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SI!! Sta succedendo proprio ora!!!

Il fallimento del movimento ambientalista.

 

fallimento movimento ambientalista

Uno dei tanti paradossi che caratterizzano la nostra società è questo:  man mano che la situazione ambientale degenera, la quantità di gente preoccupata di questo aumenta, ma il movimento ambientalista è sempre più debole e solo.

Chi non è più giovane, forse ricorderà che negli anni ’70 e ’80 il movimento ambientalista sembrava capace di cambiare la storia del mondo.   Nelle sue infinite articolazioni, riusciva incidere in maniera avvertibile sulle decisioni politiche; almeno nei paesi occidentali dove esisteva una sostanziale libertà di stampa e di parola.
Eppure, allora, un collasso socio-economico ed ambientale di scala globale era considerato possibile non prima di 50 o 100 anni.   Oggi invece, probabilmente stiamo vivendo le prime avvisaglie di un tale collasso, ma non si vedono orde di ambientalisti che, al grido di “Lo avevamo detto”, si impongono finalmente nelle sedi del potere.   Piuttosto, sta accadendo esattamente il contrario: le politiche ambientali fin qui costruite vengono rapidamente smantellate, o svuotate di ogni efficacia.   E gli ambientalisti o girano rapidamente la gabbana, o vengono estromessi non solo dalle “stanze dei bottoni”, ma anche dai corridoi e dagli sgabuzzini del potere.
All’interno della società, le associazioni storiche sopravvivono a stento ed i partiti “verdi” scompaiono, spesso dopo aver fatto magre figure.
E’ chiaro che ogni situazione particolare ha la sua storia ed i suoi problemi, ma il declino dell’ambientalismo è un fenomeno globale e, dunque, deve anche avere delle cause globali, oltre a quelle che riguardano, invece, questa o quella organizzazione particolare.
In qualità di veterano e superstite di questo movimento, mi sono posto alcune domande.

Prima domanda: C’è stato qualcosa di sbagliato alla radice del movimento?

Penso di si, ma non essendo un politologo, posso proporre solo delle riflessioni basate sull’esperienza personale.
Nel suo insieme, l’ambientalismo non ha saputo elaborare e divulgare un paradigma politico alternativo ai due che, all’epoca, si contendevano la scena: il liberalismo ed il socialismo.   Molto presto infatti, la maggior parte degli aderenti e delle organizzazioni ambientaliste si sono lasciate aspirare e stritolare nella dialettica destra-sinistra che nulla aveva a che fare con il cuore del problema.   In pratica, il movimento si è diviso in due.   Da un lato coloro che pensavano che il sistema liberal-capitalista fosse sostanzialmente valido, salvo introdurvi delle correzioni per garantire un adeguato livello di tutela ambientale.
Sull’altro fronte coloro che, viceversa, ritenevano valido il modello socialista  che, con alcune integrazioni, avrebbe potuto frenare il degrado degli ecosistemi, l’esaurimento delle risorse, ecc.
In pratica, da entrambe le parti si è pensato di migliorare quello che già era disponibile, anziché elaborare qualcosa di autenticamente originale.

Eppure, al di la dei parziali e limitati successi che entrambi gli schieramenti possono effettivamente rivendicare, non avrebbe dovuto volerci molto a capire che si trattava di posizioni perdenti a priori.   Sia il capitalismo che il socialismo perseguono infatti il progresso indefinito della società.   La differenza fra di essi non è quindi negli scopi ultimi, ma su quali siano i mezzi migliori per perseguirli, quali i modi più efficaci per accelerare il progresso e come ripartirne i benefici frutti.
Entrambi i filoni dell’ambientalismo, accettando e facendo proprio il corpus centrale delle due dottrine socio-economiche di rispettivo riferimento, necessariamente hanno fatto proprio il nucleo centrale che le accomuna: il Progresso.   Un archetipo, che si porta dietro un vasto corollario di conseguenze e che nessuna analisi dei fatti potrà mai scalfire in quanto si tratta, tipicamente, di un postulato pre-analitico (Daly, Ecological Economics 2004).
A mio parere, era invece proprio l’archetipo del progresso che avrebbe dovuto essere messo in discussione, ma ciò avrebbe significato attaccare la radice stessa del pensiero moderno alla cui origine troviamo padri del calibro di Bacone, Galileo, Cartesio, Hobbes, Boyle, ecc.   Un filone di pensiero poi sviluppato dall’illuminismo e santificato da 2 secoli di scuola pubblica.   Difficile immaginare un compito più arduo.
Del resto, perfino nelle pagine della prima edizione dei “Limiti dello sviluppo” si leggeva tra le righe una diversa impostazione fra Donella e Denis Meadows; una diversità che si è andata poi palesando meglio nelle edizioni successive.   Il risultato finale del loro studio era infatti chiaro: qualunque risulti essere la dotazione di risorse del pianeta e qualunque sia il livello di tecnologia raggiungibile, il collasso del sistema sarà inevitabile ed il nostro destino tanto più fosco quanto più abbondanti saranno le risorse e potenti le tecnologie.   Unica via di uscita dalla trappola era fermare la crescita demografica e la crescita economica prima di raggiungere una soglia critica che non era definibile con certezza, ma che si sapeva non essere lontana.
Un messaggio chiaro che andava totalmente e direttamente contro l’intero apparato filosofico ed ideologico della “modernità”, chiudendo definitivamente con il mito delle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità” (Leopardi, La Ginestra).
Qualcosa di talmente forte che neppure tutti i membri del gruppo erano pronti ad accettare, a cominciare dalla stessa Donella che volle mitigare il messaggio.   In fondo, disse, se facciamo sempre meglio con sempre le stesse cose, e non aumentiamo di numero, perché non dovremmo migliorare indefinitamente le nostre vite?   In altre parole, si pensò che fosse possibile distinguere fra uno “sviluppo insostenibile” fatto soprattutto di crescita quantitativa ed uno “sviluppo sostenibile” fatto di buone pratiche, solidarietà sociale ed efficienza industriale.
Oggi che “sviluppo sostenibile” ed “efficienza” sono divenute le parole d’ordine dei più folli e disperati tentativi per rilanciare una crescita oramai da un pezzo anti-economica, il loro suono risulta quasi osceno.    Ma all’epoca furono le parole d’ordine su cui si strutturarono entrambe le anime dell’ambientalismo: quella liberale e quella socialista.   Ed esattamente questo fu, a mio avviso, l’errore che fece smarrire la strada a tutti noi che, a quei tempi, raccoglievamo fondi per salvare la Foca monaca o ciclostilavamo volantini nei sottoscala.
A mio avviso, per essere efficace, il movimento ambientalista, avrebbe dovuto capire subito che il nemico erano i miti fondanti della modernità.   Dunque una rivoluzione ben più radicale di quelle di moda all’epoca, e questo ci porta alla seconda domanda.

