroni  su quasi un milione di profughi complessivi, hanno pensato bene di andare in giro a mettere la mani addosso alle donne che uscivano per festeggiare.   Lo shock sui tedeschi è stato tremendo, tanto che il governo ha precipitosamente chiuso i rubinetti, senza per questo recuperare nei consensi.

Questo fatto è molto interessante, non per minimizzare il fatto, ma per capire come l’entità del flusso abbia creato una situazione di estrema instabilità in cui basta pochissimo per scatenare reazioni significative.   E l’incapacità delle autorità a prevenire e/o castigare efficacemente questo genere di comportamenti peggiora di molto la situazione.    Se il flusso crescerà, le reazioni diverranno necessariamente violente, qualunque cosa ognuno di noi pensi.

Naturalmente, la maggior parte dei mussulmani, sia europei che immigrati, sono gente che aspira semplicemente a campare tranquilla, ma alcune decine di migliaia di idioti strafottenti sono più che sufficienti a bollare un’intera comunità.   Se ne rendono conto benissimo parte degli interessati.  Personalmente ho più volte udito imam e notabili mussulmani disperarsi di questa situazione, ma senza arrivare ad arginarla.   Ma altrettanto numerosi e ben più visibili sono quelli che, al contrario, si ingegnano a fare della provocazione, o peggio.

Il punto cui voglio arrivare è che, in un contesto di crisi economica cronica e crescente tensione sociale, costituire una minoranza identificabile è sempre rischioso.   La cosa più savia da fare è tenere il profilo basso e mimetizzarsi, cosa che altri stanno infatti facendo.   Una parte minoritaria, ma consistente, della comunità islamica ha invece optato per l’atteggiamento opposto semplicemente perché gli ha funzionato nei decenni in cui un diffuso “buonismo” politicamente corretto ha dominato l’opinione pubblica.   Una situazione che sta cambiando e l’effetto moltiplicatore di internet può accelerare il cambiamento in modo sorprendente.
In estrema sintesi, le frange più ostili ed ineducate della popolazione islamica stanno facendo di tutto per offrire la loro gente al ruolo di capro espiatorio, nonappena ce ne sarà davvero bisogno.

“Chi è causa del suo mal pianga sé stesso”

 

Ideologie, utopie ed altri fantasiosi costrutti

(post originariamente pubblicato sul blog Mammifero Bipede)

Da tempo ragiono di scrivere sulle ideologie, o meglio su quanto il nostro modo di pensare e di relazionarci agli altri ed al mondo dipenda da esse. Parafrasando un celebre aforisma di Ascanio Celestini (che l’autore dedica al razzismo): “le ideologie sono come il culo, puoi vedere quello degli altri ma non sei in grado di vedere il tuo”.

Di fatto le ideologie semplificano una realtà complessa rendendola in qualche modo gestibile, il problema è che facilmente descrivono un quadro sbagliato. Le ideologie sono, tipicamente, delle proiezioni di sé: si abbracciano perché rappresentano il proprio sentire ed il proprio modo di relazionarsi agli altri, molto spesso quello che abbiamo appreso con l’educazione.

Così, ad esempio, se siamo cresciuti nella convinzione che la cooperazione sia eticamente superiore alla competizione abbracceremo preferibilmente un’ideologia “di sinistra” teorizzante l’uguaglianza tra gli uomini, mentre se siamo stati allevati in un contesto culturale dove a dominare è la competizione saremo più facilmente sedotti da un’ideologia “di destra”.

Poi arrivano gli antropologi e fanno piazza pulita di tutti i costrutti ideologici elaborati nel corso dei dieci, quindicimila anni di quella che chiamiamo civiltà (termine che dal punto di vista etimologico sancisce solo il passaggio culturale che da popolazioni nomadi ci ha reso stanziali ed inurbati), riportandoci alle radici di quello che è la condizione umana.

Riguardo al lavoro di Jared Diamond ho già avuto modo di dilungarmi in passato parlando di Armi, acciaio e malattie e di Collasso. In questo suo ultimo lavoro (2012) lo studioso mette su carta una vita di ricerche partendo dalla domanda “Cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?” La prima risposta che mi viene da dare è: a demolire le ideologie.

Uno dei primi argomenti trattati nel volume riguarda la guerra, termine che solitamente associamo ai conflitti tra nazioni e normalmente non ci verrebbe da associare agli scontri tra piccole tribù. Diamond dimostra come il concetto di conflitto armato tra gruppi umani sia facilmente scalabile ai piccoli aggregati, e non sia improprio associarlo agli scontri tra tribù, gang rivali o cartelli per il controllo di produzione e traffico di droga.

La guerra, il conflitto, è una condizione pressoché costante nelle relazioni tra gruppi umani confinanti, perfino tra tribù che normalmente intrattengono rapporti commerciali ed hanno scambi che coinvolgono relazioni parentali (mogli o mariti che si trasferiscono da un gruppo all’altro). Le guerre, piccole e grandi, prendono il via da situazioni pregresse, insoddisfazione, torti subiti, dispute territoriali, e coinvolgono dalle poche decine di individui ad intere coalizioni di tribù.

La natura non gerarchica dei piccoli aggregati umani rappresenta in questo caso un limite, perché non esistendo capi dotati di reale potere (ma solo di una ‘autorità morale’) non c’è modo di imporre la cessazione delle ostilità alle “teste calde”, col risultato che le faide si propagano, con momenti di diversa violenza ed intensità, nel corso degli anni, fino a diventare endemiche.

Le modalità dei conflitti variano in base alla numerosità delle popolazioni coinvolte, siano esse piccole tribù, nazioni disperse identificate dalle etnie, città stato, imperi o nazioni moderne, ma il dato comune che emerge è che a giustificare il conflitto c’è la possibilità di ottenerne un vantaggio, quindi l’equilibrio tra guerra e pace è determinato dalla disponibilità di risorse.

Tipicamente, nota Diamond, le popolazioni che vivono in un regime di sussistenza precaria in habitat poveri di risorse non hanno vantaggi ad intraprendere relazioni conflittuali e tendono ad intrattenere coi vicini piccoli scambi commerciali che non sfociano in gesti violenti. Per contro gruppi umani stanziati in regioni ricche di risorse finiscono col sovrappopolare il proprio areale e ad entrare in conflitto con le popolazioni circostanti.

La guerra funge da meccanismo di riequilibrio demografico, riducendo le popolazioni in eccesso ed operando una redistribuzione delle risorse fra i superstiti, in attesa di un nuovo ciclo di abbondanza, seguito da aumento della popolazione, quindi crisi, conflitto per le risorse, ad libitum.

In quest’ottica le grandi ideologie del ventesimo secolo perdono il terreno su cui appoggiano: la guerra, la violenza, non sono più caratteristiche indesiderate dell’animo umano ma semplicemente reazioni istintive alla situazione contestuale, non già una questione di organizzazione sociale di un tipo o dell’altro. Organizzazione sociale che, se può influenzare la redistribuzione delle risorse, ha un controllo molto relativo sulla loro disponibilità.

La grande domanda di sempre, se gli esseri umani siano intrinsecamente ‘buoni’ o ‘cattivi’, trova quindi una risposta. La risposta è: entrambi. Gli esseri umani diventano pacifici o violenti a seconda della situazione contingente, contengono in sé il germe del bene e del male, ma le molle scatenanti sono al di fuori di essi, per quanto le ideologie che abbracciano possano spingerli in una direzione o nell’altra.

Questo mette la definitiva pietra tombale a molte ideologie, e sancisce il mio definitivo abbandono dell’ideale anarchico. Se fin qui ho sempre pensato che l’anarchia fosse il miglior metodo possibile di autogoverno ‘ma non con l’umanità attuale’, ora ho ben chiaro che l’umanità non potrà mai essere diversa dall’attuale senza diventare altro, un qualcosa che non saprei immaginare, un qualcosa che potrebbe non esistere mai.

Se quello che siamo, pur deformato da quindici millenni di cosiddetta civiltà, è il risultato di un processo evolutivo, in tal caso un’umanità differente, in grado di elaborare diversamente l’aggressività intra ed interspecie, avrebbe gli stessi vantaggi competitivi? Sarebbe in grado di sopravvivere?

Darwin ci direbbe di no, spiegando che la Natura ha selezionato il tipo umano più funzionale alla sopravvivenza, e che quel tipo umano siamo noi, con la nostra carica di aggressività. Sorge il dubbio che il desiderio tanto sbandierato di un mondo pacifico e felice sia anch’esso un semplice costrutto ideologico, assolutamente non calzante con la realtà.

Le società tradizionali hanno alle spalle millenni di elaborazione di forme di equilibrio con l’ambiente dal quale traggono sostentamento, equilibrio che comprende conflitti, infanticidio, in diversi casi cannibalismo (per far fronte a carenze proteiche). Per contro la nostra cultura, che pretende di imporre le proprie idee ed ideologie, è l’apoteosi del disequilibrio, dell’insostenibilità, della distruzione progressiva di risorse e suolo fertile, della sovrappopolazione di qualsiasi habitat senza alcun piano di rientro.

Non posso che concludere con la frase di Goya (nella rilettura pubblicata su Scripta Manent): il sogno della ragione genera mostri. Non il sonno, come la frase viene solitamente tradotta, bensì il sogno, la pretesa che l’intelletto possa piegare la realtà alle proprie cervellotiche elucubrazioni, costruendo modelli sociali che si rivelano poi inadeguati a gestire la complessità ed ambiguità dell’animo umano. Ed ancor meno la salute della biosfera e dell’intero pianeta.

La rabbia, la paura e la speranza

 

La maggioranza di noi si sente defraudata di un benessere e di una fiducia nel futuro che eravamo abituati a dare per acquisiti una volta per sempre.   Dimenticando che “per sempre” nella realtà riguarda eventualmente le perdite, mai le acquisizioni.
La reazione la vediamo quotidianamente sul web e sulla stampa: rabbia, rabbia e ancora rabbia.   Ed uno spasmodico desiderio di cambiamento: di un evento drammatico o di leader carismatico che rimetta il mondo sul giusto binario, dov’era prima che “loro” rovinassero tutto.

A livello cosciente, i ragionamenti che si fanno sono tanti e diversissimi, ma sotto sotto la trama mitica che li struttura è antica e narra di come il mondo corrotto sarà distrutto e dalle sue ceneri sorgerà un mondo finalmente giusto, dove gli ultimi saranno i primi.   La forza del mito nasce proprio dal fatto che rende sinergiche le tre passioni più forti: l’ira, la paura e la speranza.   Anzi, fa scaturire la terza dalle prime due.
Nella storia non si contano le sette religiose, i movimenti politici e le rivolte animate da questo tipo di mitologia, tuttora vivissima.

A ben vedere, un motivo per essere adirati effettivamente c’è, solo che non è quello che fa presa sulle folle.
La stravagante sovrabbondanza di risorse cui siamo abituati sta finendo, lasciandoci in eredità un livello di distruzione proporzionale alla quantità di risorse usate.   Non è un fatto banale da capire, ma è risaputo da almeno 50 anni e persone particolarmente intuitive lo avevano capito anche prima.
Dunque nessuno ci ha defraudati del nostro benessere e delle nostre aspettative.  Semplicemente è arrivato l’oste e sta facendo il conto di quel che abbiamo mangiato.   Arrabbiarsi servirà solo a farsi buttare fuori a calci, dopo aver comunque pagato.

Tuttavia, un paio di categorie di persone che meritano la nostra ira ci sono.   Innanzitutto coloro che speculano vantaggi politici e/o economici sfruttando la crisi.   Ma non perché non ci ridanno dei giocattoli che sono rotti per sempre, bensì perché continuano a prometterceli.   Mentre i loro predecessori nei decenni scorsi ci hanno aiutati a restare ben fissi nel sogno, invece di cercare di svegliarci.   Ma bisogna dire che riescono così bene solo perché noi ci ostiniamo a voler credere che ci sia un mezzo per riavvolgere il Tempo e far tornare la pacchia.  Oppure che questa sia l’occasione buona per far finalmente sbocciare “la primavera dei popoli”.

Diciamocelo chiaramente: quanti voterebbero un candidato che dicesse “Se votate me e facciamo un sacco di sacrifici subito forse, fra 10 anni, andrà un po’ meno peggio di come altrimenti andrebbe”?    Nessuno, nemmeno la sua mamma lo voterebbe.

E questo ci porta alla seconda categoria di persone contro cui ha senso arrabbiarsi: tutti coloro che preferiscono continuare a sognare panfili invece di darsi da fare per tenere a galla la scialuppa bucata in cui ci troviamo.   Oppure che pensano che finire di affondarla sia il modo migliore per provocare la generale catarsi da cui sorgerà il panfilo del futuro.
Amici miei, il mito dell’Apocalisse ha un forte e profondo fascino, ma per far risorgere una civiltà dalle ceneri della precedente di solito sono necessari alcuni secoli.   E non sempre succede.
Qualcuno mi accuserà di voler sostenere la classe dirigente attuale.   Niente di più sbagliato.   Anzi, l’unico modo per sbarazzarsene sarebbe proprio smettere di inseguire i sogni da cui dipende il perverso potere che hanno su di noi.   Se la piantassimo di farci delle illusioni, diventerebbe molto più difficile manipolarci.
La barca su cui troviamo fa schifo e fa acqua, ma è anche l’unica che c’è e intorno nuotano parecchi pescecani.   E’ meglio cercare di tappare qualcuno dei buchi o rovesciarla sognando panfili?

Guerra fredda, calda, tiepida? – Seconda puntata

Nella precedente puntata ho tentato di fare una sintesi estrema dei principali presupposti ad un’ipotetica futura guerra di vasta portata.   Ma nel frattempo l’attacco a Mossul è cominciato, senza fretta.   la grossa incognita è: cosa succederà quando i curdi e gli sciiti si incontreranno in centro?

Intanto vediamo molto sommariamente alcuni elementi importanti che la stampa trascura completamente quando tratta di questi argomenti.

 

Cosa si dimentica

crisi USA - CinaDunque Aleppo (e dal  17-10-2016 anche Mossul) non sono che minimi tasselli di un mosaico globale in cui si fronteggiano due potenze vicine al loro zenith, USA e Cina.   Una terza, decaduta ma tuttora importante, cerca di recuperare terreno verso la prima, ma per farlo ne perde con la seconda.   La guerra fredda (o peggio) che si sta addensando non è quindi un revival di schemi cari ai nostalgici dell’Unione Sovietica, bensì un quadro completamente nuovo in cui Cina (ascendente) ed USA (calante) si contendono la carcassa del mondo.   Tutti gli altri sono pedine di questo gioco.