Seconda domanda: Avrebbe potuto andare diversamente?

Da subito, il progetto ambientalista si incagliò su numerosi scogli.   A mio avviso, due dei più importanti, che peraltro non  vengono mai trattati, furono le conseguenze che politiche efficaci sul piano della sostenibilità avrebbero potuto avere sugli equilibri geo-politici e sulle politiche sanitarie.
Frenare la crescita economica avrebbe probabilmente comportato un parallelo rallentamento del progresso tecnologico.   USA ed URSS (con i relativi satelliti) erano allora impegnati in uno scontro formidabile per il controllo del pianeta e nessuno dei due contendenti era in grado di assumersi un tale rischio.    Men che meno il blocco occidentale che aveva adottato (con successo) una strategia fatta di un dispiegamento di forze quantitativamente molto inferiori, ma tecnologicamente più avanzate.
Così ci si concentrò sull’aspetto demografico e qualcuno ricorderà che, allora, la sovrappopolazione era un argomento sulla bocca di tutti.
Alcuni paesi avviarono anche delle concrete politiche di riduzione delle nascite, in particolare l’India (poi abbandonate) e la Cina (tuttora vigenti in forma attenuata), ma nessuno si sognò neppure lontanamente di mettere in discussione gli effetti demografici che il fulmineo progresso della medicina stava avendo in tutto il mondo.   Eppure, non è certo un segreto che la demografia dipende dall’equilibrio fra nascite e morti.   E che, con animali molto longevi come l’uomo, gli effetti di fluttuazioni anche modeste da entrambe le parti hanno effetti complessi, destinati a farsi sentire nei decenni.   Un argomento politicamente minato ancor oggi, tanto più allora che avevamo una salubre memoria delle follie criminali di Hitler e Stalin.  Così, si preferì evitare l’argomento, sperando che la “transizione demografica” avrebbe risolto il problema da sola ed in tempo.   In pratica, ci si affidò alla crescita economica per risolvere i problemi che questa stessa creava.   Difficile che potesse funzionare ed infatti non ha funzionato, ma sarebbe stato possibile affrontare diversamente l’argomento con un minimo di probabilità di successo? Penso di no.
Un’altra ragione per cui, a posteriori, penso che non avrebbe potuto andare diversamente era la possibilità di comunicare il nostro messaggio.   In buona parte del mondo (Russia, Cina e molti altri), semplicemente era vietato.    Nei paesi occidentali era invece permesso, ma il nemico da battere si è dimostrato capace non solo di assoldare una parte dei quadri del movimento, ma anche fare proprie la retorica e la dialettica ambientaliste.   Assorbirne gli slogan, modificandone il significato così da renderlo funzionale al proprio scopo fondamentale: la crescita.   E poiché il significato delle parole cambia nel tempo a seconda di come queste vengono impiegate, ad oggi è giocoforza ammettere che il capitalismo ha vinto non solo sul piano politico, ma prima ancora su quello semantico.
Ma anche al di la questi ed altri ostacoli, quali potevano essere le probabilità di successo di un movimento politico che, per essere coerente, avrebbe dovuto predicare la fine del progresso e del benessere materiale per tutti?
Finquando si è trattato di dire ai benestanti cittadini occidentali che dovevano rinunciare a quota parte del loro benessere, in molti si sono fatti avanti a dirlo, anche se con scarsi risultati (cfr. il rapporto Europa sostenibile e gli scritti di S. Latouche, fra i numerosi altri).   Ma era evidente che sarebbe stato del tutto inutile se, contemporaneamente, tutti gli altri popoli della terra non avessero rinunciato ad acquisire un analogo benessere: una cosa talmente “politicamente scorretta” che praticamente nessuno ha finora avuto il coraggio di dirla.    Ma neppure ciò sarebbe bastato.
Giunti alle strette degli anni ’70, fermare la crescita demografica era imperativo e non poteva essere fatto senza porre dei limiti al progresso della medicina.   Una cosa assolutamente improponibile, con ottime ragioni perché fosse così.schopenhauer
Dunque l’ambientalismo politico si trovò da subito stretto in un’impasse che avrebbe potuto essere superata solo con un radicale cambio di paradigma; un salto culturale talmente grande da non essere neppure tentato.
Schopenhauer diceva che solo ciò che poi accade era davvero possibile che accadesse.   Personalmente condivido solo in parte tale illustre opinione, ma nel caso in esame penso che si possa applicare pienamente.

Terza domanda: Ad oggi continua ad avere un senso fare dell’attivismo ambientalista?   Se si, Quale?

Bisogna ammettere che oggi è particolarmente imbarazzante fare discorsi ambientalisti.    Che dovremmo dire?     La maggior parte delle organizzazioni ancora attive continua a “suonare” allarmi ormai consunti dall’uso e dall’abuso.    Che senso ha continuare a dire che “se non facciamo questo e quest’altro avverrà una catastrofe”, quando la catastrofe è in corso e non ha spostato di una virgola la direzione del sistema?
L’esempio più facile è quello del clima.   30 o 20 anni fa era giustificato dire: “Se non riduciamo le emissioni il clima peggiorerà e farà dei danni”.    Che senso ha ripeterlo oggi, mentre sui teleschermi le immagini di alluvioni e siccità, tornado ed uragani si alternano quotidianamente alla pubblicità dell’industria energetica ed agli appelli per il “rilancio della crescita”?   E con tale naturalezza che non ci si accorge nemmeno più della schizofrenia della cosa.
D’altronde, che senso può avere andare in giro a dire che tanto oramai non c’è più niente da fare?   A parte che ciò facilmente suscita reazioni ostili e gesti osceni, rischia anche di servire da pretesto per rimuovere anche i pochi veli di protezione che ancora mitigano la follia autodistruttiva del sistema economico.

La risposta, ritengo, dipenda essenzialmente dallo scopo che ci si prefigge.   Se ci si danno finalità possibili, c’è sempre un senso a fare qualcosa.

Lo scopo di partenza, dirottare il mondo su di un cammino di sostenibilità è fallito, ma abbiamo altre possibilità di azione.

La prima sta venendo di moda con l’etichetta di “resilienza”.    In estrema sintesi, si tratta di questo: preso atto dell’inevitabile, possiamo comunque prepararci in una certa misura agli eventi futuri ed aumentare le probabilità di sopravvivenza nostre e quelle dei nostri parenti ed amici.
Si tratta di un campo praticamente sterminato, totalmente da inventare in cui ognuno può rendersi utile anche solo proponendo idee e consigli.    Magari sbagliati, ma comunque capaci di stimolare altre idee in altre persone.