Ancor più importante, a mio avviso, è il fatto che il movente principale dell’ostilità  non è più imporre un dato sistema politico-economico al mondo, bensì puntellare le proprie società in disintegrazione.  Il che rende la situazione molto più pericolosa, anche se non nell’immediato.

Ma perché mai le società di quasi tutti i paesi del mondo, comprese le super-potenze,  sono in così grave crisi da dover rischiare una guerra, pur di tenerle insieme?    Ovviamente la concause sono molte.   Alcune sono specifiche dei vari paesi, altre riguardano invece tutti, sia pure in modi diversi.

limiti-dello-sviluppoIl principale punto volentieri dimenticato è che la crisi globale attuale è l’avvisaglia dell’impatto della civiltà industriale contro i limiti invalicabili delle leggi fisiche.  E il “bello” deve ancora arrivare.   Dietro il tuonare dei cannoni e lo sferragliare dei cingoli si cela lo stringersi ineluttabile della triplice morsa costituita dal decadimento delle risorse, una complessità non più sostenibile e l’aumento dell’entropia planetaria.
In queste condizioni, le guerre non sono altro che un modo per accelerare la decandenza.   Lo abbiamo già visto con le piccole guerre  in corso o recenti: anche chi vince non ha poi i mezzi per controllare il territorio conquistato.   Tantomeno per ricostruire ciò che la guerra ha distrutto.   In pratica, anche i vincitori perdono.

Ma una nuova “grande guerra” non penso sia dietro l’angolo, neppure fredda.    La globalizzazione ha fatto enormi danni nel mondo, ma ha un indubbio vantaggio.    50 anni fa i sistemi economici dei due blocchi erano largamente indipendenti, mentre oggi sono inestricabilmente interdipendenti.   Né USA, né EU, Russia, Cina e nessun’altro attore grande o piccolo di questa tragica farsa può sopravvivere senza i propri nemici.   Nessuno può ormai tirarsi fuori dall’economia globalizzata senza collassare all’istante ed il collasso di uno qualunque dei grossi provocherebbe (provocherà) il collasso di tutti gli altri.   Lo sanno molto bene i pezzi grossi, ma lo ignorano le basi nazionaliste od integraliste che li sostengono.   Una situazione che diverrà sempre più pericolosa, man mano che le condizioni economiche e sociali peggioreranno per tutti i paesi (ma non per tutte le classi sociali), inducendo i governi ad agitare sempre di più le spade.

Una win-win situation?

E’ d’uopo terminare gli articoli con una parola di speranza.    In questo caso è uno poco perversa, ma c’è.
E’ infatti molto possibile che i governi principali riescano a mantenere il controllo della situazione e non prendano misure eccessivamente dannose per le proprie poplazioni.   Guerre regionali anche più grosse di quelle in corso ci saranno di sicuro.   Ad esempio, penso sia molto elevato il rischio di una guerra regionale che coinvolga direttamente Arabia Saudita, Turchia ed Iran (con quali protettori internazionali sarebbe probabilmente una sorpresa per molti).    Tuttavia, il generalizzato macello che qualcuno paventa potrebbe benissimo non avvenire.   In questo caso, il declino della civiltà industriale proseguirà a sdrucciolare lungo la china termodinamica attuale.
Se, viceversa, si giungerà alla formazione di due blocchi isolati, il danno economico sarà terribile per tutti.   La miseria dilagherà molto rapidamente, portando ad una drastica riduzione di consumi ed emissioni.   A ruota seguirà l’indispensabile calo della popolazione mondiale.   Insomma, una nuova guerra fredda accelererebbe i tempi per il collasso dell’economia industriale in gran parte del mondo, a vantaggio di quel che resta della Biosfera.    Uno scenario molto peggiore per noi, ma probabilmente migliore per i nostri discendenti.
Infine, che accadrebbe se i pesi massimi si scontrassero sul serio?     L’immenso volume di fuoco che potrebbero mettere in campo sarebbe concentrato sulle grandi città, le infrastrutture di trasporto ed i centri industriali.   Certamente ci sarebbero impatti disastrosi anche dal punto di vista ambientale, ma la civiltà industriale troverebbe la sua fine nel giro di anni (forse di mesi) anziché di decenni.
Ad oggi pare una possibilità molto remota, ma se dovesse succedere sarebbe probabilmente la migliore notizia possibile per la Biosfera.

Cosa vogliamo sperare che accada?   Ognuno di noi può scegliere cosa sperare, ricordandosi però che è contemporaneamente parte integrante del sistema economico globale, di uno dei blocchi politici contrapposti e della Biosfera.    La nostra vita dipende contemporaneamente da questi tre sistemi incompatibili.    Possiamo scegliere per chi fare il tifo.

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Guerra fredda, calda o tiepida? – prima puntata.

Prima di tutto vorrei ricordare che il sottoscritto, come tutti voi, dispone esclusivamente di notizie di stampa quanto meno partigiane.   Non penso dunque di sapere come effettivamente stiano le cose, ma semplicemente di suggerire una serie di riflessioni che cercano di trascendere l’animosità e la partigianeria insiti nel nostro modo di rapportarci alla politica.

Aleppo

guerra aleppoMentre prosegue la “varsavizzazione” dei quartieri ribelli di Aleppo, i rapporti fra USA e Russia si sono ulteriormente deteriorati.   Tanto che da molte parti, anche autorevoli, si parla ormai apertamente di un ritorno alla guerra fredda.   O peggio.

Apparentemente, la causa di tanto disastro sarebbe lo scontro fra le truppe di Assad (sostenute da Mosca) e varie milizie ribelli, fra cui l’Esercito Siriano Libero ed i curdi dell’YPG (entrambi sostenuti dagli Stati Uniti, ma nemici fra loro; l’ESIL è appoggiato anche dalla Turchia che è invece contro l’YPG).    Certo non è una sorpresa per nessuno che l’accordo ufficioso anti-ISIL fra USA e Russia sia saltato appena il “califfato” ha cessato di essere pericoloso per i rispettivi interessi (l’ISIL ad Aleppo non c’è più dal gennaio 2014).   E neppure è sorprendente che sia saltata l’alleanza fra YPG e Assad, nonappena i due si sono incontrati sul terreno.   E non sappiamo neppure quanto sia effettivo il controllo dei “pezzi grossi” sui rispettivi “clienti”.

Ma, mi domando, è mai possibile che due dei paesi più importanti del mondo arrivino ai ferri corti per una fetta in più o in meno di quello che era uno stato fallito già prima che 5 anni di guerra lo riducessero in pezzi?   Vista così, sembra davvero poco credibile.    Tanto più che sia gli americani che i russi dovrebbero aver imparato la differenza che c’è fra conquistare un territorio e controllare il medesimo.
Proviamo allora ad allargare lo sguardo.

Il Medio Oriente

Accanto alla Siria c’è l’Iraq, dove l’ultima città importante in mano all’ISIL è Mossul, da mesi sotto un lasco assedio.   Da sud premono i governativi, sostenuti da fanterie iraniane ed aviazione USA; a nord ci sono i curdi sostenuti dai turchi.   Se Turchia e USA continuano (per ora) ad essere alleati, i loro protetti (rispettivamente curdi  e governativi iraqueni) sono invece nemici da sempre.

Allarghiamo ancora un poco l’orizzonte e troviamo Turchia, Iran, Arabia Saudita ed Egitto; tutti in piena ebollizione.

La Turchia è stata per 70 anni l’alleato di ferro dell’Occidente, ma dai tempi dell’invasione USA dell’Iraq, nel 2003, l’alleanza si è incrinata ed oggi appare fatiscente.   La progressiva islamizzazione del regime ormai quasi dittatoriale di Erdogan e la repressione seguita al fallito colpo di stato del 15 luglio scorso, hanno precipitato la situazione.
Intanto l’esercito turco ha occupato fette di Siria per impedire che fossero occupate dall’YPG e dagli americani.

L’Iran, dopo essere stato l’inventore dell’integralismo islamico post-moderno e l’arcinemico dell’occidente per decenni, sta rapidamente riallacciando rapporti di collaborazione anche militare con USA ed EU.   Ma l’Iran mantiene anche buoni rapporti con la Russia e sostiene Assad, sia pure in modo sempre più tiepido, man mano che i dittatore riacquista potere.

L’Arabia Saudita sembra sul’orlo di un’implosione, sia sul piano interno che su quello internazionale.  Dopo aver demolito mezzo Yemen senza riuscire a vincere la guerra, si è vista tagliare gli aiuti militari proprio dagli USA che la hanno sempre sostenuta ad oltranza.   E mentre il governo saudita espelle o incarcera buona parte degli esponenti yemeniti che fino a ieri erano suoi alleati, qualcuno spara contro le navi USA che incrociano a largo dello Yemen (padellando).

L’egitto, ex campione dell’Unione Sovietica ai tempi di Nasser e poi fedelissimo degli USA, è sicuramente sull’orlo di un’implosione.   Probabilmente il regime militare rimane in sella solo grazie alla terroristica repressione di ogni forma di dissenso.   D’altronde, l’alternativa sarebbe un altrettanto feroce regime islamista.   Al Sisi lo sa e, pur restando alleato degli USA, lancia strizzatine d’occhio a Mosca in cerca di conforto.   Nel frattempo la popolazione egiziana cresce al ritomo di quasi due milioni di persone all’anno.   Le conseguenze sono inevitabili e ci saranno 100 milioni di persone disperate ai nostri confini.   Sarebbe bene cominciare a pensarci.

Dunque il quadro medio-orientale appare in una fase caotica (in senso sistemico).   Vale a dire una fase in cui tutti gli elementi principali fluttuano senza una regola identificabile e possono quindi essere attratti in una delle molte direzioni possibili anche da spostamenti minimi di fattori interni od esterni.

Le grandi potenze

USA - RussiaAllargando ancora il campo, troviamo che lo scontro fra Russia e NATO non è limitato al Medio Oriente.   Indipendentemente dalla complessa genesi della crisi ucraina, non c’è dubbio che la linea di demarcazione fra la parte di questo paese che gravita verso est e quella che gravita verso ovest è tutt’altro che pacificata.  Sparatorie e scambi di cannonate sono quotidiani e, se la situazione rimane praticamente immutata, è solo perché nessuno dei contendenti ha il fiato di tentare un’offensiva.   Per Putin, l’intervento in Siria ha probabilmente anche la funzione di attirare l’attenzione dei nazionalisti russi su di un fronte più remoto, ma la questione del Donbass rimane una ferita aperta che può suppurare in qualunque momento.   Anche in considerazione dello scarso controllo che igoverni esercitano su parte delle milizie impiegate in entrambi i campi.

E veniamo dunque a dare un’occhiata ai due contendenti principali (o apparentemente tali): USA e Russia.

I primi sono stati paragonati ad un “guscio di acciaio vuoto dentro”.    In effetti, se la potenza militare statunitense attuale non teme confronti, la società che questa forza protegge si sta disintegrando e credo che il livello della campagna presidenziale in corso sia un buon indicatore in questo senso    Di qui la necessità per il governo di compattare il paese mantenendo uno stato di allerta crescente, anche a rischio di aumentare il pericolo reale.   Specialmente a ridosso di elezioni in cui entrambi i candidati hanno deciso di giocare il ruolo dei “duri”.

Se Atene piange Sparta non ride (o viceversa) si diceva un tempo.   La Russia post sovietica ha rimesso insieme una variante di economia capitalista basata essenzialmente sull’esportazione di materie prime in Europa.   Ma dal 2008 la situazione ha ricominciato a peggiorare e dal 2014 è precipitata.   Non tanto per le sanzioni occidentali, quanto per la crisi economica dei loro principali clienti (noi) e del mondo intero, che si è portata dietro il crollo del prezzo del petrolio.   Non dimentichiamoci inoltre che, malgrado la Russia sia oggi il principale esportatore mondiale di energia, la maggior parte dei suoi giacimenti di petrolio sono post-picco.   Questo significa costi crescenti ed EROEI calanti.
I giacimenti di gas sono invece irreversibilmente collegati all’UE.   Mosca sta cercando di sviluppare i giacimenti di gas siberiani collegandoli alla Cina, ma la nuova rete di metanodotti dovrebbe essere costruita in tempi di migragna e di ritorni rapidamente decrescenti, oltre che su terreni in parte resi instabili dal riscaldamento climatico.   Non sarà una cosa semplice, né veloce.
Anche in questo caso, solleticare il proverbiale patriottismo russo è un modo semplice e sicuro di compattare il paese, specie se alla guida c’è un personaggio particolarmente popolare come Vladimir Putin.   Ma se Putin è molto popolare, il suo partito non lo è affatto e questo pone il capo nella delicata posizione di dover costantemente rinfrescare la sua vernice di uomo duro e vincente.   Un gioco che diventa sempre più pericoloso, man  mano che i margini di manovra si assottigliano.

Guerra, contenimento CinaMentre tutti gli occhi guardano la Russia europea, cosa succede dalla parte opposta del pianteta?   Succede che la Cina si trova anch’essa nelle peste di una crisi economica che si va cronicizzando.   Anche se formalmente il PIL continua a crescere, la gente si va rendendo conto che la festa è finita e diventa nervosa.   Pronta anche qui un’altra iniezione di nazionalismo e di paura, con una serie di azioni per rivendicare alcuni scogli.   Ma dietro queste sceneggiate, Pechino sta mettendo in atto una serie di operazioni molto più consistenti.   Nel Mar Cinese e nell’Oceano Indiano sta infatti stabilendo una serie di basi logistiche e militari che (giustamente) spaventano i suoi vicini.
Se ne è accorto Obama che, da qualche anno, ha avviato una complessa politica di contenimento, saldando un’alleanza fra molti degli stati più o meno direttamente minacciati.   Da Giappone, Korea del Sud e Taiwan, fino al Vietnam ed alle Filippine (con una minaccia di Duterte di cambiare campo se non gli lasciano ammazzare i 3 milioni di filippini che vuole eliminare).   Ma ultimamente anche Indonesia ed India sembrano aver deciso che la Cina è più pericolosa degli USA.
Dunque, mentre l’espansione cinese verso il mare sta incontrando resistenza, verso il continente le porte le si spalancano.   Le difficoltà in cui annaspa la Russia favoriscono infatti la Cina che si sta letteralmente comprando d’occasione le risorse siberiane, tanto quelle russe che quelle dei suoi satelliti asiatici.   Per ora fa eccezione il Kazakistan che tiene fuori i cinesi, ma non i russi.
Dunque, abbiamo una potenza in declino, erede una notevole forza militare, ma senza più un sistema industriale in grado di sostenerla.   Questa, per difendere i suoi confini occidentali (o comunque quelli che considera tali), sta svendendo i suoi confini orientali dove una potenza prossima al suo picco sta cercando disperatamente spazio.

Il seguito alla prossima puntata.