La seconda è che se non possiamo fare quasi più niente per migliorare il nostro destino, possiamo invece fare tantissimo per peggiorarlo ulteriormente.
Anche solo evitare di fare cose stupide sarebbe un grandissimo vantaggio ed in questo penso che rivesta un ruolo importante la divulgazione scientifica.   Se si riesce a capire, almeno in parte, cosa sta succedendo e perché, sarà meno facile farsi abbindolare da chi promette l’impossibile, naturalmente a patto di votarlo o di comprare i suoi prodotti.

Una terza possibilità di azione riguarda il futuro remoto; quelle “bottiglie gettate in mare” di cui parla Edgar Morin (La via 2012).   Nessuno può sapere quale aspetto avrà il collasso visto dal nostro punto di vista, e neppure quanto tempo prenderà, né quale sarà il nostro personale destino.    Ma  possiamo contare sul fatto che le doti di resistenza e resilienza della specie umana faranno sì che, quando la vegetazione coprirà le rovine delle nostre megalopoli, ci saranno degli uomini a discutere di cosa siano quei grandiosi ruderi.   Possiamo fare qualcosa ora per aiutarli?    Io penso di si.
Oggi disponiamo di un patrimonio di conoscenze scientifiche e di arte in ogni forma possibile, che sarebbe veramente stupido e criminale lasciar morire con noi.   Io penso che dovremmo preoccuparci di divulgare il più possibile questo immenso patrimonio, proteggerne la parte materiale (opere, monumenti, musei, libri, ecc.) in modo da accrescere le probabilità che parte di tutto questo sopravviva alle fasi più violente e disperate del disfacimento della nostra civiltà.    Molte delle opere che ci sono giunte dal nostro remoto passato sono sopravvissute grazie a persone che le hanno copiate, nascoste, protette, tramandate.    Noi abbiamo in questo campo una possibilità praticamente infinita di azione.

In conclusione

Ritengo che il movimento ambientalista fosse in partenza destinato a fallire il suo scopo principale, ma non è stato per questo inutile.
Se il filone principale del movimento non ha potuto scalfire i paradigmi della civiltà moderna, l’ambientalismo ha nondimeno influenzato importanti frange del pensiero contemporaneo, creando i presupposti perché dei paradigmi veramente alternativi possano nascere, o rinascere, contribuendo forse in modo importante alla formazione delle civiltà che, probabilmente fra qualche secolo, si diffonderanno sulla Terra.
fallimento ambientalista, cercando un futuro

Rane bollite e Capponi di Renzo.

anomalia termica rispetto alla media
anomalia termica rispetto alla media, in gradi centigradi.

L’avete già sentito da tutti i media ma sarà bene ribadirlo: mentre in Kuwait NON è stato appena eguagliato il record assoluto di temperatura mai registrato sul nostro pianeta ( 54 gradi non sono un record), l’anomalia sistematica maggiore, questa si da record assoluto,  la troviamo nelle zone artiche. l’immagine che correda questo post parla meglio di cento parole. Non è una novità: le temperature maggiori provocano lo scioglimento anticipato dei ghiacci marini, che a sua volta permette al mare di assorbire molta più energia, che a sua volta… Ci siamo capiti.

Se pensate , come purtroppo tanti, che questo sia un serio problema ma che il terrorismo internazionale, la crisi economica, etc etc siano problemi al momento più cogenti, vi sbagliate di grosso.

Perché l’origine dei moti arabi, ovvero, per rimanere al terrorismo, della guerra civile in Siria e, in ultima analisi dell’attuale onda di attentati, si può far risalire anche alle eccezionali condizioni di siccità degli anni 2006-2011, che, in regioni già al limite della sussistenza, economica ed agricola, furono la goccia che fece traboccare il vaso.

Il paradosso della rana bollita è spesso stato usato per spiegare perché, in ultima analisi stiamo facendo troppo poco, troppo tardi, per fermare il riscaldamento globale. In realtà il paradosso funziona solo se la rana viene bollita in solitudine. Quando si prende un bel gruppetto di rane e si cerca di bollirle, queste, stressate dalle condizioni ambientali si mettono a bisticciare tra di loro.

La citazione migliore, in questo caso, è quella dei capponi di Renzo, nei Promessi Sposi:

Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.”

Storie di ordinaria immondizia

Da quasi mezzo secolo il Rapporto sui limiti dello sviluppo, commissionato al MIT dal Club di Roma e pubblicato nel lontano 1972, ci mette in guardia rispetto a tutta una serie di disastri incombenti sul nostro precario ‘benessere’. Il primo fra questi è l’esaurimento delle fonti energetiche fossili, argomento sul quale da un po’ di anni si discetta moltissimo. Il secondo è l’inquinamento.

L’analisi sviluppata dal team di Donatella Meadows individuò nella dipendenza dal petrolio e dalle riserve fossili la prima ed inevitabile criticità nel nostro modello di crescita, ma non si fermò lì. Provò a ragionare, sempre utilizzando modelli matematici (un metodo innovativo per l’epoca), su cosa sarebbe successo se il problema dell’approvvigionamento energetico si fosse risolto grazie ad una inattesa evoluzione tecnologica. Quello che saltò fuori fu che la questione immediatamente successiva da fronteggiare sarebbe risultata la sovraproduzione di rifiuti. Cito da Wikipedia:


Scenario 2: Crisi da inquinamento

Si modifica lo scenario 1 ipotizzando che le risorse non rinnovabili siano il doppio in conseguenza di giacimenti non ancora scoperti, in modo da consentire un loro sfruttamento prolungato. Si ha anche in questo caso un progresso bruscamente interrotto nella prima metà del XXI secolo, ma questa volta per effetto dell’inquinamento, con conseguenze sia dirette (sulla salute umana) sia indirette, queste ultime soprattutto per la diminuzione della fertilità della terra (causata, ad es., da accumulo di metalli pesanti o sostanze chimiche di sintesi a lunga persistenza, acidificazione delle piogge, alterazioni climatiche, assottigliamento dello strato di ozono)


Dal mio personale osservatorio, in virtù della recente nomina ad assessore municipale (con deleghe a mobilità e trasporti, ambiente e decoro urbano), ormai da diverse settimane mi ritrovo immerso fino al collo nella cosiddetta ‘questione rifiuti’ della capitale. Vediamo quindi di riassumerne i contorni fondamentali.

Fino a pochi anni fa lo smaltimento dei rifiuti avveniva in un enorme ‘buco nero’, la discarica di Malagrotta dell’imprenditore Manlio Cerroni. Una soluzione semplice quanto inaccettabile che ha raggiunto un punto di non ritorno nel momento in cui l’Unione Europea ha finalmente emesso una normativa per obbligare gli stati membri ad effettuare la differenziazione dei rifiuti ed il riciclaggio.