PS. Aggiornamento dell’ultim’ora: pare sia iniziato l’attacco dei governativi iraqueni a Mossul.   Il rischio che vada come ad Aleppo è molto alto.    Così come è molto alto il rischio di uno scontro diretto fra Turchia e Iraq per il controllo di parti della città.

 

Il fallimento del movimento ambientalista.

 

fallimento movimento ambientalista

Uno dei tanti paradossi che caratterizzano la nostra società è questo:  man mano che la situazione ambientale degenera, la quantità di gente preoccupata di questo aumenta, ma il movimento ambientalista è sempre più debole e solo.

Chi non è più giovane, forse ricorderà che negli anni ’70 e ’80 il movimento ambientalista sembrava capace di cambiare la storia del mondo.   Nelle sue infinite articolazioni, riusciva incidere in maniera avvertibile sulle decisioni politiche; almeno nei paesi occidentali dove esisteva una sostanziale libertà di stampa e di parola.
Eppure, allora, un collasso socio-economico ed ambientale di scala globale era considerato possibile non prima di 50 o 100 anni.   Oggi invece, probabilmente stiamo vivendo le prime avvisaglie di un tale collasso, ma non si vedono orde di ambientalisti che, al grido di “Lo avevamo detto”, si impongono finalmente nelle sedi del potere.   Piuttosto, sta accadendo esattamente il contrario: le politiche ambientali fin qui costruite vengono rapidamente smantellate, o svuotate di ogni efficacia.   E gli ambientalisti o girano rapidamente la gabbana, o vengono estromessi non solo dalle “stanze dei bottoni”, ma anche dai corridoi e dagli sgabuzzini del potere.
All’interno della società, le associazioni storiche sopravvivono a stento ed i partiti “verdi” scompaiono, spesso dopo aver fatto magre figure.
E’ chiaro che ogni situazione particolare ha la sua storia ed i suoi problemi, ma il declino dell’ambientalismo è un fenomeno globale e, dunque, deve anche avere delle cause globali, oltre a quelle che riguardano, invece, questa o quella organizzazione particolare.
In qualità di veterano e superstite di questo movimento, mi sono posto alcune domande.

Prima domanda: C’è stato qualcosa di sbagliato alla radice del movimento?

Penso di si, ma non essendo un politologo, posso proporre solo delle riflessioni basate sull’esperienza personale.
Nel suo insieme, l’ambientalismo non ha saputo elaborare e divulgare un paradigma politico alternativo ai due che, all’epoca, si contendevano la scena: il liberalismo ed il socialismo.   Molto presto infatti, la maggior parte degli aderenti e delle organizzazioni ambientaliste si sono lasciate aspirare e stritolare nella dialettica destra-sinistra che nulla aveva a che fare con il cuore del problema.   In pratica, il movimento si è diviso in due.   Da un lato coloro che pensavano che il sistema liberal-capitalista fosse sostanzialmente valido, salvo introdurvi delle correzioni per garantire un adeguato livello di tutela ambientale.
Sull’altro fronte coloro che, viceversa, ritenevano valido il modello socialista  che, con alcune integrazioni, avrebbe potuto frenare il degrado degli ecosistemi, l’esaurimento delle risorse, ecc.
In pratica, da entrambe le parti si è pensato di migliorare quello che già era disponibile, anziché elaborare qualcosa di autenticamente originale.

Eppure, al di la dei parziali e limitati successi che entrambi gli schieramenti possono effettivamente rivendicare, non avrebbe dovuto volerci molto a capire che si trattava di posizioni perdenti a priori.   Sia il capitalismo che il socialismo perseguono infatti il progresso indefinito della società.   La differenza fra di essi non è quindi negli scopi ultimi, ma su quali siano i mezzi migliori per perseguirli, quali i modi più efficaci per accelerare il progresso e come ripartirne i benefici frutti.
Entrambi i filoni dell’ambientalismo, accettando e facendo proprio il corpus centrale delle due dottrine socio-economiche di rispettivo riferimento, necessariamente hanno fatto proprio il nucleo centrale che le accomuna: il Progresso.   Un archetipo, che si porta dietro un vasto corollario di conseguenze e che nessuna analisi dei fatti potrà mai scalfire in quanto si tratta, tipicamente, di un postulato pre-analitico (Daly, Ecological Economics 2004).
A mio parere, era invece proprio l’archetipo del progresso che avrebbe dovuto essere messo in discussione, ma ciò avrebbe significato attaccare la radice stessa del pensiero moderno alla cui origine troviamo padri del calibro di Bacone, Galileo, Cartesio, Hobbes, Boyle, ecc.   Un filone di pensiero poi sviluppato dall’illuminismo e santificato da 2 secoli di scuola pubblica.   Difficile immaginare un compito più arduo.
Del resto, perfino nelle pagine della prima edizione dei “Limiti dello sviluppo” si leggeva tra le righe una diversa impostazione fra Donella e Denis Meadows; una diversità che si è andata poi palesando meglio nelle edizioni successive.   Il risultato finale del loro studio era infatti chiaro: qualunque risulti essere la dotazione di risorse del pianeta e qualunque sia il livello di tecnologia raggiungibile, il collasso del sistema sarà inevitabile ed il nostro destino tanto più fosco quanto più abbondanti saranno le risorse e potenti le tecnologie.   Unica via di uscita dalla trappola era fermare la crescita demografica e la crescita economica prima di raggiungere una soglia critica che non era definibile con certezza, ma che si sapeva non essere lontana.
Un messaggio chiaro che andava totalmente e direttamente contro l’intero apparato filosofico ed ideologico della “modernità”, chiudendo definitivamente con il mito delle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità” (Leopardi, La Ginestra).
Qualcosa di talmente forte che neppure tutti i membri del gruppo erano pronti ad accettare, a cominciare dalla stessa Donella che volle mitigare il messaggio.   In fondo, disse, se facciamo sempre meglio con sempre le stesse cose, e non aumentiamo di numero, perché non dovremmo migliorare indefinitamente le nostre vite?   In altre parole, si pensò che fosse possibile distinguere fra uno “sviluppo insostenibile” fatto soprattutto di crescita quantitativa ed uno “sviluppo sostenibile” fatto di buone pratiche, solidarietà sociale ed efficienza industriale.
Oggi che “sviluppo sostenibile” ed “efficienza” sono divenute le parole d’ordine dei più folli e disperati tentativi per rilanciare una crescita oramai da un pezzo anti-economica, il loro suono risulta quasi osceno.    Ma all’epoca furono le parole d’ordine su cui si strutturarono entrambe le anime dell’ambientalismo: quella liberale e quella socialista.   Ed esattamente questo fu, a mio avviso, l’errore che fece smarrire la strada a tutti noi che, a quei tempi, raccoglievamo fondi per salvare la Foca monaca o ciclostilavamo volantini nei sottoscala.
A mio avviso, per essere efficace, il movimento ambientalista, avrebbe dovuto capire subito che il nemico erano i miti fondanti della modernità.   Dunque una rivoluzione ben più radicale di quelle di moda all’epoca, e questo ci porta alla seconda domanda.

Seconda domanda: Avrebbe potuto andare diversamente?

Da subito, il progetto ambientalista si incagliò su numerosi scogli.   A mio avviso, due dei più importanti, che peraltro non  vengono mai trattati, furono le conseguenze che politiche efficaci sul piano della sostenibilità avrebbero potuto avere sugli equilibri geo-politici e sulle politiche sanitarie.
Frenare la crescita economica avrebbe probabilmente comportato un parallelo rallentamento del progresso tecnologico.   USA ed URSS (con i relativi satelliti) erano allora impegnati in uno scontro formidabile per il controllo del pianeta e nessuno dei due contendenti era in grado di assumersi un tale rischio.    Men che meno il blocco occidentale che aveva adottato (con successo) una strategia fatta di un dispiegamento di forze quantitativamente molto inferiori, ma tecnologicamente più avanzate.
Così ci si concentrò sull’aspetto demografico e qualcuno ricorderà che, allora, la sovrappopolazione era un argomento sulla bocca di tutti.
Alcuni paesi avviarono anche delle concrete politiche di riduzione delle nascite, in particolare l’India (poi abbandonate) e la Cina (tuttora vigenti in forma attenuata), ma nessuno si sognò neppure lontanamente di mettere in discussione gli effetti demografici che il fulmineo progresso della medicina stava avendo in tutto il mondo.   Eppure, non è certo un segreto che la demografia dipende dall’equilibrio fra nascite e morti.   E che, con animali molto longevi come l’uomo, gli effetti di fluttuazioni anche modeste da entrambe le parti hanno effetti complessi, destinati a farsi sentire nei decenni.   Un argomento politicamente minato ancor oggi, tanto più allora che avevamo una salubre memoria delle follie criminali di Hitler e Stalin.  Così, si preferì evitare l’argomento, sperando che la “transizione demografica” avrebbe risolto il problema da sola ed in tempo.   In pratica, ci si affidò alla crescita economica per risolvere i problemi che questa stessa creava.   Difficile che potesse funzionare ed infatti non ha funzionato, ma sarebbe stato possibile affrontare diversamente l’argomento con un minimo di probabilità di successo? Penso di no.
Un’altra ragione per cui, a posteriori, penso che non avrebbe potuto andare diversamente era la possibilità di comunicare il nostro messaggio.   In buona parte del mondo (Russia, Cina e molti altri), semplicemente era vietato.    Nei paesi occidentali era invece permesso, ma il nemico da battere si è dimostrato capace non solo di assoldare una parte dei quadri del movimento, ma anche fare proprie la retorica e la dialettica ambientaliste.   Assorbirne gli slogan, modificandone il significato così da renderlo funzionale al proprio scopo fondamentale: la crescita.   E poiché il significato delle parole cambia nel tempo a seconda di come queste vengono impiegate, ad oggi è giocoforza ammettere che il capitalismo ha vinto non solo sul piano politico, ma prima ancora su quello semantico.
Ma anche al di la questi ed altri ostacoli, quali potevano essere le probabilità di successo di un movimento politico che, per essere coerente, avrebbe dovuto predicare la fine del progresso e del benessere materiale per tutti?
Finquando si è trattato di dire ai benestanti cittadini occidentali che dovevano rinunciare a quota parte del loro benessere, in molti si sono fatti avanti a dirlo, anche se con scarsi risultati (cfr. il rapporto Europa sostenibile e gli scritti di S. Latouche, fra i numerosi altri).   Ma era evidente che sarebbe stato del tutto inutile se, contemporaneamente, tutti gli altri popoli della terra non avessero rinunciato ad acquisire un analogo benessere: una cosa talmente “politicamente scorretta” che praticamente nessuno ha finora avuto il coraggio di dirla.    Ma neppure ciò sarebbe bastato.
Giunti alle strette degli anni ’70, fermare la crescita demografica era imperativo e non poteva essere fatto senza porre dei limiti al progresso della medicina.   Una cosa assolutamente improponibile, con ottime ragioni perché fosse così.schopenhauer
Dunque l’ambientalismo politico si trovò da subito stretto in un’impasse che avrebbe potuto essere superata solo con un radicale cambio di paradigma; un salto culturale talmente grande da non essere neppure tentato.
Schopenhauer diceva che solo ciò che poi accade era davvero possibile che accadesse.   Personalmente condivido solo in parte tale illustre opinione, ma nel caso in esame penso che si possa applicare pienamente.

Terza domanda: Ad oggi continua ad avere un senso fare dell’attivismo ambientalista?   Se si, Quale?

Bisogna ammettere che oggi è particolarmente imbarazzante fare discorsi ambientalisti.    Che dovremmo dire?     La maggior parte delle organizzazioni ancora attive continua a “suonare” allarmi ormai consunti dall’uso e dall’abuso.    Che senso ha continuare a dire che “se non facciamo questo e quest’altro avverrà una catastrofe”, quando la catastrofe è in corso e non ha spostato di una virgola la direzione del sistema?
L’esempio più facile è quello del clima.   30 o 20 anni fa era giustificato dire: “Se non riduciamo le emissioni il clima peggiorerà e farà dei danni”.    Che senso ha ripeterlo oggi, mentre sui teleschermi le immagini di alluvioni e siccità, tornado ed uragani si alternano quotidianamente alla pubblicità dell’industria energetica ed agli appelli per il “rilancio della crescita”?   E con tale naturalezza che non ci si accorge nemmeno più della schizofrenia della cosa.
D’altronde, che senso può avere andare in giro a dire che tanto oramai non c’è più niente da fare?   A parte che ciò facilmente suscita reazioni ostili e gesti osceni, rischia anche di servire da pretesto per rimuovere anche i pochi veli di protezione che ancora mitigano la follia autodistruttiva del sistema economico.

La risposta, ritengo, dipenda essenzialmente dallo scopo che ci si prefigge.   Se ci si danno finalità possibili, c’è sempre un senso a fare qualcosa.

Lo scopo di partenza, dirottare il mondo su di un cammino di sostenibilità è fallito, ma abbiamo altre possibilità di azione.

La prima sta venendo di moda con l’etichetta di “resilienza”.    In estrema sintesi, si tratta di questo: preso atto dell’inevitabile, possiamo comunque prepararci in una certa misura agli eventi futuri ed aumentare le probabilità di sopravvivenza nostre e quelle dei nostri parenti ed amici.
Si tratta di un campo praticamente sterminato, totalmente da inventare in cui ognuno può rendersi utile anche solo proponendo idee e consigli.    Magari sbagliati, ma comunque capaci di stimolare altre idee in altre persone.

La seconda è che se non possiamo fare quasi più niente per migliorare il nostro destino, possiamo invece fare tantissimo per peggiorarlo ulteriormente.
Anche solo evitare di fare cose stupide sarebbe un grandissimo vantaggio ed in questo penso che rivesta un ruolo importante la divulgazione scientifica.   Se si riesce a capire, almeno in parte, cosa sta succedendo e perché, sarà meno facile farsi abbindolare da chi promette l’impossibile, naturalmente a patto di votarlo o di comprare i suoi prodotti.

Una terza possibilità di azione riguarda il futuro remoto; quelle “bottiglie gettate in mare” di cui parla Edgar Morin (La via 2012).   Nessuno può sapere quale aspetto avrà il collasso visto dal nostro punto di vista, e neppure quanto tempo prenderà, né quale sarà il nostro personale destino.    Ma  possiamo contare sul fatto che le doti di resistenza e resilienza della specie umana faranno sì che, quando la vegetazione coprirà le rovine delle nostre megalopoli, ci saranno degli uomini a discutere di cosa siano quei grandiosi ruderi.   Possiamo fare qualcosa ora per aiutarli?    Io penso di si.
Oggi disponiamo di un patrimonio di conoscenze scientifiche e di arte in ogni forma possibile, che sarebbe veramente stupido e criminale lasciar morire con noi.   Io penso che dovremmo preoccuparci di divulgare il più possibile questo immenso patrimonio, proteggerne la parte materiale (opere, monumenti, musei, libri, ecc.) in modo da accrescere le probabilità che parte di tutto questo sopravviva alle fasi più violente e disperate del disfacimento della nostra civiltà.    Molte delle opere che ci sono giunte dal nostro remoto passato sono sopravvissute grazie a persone che le hanno copiate, nascoste, protette, tramandate.    Noi abbiamo in questo campo una possibilità praticamente infinita di azione.