Il ‘business dei rifiuti’ è risultato però a tal punto redditizio e politicamente influente da mantenere  Malagrotta in esercizio, con successive proroghe, fino al 2013, esponendo l’Italia a multe e procedure di infrazione delle norme comunitarie. Nel momento in cui l’ex sindaco Ignazio Marino ha finalmente firmato l’ordinanza di chiusura sono cominciati i guai.

La città si è ritrovata invasa, praticamente da un giorno all’altro, da montagne di spazzatura non rimossa, rifiuti ingombranti, materassi abbandonati, risultato dell’inadeguatezza di sistemi di trattamento e smaltimento mai desiderati e mal predisposti. La lunga coda di questa vicenda si allunga fino ai giorni nostri, nonostante il recente passaggio di consegne dall’amministrazione Marino (PD) alla sindacatura Raggi (M5S).

La questione di fondo, per come ci viene descritta, consiste nella insufficiente capacità di carico degli impianti di trattamento, che non sono in grado di accogliere la quantità di materiali definite da contratto. Questo comporta lunghe code delle macchine compattatrici in attesa dello svuotamento, con abbassamento delle frequenze di raccolta ed accumulo di spazzatura in prossimità dei cassonetti ormai saturi, tale da richiedere un intervento manuale degli operatori, aumenti dei costi, e ‘dulcis in fundo’ con disponibilità del personale addetto sottodimensionata rispetto all’emergenza.

2016-07-24 11.09.33(cumuli di rifiuti fotografati ieri mattina,
domenica, in Piazza dei Tribuni al Tuscolano)

Se questa situazione sia il risultato di un’incapacità nella gestione manageriale della municipalizzata AMA o, come ritengono alcuni, un piano scientemente architettato per tenere in scacco le amministrazioni, è attualmente impossibile stabilirlo. Nel frattempo i disagi per i cittadini crescono, anche a causa del caldo estivo.

I cassonetti dell’umido traboccano, producendo esalazioni pestilenziali che si diffondono agli edifici in prossimità. Il rallentamento dei cicli di prelievo produce un’intensificazione dell’attività notturna, con incremento dei costi (straordinari per gli operatori) e rumori molesti che turbano i sonni dei residenti, non di rado obbligati dal caldo a dormire con le finestre aperte. L’accumulo di rifiuti organici rappresenta inoltre una enorme opportunità per ratti, scarafaggi ed altri parassiti che festeggiano a modo loro l’inattesa abbondanza di cibo.

Rats(ratti fotografati nel quartiere Cinecittà Est
in prossimità di una scuola elementare)

L’elenco dei disagi non si esaurisce qui, perché il dissesto parte da lontano. Un altro pezzo del problema riguarda l’affaire Mafia Capitale. Per favorire le cooperative di Buzzi e Carminati molti dei servizi un tempo effettuati dalle municipalizzate sono stati nel tempo esternalizzati. Con l’avvio del processo penale queste attività si sono immediatamente bloccate, creando una situazione insostenibile in cui la pulizia degli spazi pubblici non risulta più  in gestione ad alcun soggetto legalmente autorizzato.

A questo ennesimo sfascio i cittadini reagiscono come possono, per esempio rimboccandosi le maniche ed organizzando giornate di pulizia straordinaria in accordo con AMA: i volontari spazzano parchi e giardini accumulando i rifiuti in un punto prestabilito, mentre il ritiro viene effettuato dagli operatori  del servizio pubblico al termine dell’intervento.

2016-07-23 12.37.53(un gruppo di volontari M5S al termine della ripulitura del giardino di piazza dei Consoli, quartiere Tuscolano, effettuata sabato scorso) 

Al momento è difficile dire come e quando di questa situazione se ne verrà a capo, ma è già chiaro il danno economico e di qualità della vita che la collettività sta soffrendo, oltre al danno d’immagine per la città. I rifiuti non accolti dalle stazioni di smaltimento spesso prendono la strada degli inceneritori disponibili a bruciarli, anche fuori dall’Italia, con costi aggiuntivi di trasporto e trattamento. Inceneritori che si alimentano coi nostri rifiuti perché nei paesi dove sono stati costruiti il livello di riciclaggio e riuso dei rifiuti è ormai a tal punto efficiente da averli privati di materiale da bruciare.

Il processo di riassetto è avviato, ma è decisamente difficile azzardare una previsione sulle tempistiche, tali e tanti sono i malfunzionamenti di un sistema di gestione dei rifiuti solidi urbani che fin qui ha sostanzialmente nascosto la polvere sotto il tappeto, continuando a rimandare indefinitamente l’approntamento di soluzioni realmente efficaci.

2016-07-24 11.43.38‘Il riposo dello scooterone abbandonato’ – Tuscolano – 24/07/16

Brexit poll. & Balls.

1973Ok, ci siamo, il grande giorno in cui sapremo se il Regno Unito resta in Europa è arrivato. OVVIAMENTE, ormai da settimane, siamo subissati di sondaggi, i media battono sulla grancassa della disgregazione etc etc. La verità è che, causa errore e varianza nelle stime i sondaggi sono troppo inattendibili per poter dare indicazioni in un senso o nell’altro. Dovessi dire, L’Inghilterra resterà in Europa. Per modo di dire, ovviamente. L’Inghilterra, UKIP a parte, resta in Europa per far cassa e cedere il meno possibile agli altri. Mantiene la sua moneta e firma i trattati internazionali che gli pare, in barba alle eventuali decisioni europee. Insomma: mantiene la sua indipendenza di giudizio, nel processo, ovviamente, consegnandosi agli istituti finanziari che ormai sono la parte dominante dell’economia del paese. Non è improbabile che la vignetta di questo post sia realistica: gli scozzesi non vorranno probabilmente restare sotto la corona inglese E BASTA, specialmente perché perderanno gli aiuti europei.

Ma questo, sinceramente, è un problema loro. Perché in realtà l’Europa è GIA’ disgregata ma non, come si crede, tra paesi ricchi e poveri, tra nordici e sudici, tra belli di mamma e PIIGS. No, l’Europa è semplicemente divisa tra l’Elite e tutti gli altri.  Questa elite, ormai quasi solo finanziaria, disperata ed alla caccia di interi paesi da cannibalizzare per tenere su baracca ancora per un poco, è anch’essa alla frutta. I Debiti aumentano in modo verticale, quelli in sofferenza in modo missilistico e i rendimenti DI TUTTO tende a zero.  Noterete che non cito casi particolari. Il motivo è semplice. La storia, a vari livelli e con mille sfumature di grigio, si ripete da tutte le parti: la sovraesposizione debitoria è globale e il crollo verticale di ogni singolo investimento idem.

In questo contesto paventare una disgregazione dell’Europa a causa dell’eventualissima Brexit dell’Inghilterra è una balla ridicola. Come, più o meno, dare la colpa della fine dell’Impero Romano D’Occidente ad Odoacre. I mercati vedono più che altro la potenzialità di fare un bel poco di scommesse sulla pelle degli inglesi, illusi che i lacciuoli che li strangolano siano colpa della CEE e non del loro superdisastrato settore finanziario.

Quindi, si, l’eventuale Brexit è probabile che segni la fine di una manfrina teatrale chiamata Europa. Ma non è poi COSI’ probabile, a pensarci bene. Forse tale manfrina getterà semplicemente i panni della commedia democratica per rivestire le grisaglie dei finanzieri che realmente comandano a tutto e tutti, saturando di dossier di origine oscura i tavoli dei parlamentari europei.

NESSUNO, ma veramente NESSUNO sa cosa succederà. Quindi TUTTI quelli che provano a tracciare scenari raccontano balle sesquipedali. E lasciamo perdere quelli che tentano di fare il riassuntino per i porelli senza clues.

E NOI Italici?

Semplicissimissimo.

Qualche pediluvio, come prima.

Qualche doccia quasi di sicuro, ma, in caso, in buona compagnia di tutti gli altri. Poi nel 2018… Apres Draghi le diluge.

La cause della corruzione

La corruzione ha certamente molto a che fare con l’ingloriosa fine delle società.  La corruzione é un fenomeno che alimenta se stesso riducendo l’efficienza dell’amministrazione, cosa che favorisce la corruzione e via di seguito, come ben illustrato in un recente post da Pierfranceschi.

Come sempre quando si ha a che fare con dei fenomeni complessi, la domanda se è nato prima l’uovo oppure la gallina rischia di non avere senso.  Tuttavia, ci sono degli elementi che più di altri possono dare l’avvio a siffatti circoli viziosi (alias retroazioni positive e forzanti in termini scientifici).

Le diverse dimensioni della corruzione.

La corruzione in senso stretto è la classica “bustarella”, ma ne esistono altre forme, meno violente, ma anche molto più diffuse.

Intanto abbiamo spesso il caso di funzionari ed impiegati che fanno, o non fanno, determinate cose non in cambio di soldi sonanti, ma per procacciarsi utili benevolenze.   Ad esempio, il dirigente che insabbia una pratica non gradita ad uno che può influenzare la sua carriera, o viceversa.

Un’altra forma molto diffusa è favorire amici e parenti, variante chiamata “nepotismo”.   Ma in effetti questa forma non sempre è nefasta.  E’ infatti abbastanza naturale preferire di lavorare con chi si conosce e si sa come lavora.    Mettiamoci poi nei panni di qualcuno che, per esempio, ha lavorato per anni a gratis con tale professore e poi, quando finalmente si libera un posto, gli passa davanti un altro che, semplicemente, ha avuto un colpo di fortuna al concorso.
Il problema si pone quindi soprattutto quando questa radicata abitudine viene gestita per piazzare degli incapaci in posti di responsabilità.   Semplicemente perché fanno comodo a chi comanda più di loro.    Diciamo che è un’arma a doppio taglio i cui effetti dipendono da come la si adopera.

Ma la forma di corruzione più diffusa e nefasta e quella che è anche perfettamente legale e che, con termine tecnico, è chiamata “paraculismo”.   Vale a dire, usare il potere conferito dal proprio incarico non per far funzionare qualcosa, bensì per tenere bene al calduccio le natiche del soggetto.   Come se lo stipendio fosse qualcosa di dovuto e non qualcosa che deve essere guadagnato.    E’ particolarmente nefasta perché generalizzata, ma anche perché costituisce la matrice in cui facilmente si sviluppano forme più perverse di corruzione.

Prima di tutto una questione di legittimità

In una società funzionale, la classe dirigente comanda perché un vasto numero di persone si riconoscono in dovere di ubbidirgli.   È quello che si chiama legittimità.   Può avere fondamento in un’infinità di narrative diverse, ma alla fine funziona finché la gente pensa che i loro capi abbiano a cuore l’interesse comune.   Che magari sacrifichino i loro gregari, ma non per disinteresse, ma perché è necessario per un bene ancor superiore.

Si vede bene in condizioni di stress estremo, come in combattimento.   I soldati si fidano dei loro ufficiali fino a farsi uccidere.   Ma se pensano che i loro superiori si disinteressino di loro e del loro sacrificio, cessano immediatamente di fidarsene e di ubbidire.   Smettono di pensare a combattere e cominciano a pensare a cavarsela.   Se possono disertano.   Non a caso, la prima cosa che si insegna ad un ufficiale è come guadagnare e mantenere la fiducia della truppa.   Cose semplici, ma essenziali come preoccuparsi delle loro necessità spicciole più che delle proprie e dimostrare di essere disposti a correre rischi superiori a quelli richiesti.    Non a caso, in ogni guerra, la mortalità degli ufficiali è percentualmente più alta di quella dei soldati.
Nella vita civile tutto è più mitigato ed ovattato, ma fondamentalmente funziona allo stesso modo.   Un impiegato che si sente apprezzato dal suo dirigente non esita a fare straordinari non pagati, pur di portare a buon fine un progetto importante.   Lo stesso individuo, se pensa che il principale tiri l’acqua a l suo mulino e basta, farà tutto il possibile per imboscarsi, dimenticando che il suo stipendio non lo paga il dirigente, bensì il contribuente.

E il fenomeno che una volta si definiva con l’adagio:  “Il pesce puzza dalla testa”.

Si badi bene che non è affatto detto che una classe dirigente altamente legittimata faccia davvero il bene della sua gente.   Semplicemente, la legittimità conferisce efficienza operativa.   Si pensi alla Germania nazista, per farsi un’idea degli effetti perversi che la legittimità può avere.
Comunque, l’egoismo e/o l’incapacità cronica erodono la legittimità.   In questo caso rimangono in piedi due opzioni per mantenere in moto la macchina pubblica: il tornaconto personale e la paura.    Le due cose possono anche in parte coesistere, ma di solito il primo prevale nelle prime fasi di disintegrazione di una società; la seconda nelle ultime.   Il difetto è che entrambe aumentano i costi e riducono l’efficienza.

Nel caso del tornaconto personale, è infatti necessario  che ogni funzionario od impiegato trovi il proprio vantaggio ad ogni passaggio.   Non necessariamente una bustarella od un buon posto.   Magari solo una seccatura in meno o fregare qualche minuto sull’orario che, moltiplicato per decine di migliaia di persone, rendono il meccanismo sempre più impastato.   Né nuove regole e controlli possono risolvere la situazione, se coloro che le dovranno applicare saranno ancora guidati dall’interesse personale, anziché de quello collettivo.    Direi che noi oggi siamo un fulgido esempio in questo campo.