In conclusione

Ritengo che il movimento ambientalista fosse in partenza destinato a fallire il suo scopo principale, ma non è stato per questo inutile.
Se il filone principale del movimento non ha potuto scalfire i paradigmi della civiltà moderna, l’ambientalismo ha nondimeno influenzato importanti frange del pensiero contemporaneo, creando i presupposti perché dei paradigmi veramente alternativi possano nascere, o rinascere, contribuendo forse in modo importante alla formazione delle civiltà che, probabilmente fra qualche secolo, si diffonderanno sulla Terra.
fallimento ambientalista, cercando un futuro

TURCHIA: Ataturk è morto, evviva Ataturk!

 

Pillole.

Turchia AtaturkLa Turchia uscì a pezzi dalla I guerra mondiale.  Kemal Pasha (detto Ataturk – Padre dei Turchi) prese il potere con un colpo di stato ed instaurò una dittatura militare che si pose lo scopo di portare quel che restava del defunto Impero Ottomano a far parte integrante dell’Europa occidentale.    Primo passo: laicizzare lo stato, con lo buone o (molto più spesso) con le cattive.   Per essere chiari: Kemal non era un buonista, né un apostolo della democrazia.   Era un uomo molto intelligente ed un eccellente generale che si era posto il problema di come evitare che i resti del suo Paese finissero colonia di una potenza straniera.
Da allora il programma politico delle forze armate turche non è mai cambiato.   Tutte le volte che il governo ha preso una direzione diversa da quella indicata da Ataturk, l’esercito ha riportato la barra al centro (4 colpi di stato, tutti riusciti, fra il 1960 ed il 1997; ogni volta seguiti dopo pochi anni da nuove elezioni e nuovo governo civile).
Fino al 1999, quando la Turchia, all’epoca saldamente kemalista, militarizzata e filoccidentale, fece richiesta di adesione alla Comunità Europea.   Problema: il partito filo europeo era minoritario fra la popolazione, ma dominante nelle istituzioni proprio grazie all’ingerenza dei militari nella politica.   La maggioranza della popolazione turca era e rimane islamista, con varie sfumature.
La prima cosa che l’Europa chiese ai militari turchi per coronare il programma del “Padre dei Turchi” fu di rinunciare alle loro prerogative politiche ed in parte a quelle economiche.   Lo fecero e nel 2003 andò al governo il sindaco di Istambul: un certo Recep Tayyip Erdoğan.
All’inizio si presentò ed agì da perfetto democristiano in salsa islamica: molte chiacchiere sulla religione e le tradizioni, ma la barra saldamente al centro.

Entusiasmo nella UE e nella NATO:  Avevamo in tasca un grande stato mussulmano, economicamente in crescita esponenziale; politicamente amico di Israele e totalmente filo –occidentale.   Ma anche cultore di buoni rapporti con tutti i vicini indipendentemente dal loro orientamento politico, perfino con la Siria e gli stati islamici del “ventre molle” della ex-URSS.   Cosa di meglio?

Non sapremo mai se Erdogan abbia agito fin dall’inizio con un ingegnosissimo piano a lunga scadenza o se si sia montato la testa man man che gli andava bene, ma di fatto nel corso degli ultimi 3-4 anni la sua politica è cambiata in modo sempre più palese ed aggressivo.   Fino a giungere a cacumini di megalomania e ad una spregiudicata manipolazione della forza a sostegno del suo programma oramai apertamente “neo-ottomano”.
Ma l’appoggio mal celato a Daesh (almeno nelle fasi iniziali), l’epurazione progressiva dei kemalisti, le riforme e le dichiarazioni sempre più islamiste, il sostegno a Morsi, la sistematica repressione del dissenso, la censura eccetera non gli avevano ancora dato il potere assoluto.   Neppure aver rilanciato la guerriglia kurda mediante una serie di sapienti provocazioni era stato sufficiente.   Per completare il lavoro bisognava eradicare definitivamente Ataturk “dalla mente e dal cuore” dei turchi, ma senza che se ne accorgessero.

Il tentato “golpe”

golpe turchia
Fonte: www.maurobiani.it ; Autore: Mauro Biani.

C’è stato davvero?   Alcuni sostengono che si sia trattato di una montatura destinata a fornire il pretesto necessario all’epurazione finale dei dissidenti.   Possibile, ma personalmente ritengo che si sia trattato dell’ammutinamento di un manipolo di militari che speravano di provocare una sollevazione generale delle forze armate grazie ad una serie di azioni spettacolari.
Comunque, indipendentemente dalla genesi dell’ammutinamento, esattamente quello di cui Erdogan aveva bisogno per completare il lavoro:   nel giro di pochi giorni sono finite in carcere migliaia di persone, mentre oltre 50.000 sono state licenziate ed è solo l’inizio.   E’ di ieri la notizia della sospensione dei passaporti, di oggi quella della sospensione della convenzione sui diritti umani.   Di fatto, chi è in odore di opposizione od appartiene ad una famiglia sbagliata non può espatriare e si può stare certi che la “caccia alle streghe”proseguirà meticolosamente.
Intendiamoci, non sappiamo quali fossero i veri scopi dell’ammutinamento e se avessero vinto loro avremo ugualmente visto arresti di massa, epurazioni, eccetera.   Tuttavia, nessuno dei 4 colpi di stato realizzati dall’esercito turco dal 1960 ad oggi ha condotto ad una dittatura come quella che sta nascendo dal fallimento di questo “golpe”.
Ufficialmente il “cattivo” è Fethullah Gülen, un altro leader islamista, oppositore di Erdogan ed esule in USA.   Ma guarda caso le istituzioni su cui si è abbattuta la scure dell’epurazione per prima e con più violenza sono quelle tradizionalmente kemaliste: le forze armate, la polizia, la magistratura, la burocrazia ministeriale, la scuola.

Prospettive

La vicenda si inserisce in un quadro già molto difficile per la Turchia.   I tradizionali buoni rapporti con tutti sono un ricordo; attualmente i rapporti vanno dal freddo al pessimo con tutti i vicini.   Il miracolo economico è morto e sepolto, mentre la guerra in Siria, comunque vada, sarà persa dai turchi e dai loro sodali locali.   La guerriglia ed il terrorismo hanno finora fatto il gioco dell’aspirante “sultano”, ma resta da vedere se e come riuscirà a riportarle sotto controllo, dopo averle scatenate.