La paura comporta la messa in opera di sistemi di controllo e repressione che a loro volta dovranno essere controllati e così via.   Il modo con cui si sono avvitati su sé stessi i regimi del “socialismo reale” è abbastanza emblematico da questo punto di vista.

Anche noi abbiamo perso la guerra fredda?

La corruzione (in senso lato) c’è sempre stata in tutte le società, ma non nella stessa misura.   In Europa, ha avuto un forte impulso a partire dagli anni ‘90.    Le forzanti che hanno contribuito ad accelerare il fenomeno sono parecchie.   A me ne vengono in mente due: la scomparsa di un pericolo comune e la scomparsa di un limite preciso fra affare e malaffare.

Il primo punto è raramente citato, ma fondamentale.   Se temere la propria classe dirigente di solito ha un effetto deprimente sulle società (con buona pace di Machiavelli), è però vero che la paura di un nemico esterno ha di solito l’effetto contrario.    Una minaccia esterna ha di solito il potere di aggregare la gente e di far passare il bene comune (reale o presunto che sia) davanti al proprio.   Non a caso i governi in difficoltà spesso virano verso un nazionalismo tanto più esacerbato, quanto maggiore è il loro bisogno di rinverdire la propria legittimità.   Talvolta non si esita neppure a creare degli incidenti ad hoc più o meno gravi.   Più spesso si sfruttano le occasioni offerte dall’imbecillità altrui, come attacchi terroristici, incidenti diplomatici ed altro.    Naturalmente, la cosa può funzionare o meno, ma il principio resta valido.
Per  40 anni l’unico pericolo che la maggioranza degli occidentali ha temuto è stata l’Unione Sovietica.   Pericolo reale e consistente che la propaganda ha poi saputo gestire molto bene.   Ma soprattutto un pericolo in grado di imporre dei limiti perfino all’avidità ed all’egoismo della classe dirigente economica.   Del resto, oltre cortina, il pericolo di un’invasione della NATO era parimenti il collante che contribuiva a tenere insieme una società sempre più disfunzionale, sia pure con uno stile diverso.   Quando è venuto meno, neppure la Stasi ed il KGB sono più bastate ad evitare la disintegrazione dell’impero.

Cessato il pericolo, il sistema sovietico si è infatti disintegrato e per una decina di anni la nicchia ecologica lasciata libera dallo stato è sta riempita da una miriade di organizzazioni mafiose o semi-mafiose.   Perlopiù nate da pezzi della macchina sovietica che si sono messi a lavorare in proprio.   E, privi oramai di ogni remora, hanno perlopiù trovato utile svendere l’eredità sovietica a imprenditori e faccendieri occidentali che non hanno esitato a fare man bassa.    Al di là dell’errore geo-strategico irreparabile, questo ha creato una contiguità assoluta fra affaristi delle due ex-sponde, finalmente affratellati dalla possibilità di saccheggiare impunemente intere nazioni.
Una situazione cui si è potuto mettere solo un parziale e tardivo rimedio e che, fra le altre conseguenze, ha contribuito non poco a rendere molto evanescente la linea di demarcazione tra affari leciti ed illeciti.   Tanto ad est, quanto ad ovest.

Il cane e le zecche.

Un cane in buona salute che vive in campagna ha sempre qualche pulce e di tanto in tanto una zecca.   Gli danno fastidio, ma non più di questo.   Ma se un cane si ammala, facilmente verrà attaccato dai parassiti in modo tanto più massiccio, quanto più grave è la sua malattia.   Ed il gran numero di succhiasangue lo debiliteranno, così da farlo aggravare, fino a morire.   In altre parole, come ogni buon contadino sa, i parassiti hanno una funzione ecologica precisa: finire i soggetti debilitati.    Togliere i pidocchi ad una pianta o le zecche ad un cane gli fa certo bene, ma se non lo si guarisce dalla sua malattia profonda, torneranno e lo finiranno.

Qualcosa del genere , credo, succeda alle società umane.

La verità al tempo della Crisi: il caso di Firenze

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ANSA

Stamattina verso le 6 e 15, a circa 100 metri dal Ponte Vecchio, la rottura di una condotta dell’acquedotto da 700 mm ha sbriciolato 300 metri di lungarno, facendo collassare le macchine parcheggiate in una voragine profonda 3 o 4 metri. Che la responsabilità non fosse della sfiga cosmica ma umana, mi è parso SUBITO ovvio. Intanto perché una condotta di queste dimensioni, che approvvigiona metà della città non dovrebbe essere MAI soggetta a rottura. La pressione pare fosse di 6 bar, una pressione spaventosa, in grado di sbriciolare le fondazioni di un palazzo e non solo il lungarno. Caso ha voluto che, almeno finora, i palazzi vicini non siano stati coinvolti, grazie alla larghezza del lungarno in quella zona. Fosse successo cento metri piu’ avanti avremmo avuto crolli, morti a decine e, forse il ponte vecchio lesionato gravemente. OVVIAMENTE, a sentire il nostro sindaco a caldo, gli interventi sono stati immediati e tempestivi, lui stesso si è attivato in pochi minuti etc etc.

Nelle parole del comunicato ufficiale del pd cittadino: “L’emergenza è stata gestita nel miglior modo possibile. I soccorsi sono stati immediati, il sindaco Nardella era presente sul posto già dai primi minuti successivi all’evento per verificare i danni. Il cedimento del Lungarno Torrigiani è stato un evento improvviso, causato probabilmente da un errore umano”.

L’errore umano non si discute. Il punto è che CON CERTEZZA non è stato un evento improvviso. ANZI: per almeno SEI ORE ( da circa mezzanotte alle 6 e 15, ora dei primi interventi) nessuno è riuscito a limitare i danni ed evitare il disastro.

Le prove di quanto affermo?

Provvisorie ma credibili:

intanto questo filmato, apparentemente girato subito dopo mezzanotte, dove si vede che la perdita era già spaventosa ed assolutamente in grado di causare il disastro successivo, lasciata senza controllo per sei ore.

Se non bastasse ci sono testimonianze degli abitanti delle case limitrofe, tornati a tarda sera a casa come ad esempio questa

“Già stanotte c’era acqua in strada. Mio figlio è tornato verso mezzanotte e si è dovuto togliere le scarpe: l’acqua, mi ha riferito, gli arrivava sopra le caviglie. Ha chiamato i vigili ma noi non abbiamo poi visto nessuno”

Poi, certo (Update mentre scrivo) è venuto fuori che in realtà un intervento notturno c’era stato:

“Publiacqua specifica di aver registrato a mezzanotte e mezzo “un calo di pressione grazie ad un meccanismo di monitoraggio telemetrico, che interessava il tubo passante: le squadre di Publiacqua sono intervenute subito dopo la rilevazione. Nello stesso momento cittadini hanno informato sulla fuoriuscita di acqua il 113, che ha avvertito le altre forze dell’ordine: da stanotte erano già sul posto e infatti la strada è stata chiusa subito. Dopo l’intervento dei tecnici non i calo di pressione è rientrato. Successivamente non si è registrata alcuna anomalia fino alle 6.15, quando è scattato un secondo allarme con conseguente nuovo intervento delle squadre di Publiacqua”.

Quindi, intanto, Pubbliacqua ancora a mezzanotte e mezzo, ovvero oltre mezz’ora dopo le prime segnalazioni dei cittadini ( cfr il video postato di pochi minuti dopo mezzanotte e la testimonianza poco sopra) non aveva ricevuto nessuna segnalazione e l’intervento delle sue squadre si è svolto dalle 1 alle 3 e spiccioli I vigli monitorano la situazione ancora per una oretta, spostando una dozzina di auto. Poi il crollo. Nelle parole di Nardella:

“Al sistema di allerta di Publiacqua arriva la segnalazione di una diminuzione di pressione in un tubo che poi viene individuato in Lungarno Torrigiani non all’altezza della voragine, ma più vicino al Ponte Vecchio. Arrivano anche segnalazioni al 113 intorno all’una”. La squadra di Publiacqua arriva sul posto ( quindi certamente dopo l’una nda). Alle 3,20 l’intervento è terminato, il tratto di tubo passante su Lungarno Torrigiani che aveva una perdita viene bloccata. La squadra se ne va. “Da quel momento – riprende Nardella – a Publiacqua non risultano più alterazioni di pressione. Fino alle 5 resta sul posto la polizia municipale per spostare 12 auto a titolo precauzionale. Alle 6,15 torna l’allarme al sistema telemetrico di Publiacqua: e lì c’è la voragine”.

Pare evidente che:

L’intervento rispetto all’evento, cominciato intorno a mezzanotte, ovvero oltre un’ora prima, NON è stato tempestivo, ne risolutivo.

Nessuno si è accorto dello scavernamento formatosi dalla prima perdita, che in seguito ha provocato la seconda rottura che a sua volta ha determinato il collasso. Se vi fosse stata una seconda perdita nello stesso posto, in un’altra condotta, infatti, la pressione non sarebbe stata ripristinata. Il ripristino della pressione dell’acqua è una prova che in quel momento non c’erano perdite ma, con tutta evidenza vi erano le condizioni di un cedimento del terreno che provocasse la rottura del tubo.

in poche parole, quanto affermato nel primo comunicato del Pd cittdino NON ERA VERO.

Blablablabla, direte voi, dove vuoi andare a pare e che c’entrano queste cose con Crisis? Più di quanto sembri! Intanto danno una idea della ESTREMA fragilità sistemica del mondo in cui viviamo. Basta un tubo maltenuto  e metà città rimane senza acqua. Basta una tempesta di vento ed un albero caduto e rischiamo ( abbiamo rischiato l’estate scorsa) di restare senza acqua PER MESI.

Poiché le manutenzioni non creano consenso è chiaro che, con la politica che passa il convento ai tempi della crisi, ad esse è destinata una cifra insufficiente e spesso decrescente nel tempo. Invece le infrastrutture realizzate nei momenti del boom economico, ponti, strade, acquedotti, linee elettriche, centrali elettriche ed idroelettriche hanno un bisogno crescente di risorse crescenti.

E la verità che c’entra?

C’entra, eccome, perché il primo istintivo bisogno della forza politica di governo cittadina ( non credo che altre forze si sarebbero comportate diversamente, purtroppo) è stato quello di dichiarare, anche contro l’evidenza immediata dei fatti, che tutto andava bene, l’imprevisto era stato gestito prontamente etc etc. La clamorosa evidenza dei fatti ha imposto una brusca sterzata e la ricerca di un capro espiatorio che ovviamente sarà un dirigente TECNICO e non politico di publiacqua. Anche se, altrettanto ovviamente, la decisione di allocare le risorse in una società a capitale di maggioranza pubblico è una decisione non tecnica ma POLITICA.

Le responsabilità di quanto è successo sono quindi tatticamente tecniche ma strategicamente politiche e coinvolgono numerosi esponenti dell’attuale governo ( ed anche di quello precedente)

La verità è un optional in politica. Conta L’IMMAGINE e lo dimostrano in queste circostanze relativamente minori. Conta la rappresentazione della realtà, non la realtà.

Alla verità ci si deve rassegnare e solo se costretti.

Ed arrivo al nocciolo:

Se succede in circostanze gravi ma relativamente minori, dove è in gioco solo un poco di faccia, vi immaginate quando si tratta di affrontare rischi sistemici? Quando affrontarli significherebbe mettere in discussione l’intero assetto socioeconomico attuale?

Un vero rivoluzionario, un palestinese, disse, parecchio tempo fa, che la verità ci avrebbe reso liberi.

Dovremmo ricordarcene sempre ed implacabilmente, ogni singola volta che, di fronte ad un disastro, ad una guerra, ad un evento dichiarato imprevisto si afferma che ci si sta muovendo con decisione efficienza efficacia etc etc.

Ah si? e prima?

Un’ora, un giorno, mese, anno, decennio prima?

Che facevate PRIMA?

Dove eravate?

Verità, a priori, per quanto possibile. Onestà intellettuale ( nel caso sarebbe bastato un : non sappiamo come è andata per salvarsi la faccia) Non sono optionals o remoti ideali. Sono mattoni fondanti di qualunque politica che ci possa tirare fuori dal disastro collettivo verso cui, con sedicente efficienza efficacia e prontezza ci stanno portando. Anche senza rubare. Anche senza essere corrotti, concussi, cooptati subornati. ricattati. La prima onestà che manca è quella intellettuale.

Le altre, TUTTE le altre, sono solo conseguenze.

Riscaldamento globale: il punto, in tre grafici.

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10154176536012173&set=p.10154176536012173&type=3&theater
da un post di Marco su Fb

Per il 99,83% degli articoli peer reviewed ( ovvero che hanno subito un processo di verifica e controllo preliminare da parte di esperti qualificati nda) sul clima il riscaldamento globale è una realtà.

Lo 0.17% per cento lo nega.

Non esiste praticamente nessuna teoria o affermazione o fatto acclarato, in alcun settore scientifico, che riceva una percentuale di consensi così elevata.

Ricordatevelo, la prossima volta che vedrete, in un dibattito televisivo, un climatologo o altro sedicente esperto negazionista.