Gli USA e la NATO continuano ad essere alleati, ma non hanno apprezzato il doppio gioco e si stanno forse preparando a scaricare la Turchia.   L’accordo sottobanco con Russia ed Iran sulla gestione della guerra in Siria e la protezione assicurata finora a Gulen sono solo due dei fattori che dovrebbero preoccupare il governo turco che rischia fortemente di restare fra due sedie, insieme ai Saud che non se la passano niente bene neppure loro.
I rapporti con l’Europa poi sono quanto di più grottesco si possa pensare.   Erdogan ha infatti insistito per continuare ad ampliare trattative; siamo oramai a ben  16 capitoli aperti, senza peraltro averne mai chiuso definitivamente neanche uno.   E questo proprio mentre fra dichiarazioni pubbliche ed azioni, di fatto, la Turchia prende rapidamente le distanze dal nostro continente.
Perché?   Da parte del governo turco, probabilmente, per fingere con la propria popolazione di essere fedele al programma di Ataturk.  Da parte europea, si cerca invece di usare questo strumento per rallentare il processo di costruzione di una dittatura islamista, ma con risultati davvero scarsi!
Insomma, se nessuno ha fretta di scaricare un alleato di questa taglia, nessuno neanche più se ne fida e fervono i preparativi.   In particolare tramite una normalizzazione dei rapporti con l’Iran che da arci-nemico è già passato ad alleato di fatto, almeno nei teatri critici di Iraq e Siria.

Poi c’è la mega-questione dell’immigrazione che Erdogan sta usando per ricattare gli occidentali, incapaci di gestire la questione.   Gli accordi finora non hanno funzionato e, probabilmente, proprio in questo momento la preoccupazione principale delle cancellerie europee è come continuare a fingere che la Turchia sia un “paese sicuro” per servirsene come deposito e filtro di profughi ed emigranti.

Come procederà?   Di sicuro la riforma costituzionale voluta da Erdogan passerà a pieni voti ed egli coronerà il suo sogno di potere.   Chi non è d’accordo farà bene a tenere un profilo bassissimo.
Un altro punto abbastanza certo è che la situazione economica peggiorerà in Turchia più rapidamente che altrove (peggiorerà ovunque) ed il governo si troverà quindi a dover gestire grandi masse di gente impoverita e/o disoccupata, mentre i canali tradizionali dell’emigrazione si andranno stringendo.   In casi di questo genere, accelerare la deriva teocratica è di solito una mossa efficace.   Ma solo sul breve periodo ed è quindi probabille che, prima o poi,  il “sultano” pensi di usare la sua notevole forza militare per uscire dall’angolo in cui si è cacciato.   Non credo che sarà mai tanto pazzo da usarla contro di noi e forse non uscirà nemmeno dalla NATO, ma la prospettiva di una grande guerra fra Turchia e Arabia Saudita da un lato, Iran dall’altro diviene sempre più concreta.

Turchia colpo di stato
“Il golpe è stato un dono di Dio”

La Turchia moderna è nata da un colpo di stato militare riuscito ed è morta con un colpo di stato fallito.   Adesso comincia un’altra storia, completamente diversa.

Brexit o mica brexit ?

Sembra proprio che David Cameron si sia ficcato in una tipica “loose-loose situation”, vale a dire una situazione in cui, comunque vada, saranno guai grossi.   Purtroppo non solo per lui, che se ne meriterebbe a non finire, bensì per tutti.

Niente pronostici, tanto sono del tutto inutili e non ci si azzecca mai.   Invece qualche considerazione su alcune delle possibili conseguenze del voto britannico.

il primo punto da rimarcare è che, comunque vada, il risultato si giocherà su di un pugno di voti e, quindi, circa metà dei cittadini britannici saranno arrabbiati e probabilmente anche spaventati.
Ora diamo uno sguardo ai due possibili risultati.brexit Jacopo Simonetta

Se vince “Remain”.

Sul piano istituzionale ed organizzativo non cambierebbe nulla, le borse si calmerebbero e tutti tornerebbero a far finta di niente.   Sarebbe un errore drammatico.    Il fatto che circa metà della popolazione di uno dei maggiori paesi europei abbia comunque votato per uscire dall’Unione dovrebbe indurre i governi nazionali a finirla con gli attuali giochetti e varare una vera e profonda riforma dell’Unione.    Ce n’è un immenso bisogno.   Ma se fossero stati disposti a farlo lo avrebbero già fatto.   A mio avviso dunque, il risultato peggiore di una vittoria del “remain” sarebbe di proseguire l’attuale situazione di stallo.   Fino alla prossima crisi acuta che non tarderebbe ad arrivare da uno qualunque dei numerosi fronti politici aperti.

Se vince “Brexit”.

Qui gli scenari sarebbero più complessi.   Ma al di la dei festeggiamenti fra coloro che in tutta Europa odiano l’Unione, le conseguenze sarebbero imprevedibili.
Per citare solo una delle molte possibilità, una vittoria dei separatisti potrebbe avviare quell’”effetto domino” che gli “euroclasti” si augurano; inducendo una valanga di referendum separatisti che, indipendentemente dei risultati, paralizzerebbero l’attività politica a livello a livello comunitario per anni.

Ma  non sarebbe l’unico effetto dominio possibile.    Poco tempo fa in Scozia la separazione dall’Inghilterra ha perso di stretta misura, ma nel Regno di Scozia la larga maggioranza della popolazione è filo-europea ed è quindi quasi scontato che, a seguito di una brexit, i separatisti scozzesi riproporrebbero il loro referendum, stavolta con la quasi certezza di vincere.   E discorsi del genere circolano anche in Irlanda del Nord e perfino in Galles.   Insomma, la brexit potrebbe catalizzare la disintegrazione dell’EU, ma anche quella del Regno unito; o di entrambe.    Con quali conseguenze sulle numerose beghe separatiste pendenti in quasi tutti i paesi europei?   Gradualmente, potrebbe essere la fine di molti di quegli stati nazionali che hanno sempre impedito la nascita di una federazione europea.   Gran Bretagna in testa.

Anche sul piano economico gli esiti possibili sono molteplici.  Naturalmente i sostenitori della Brexit annunciano un’ età di rubicondo benessere, mentre gli altri annunciano ogni sorta di calamità economiche.   Chi dei due ha ragione?  Io certo non lo so, magari nessuno dei due.   Ma, comunque, se la brexit portasse un miglioramento nelle condizioni di vita degli inglesi, la spinta centrifuga se ne rafforzerebbe assai, anche se non è affatto detto che quel che succede in un paese succeda uguale in altri.    Ma se, invece, l’uscita dall’Unione davvero precipitasse l’Inghilterra in una grave crisi, molti che adesso sognano il ritorno alla lira od alla dracma cambierebbero parere.    In altre parole, la brexiti potrebbe anche cementare l’EU, anziché disintegrarla.

Infine, non dimentichiamoci che se davvero il Regno unito uscisse dall’EU senza sbriciolarsi, cambierebbero molte cose per le centinaia di migliaia di europei che lavorano in Inghilterra,  ma anche per gli inglesi che lavorano sul continente che sono davvero tanti.

Conclusioni (provvisorie)

Insomma, qualunque cosa accadrà, andrà male.
Se vincesse “remain” tutti ne approfitteranno per non cambiare nulla e provocare così altre e ancor peggiori crisi.

Se vincesse “brexit” e le cose andassero bene per gli inglesi, le istituzioni europee andrebbero nel caos ed il castello che per 50 anni ha evitato il risorgere di nazionalismi aggressivi nella pancia dell’Europa andrebbe almeno in parte in frantumi.   Spalancando la porta a sviluppi assolutamente imprevedibili.

Se, infine, vincesse la “brexit” e le cose girassero poi male per i sudditi di Queem Elisabeth, la UE potrebbe uscirne rafforzata, ma non per questo migliorata.  E, comunque, indebolita, poiché il Regno Unito, malgrado tutto, è ancora un paese relativamente importante.

Complimenti Mr. Cameron.   Ne valeva la pena, solo per vincere le elezioni scorse!