Estensione dei ghiacci artici, 18 Maggio 2016
Estensione dei ghiacci artici, 18 Maggio 2016

I ghiacci marini artici si stanno sciogliendo ad un ritmo mai visto. Siamo abbondantemente sotto i minimi di sempre e il 2016 si avvia a stracciare il record ( negativo) del 2012. Visto il post recente, non vi ripeterò che potremmo essere usciti definitivamente dalla fascia di oscillazione “naturale”, con il risultato che le previsioni, già negative dei climatologici potrebbero rivelarsi clamorosamente errate per difetto.

Credo basti questa immagine, tratta da quel post.

 

 

Attrattori strani e clima terreste

http://ugobardi.blogspot.it/2016/05/male-molto-male-niente-affatto-bene.html

Probabilmente avrete già visto qualche volta, le strane evoluzioni di un sistema proposto da Lorenz: i famosi “attrattori strani“.

in sostanza, pur  se, nella sua caoticità, il sistema non ritorna MAI esattamente nello stesso stato, si può comunque fare qualche previsione: il sistema si evolverà all’interno di un campo abbastanza definito, con oscillazioni casuali. Qui sotto un esempio dinamico.

Quel che pochi sanno è che questo sistema fu concepito da Lorenz proprio per indagare l’evoluzione dei sistemi meteorologici, in forma più maneggevole. In sostanza fu un tentativo di ridurre la complessità del clima ad un modellino MOLTO semplificato, che pure desse qualche indizio sul comportamento del mondo reale su cui detto sistema si fondava.

La faccenda diventa immediatamente complessa (anche se affascinante) quindi restiamone fuori. A me QUI interessa solo far presente una cosa: la temperatura media mensile mondiale sembra, per oltre cento anni, aver oscillato in modo apparentemente casuale all’interno di una banda abbastanza definita poi, prima timidamente e negli ultimi anni in modo esplosivo, ne è uscita, a quanto pare senza fare più ritorno. La traiettoria degli ultimi due anni è da brividi.

Come potrete vedere, il sistema giocattolo ha DUE attrattori e, oltre un certo punto il sistema trova un nuovo equilibrio intorno a una situazione COMPLETAMENTE diversa da quella precedente. Ovviamente un sistema complesso ha un comportamento complesso con molteplici punti di equilibrio.

Quanti? Quali? Dove? Nessuno, ad oggi, ha una risposta precisa.

Conclusione:

Forse siamo appena riusciti a scappare al controllo di un qualche attrattore strano. temo, però che non sia una buona notizia. Per niente.

Ringrazio Ugo per l’immagine di apertura.

Disco Inferno: gatti distratti ed il Canada arrosto

Si, si, si. Lo so. Che cavolo c’entra una hit disco degli anni’70, a parte il titolo suggestivo, con lo spaventoso incendio in atto in Canada, che ha già carbonizzato oltre 2000 km quadrati di territorio intorno a Fort MC Murray, Alberta, un’area grande come una intera provincia italiana, con danni ad infrastrutture e città che potrebbero essere i peggiori della storia?

Più di quanto sembri.

Partiamo,a sorpresa dal gatto.

Che, poveretto, NON è il responsabile della conflagrazione ma piuttosto il soggetto di una metafora.

Poniamo che un gatto, quando finalmente il suo padrone, tardo epigono dei mitici Trammps, alla ricerca di una birra, cessa di produrre orribili suoni, si avvicini al microfono, appoggiato ad una delle casse. Supponiamo che detto gatto, sia oscuramente consapevole che detto microfono sia la fonte di tutti i suoi mal di testa. Sapete come fanno i gatti, no? Seduti accanto all’oggetto a loro antipatico, cominciano a prenderlo a schiaffetti fino a farlo cadere. Il microfono, schiaffeggiato con particolare dedizione dal micio, cade ai piedi della cassa su cui era posato. il rumore della caduta, debitamente amplificato, viene restituito dalla cassa stessa, che ora è a circa 5 centimetri di distanza. Il frastuono prodotto dalla cassa viene anche esso debitamente trasformato in un segnale elettrico che, debitamente amplificato, viene restituito come un fragore di tuono insieme ad un fischio che scala in un urlo lancinante, che viene ancora colto ed amplificato… sapete come va a finire: o il padrone del microfono nonché coabitante del gatto interviene prontamente o il sistema risolve il problema da solo, friggendo una componente elettronica o distruggendo una delle casse, insieme alle orecchie di tutto il vicinato. Non del gatto, che è già ad almeno 50 metri di distanza. Questo fenomeno di “riverbero” che conosciamo tutti, è un esempio di una categoria molto ampia di risposte con retroazione: si chiamano “feedback positivi”.

Ecco: questo è quello che potrebbe succedere, se non sta già succedendo, in Canada. Una versione decisamente più catastrofica e macroscopica del famoso battito d’ali della farfalla.

Cantare e suonare hit anni ’70 in presenza di orecchie MOLTO sensibili ha conseguenze inaspettate e, alle volte catastrofiche.

Accendere un fuoco, gettare un tizzone, semplicemente provocare un corto circuito su una linea elettrica interrata, oppure un semplice fulmine, possono avere conseguenze fuoriscala, quando il suolo è molto ma molto più secco del normale, in questi umidi luoghi e la temperatura è  VENTIDUE GRADI oltre la media stagionale ( che sarebbe come se da noi, oggi, ci fossero 45 gradi). Il calore degli incendi, la fuliggine depositata, il metano rilasciato dal permafrost che si scioglie, sono tutti feedback positivi: aumentano l’assorbimento di calore, surriscaldando ancora di più il territorio.

anomalia termica alberta

Ovviamente questo a sua volta aumenta il rilascio di metano da parte del permafrost, che a sua volta… insomma: avrete capito: SE non interviene qualche fattore limitante esterno, si può destabilizzare l’intero equilibrio del nord del Canada con conseguenze epocali non in venti anni ma nel giro di una sola stagione. Oltretutto, l’abbiamo accennato, la copertura nevosa e l’estensione dei ghiacci marini è ai minimi assoluti e, anche senza eventi macroscopici di queste dimensioni, siamo avviati a battere i record ( negativi) del 2011. Anche qui abbiamo effetti di feedback positivo: l’acqua marina ha una albedo bassa, intorno al 10%, da confrontare con il 90% ed oltre del ghiaccio. Il mare artico privo di ghiacci si scalda, quindi, rapidamente e questo, al solito, porterà al rilascio di maggiori quantità di metano che a sua volta…Brutto vero?

Se vi chiedete dove si potrebbe arrivare vi posso dare un numero: nel cosiddetto massimo termico Paleocene/eocene ( che qualche negazionista climatico usa come dimostrazione che la Terra è stata più calda di oggi e tutto è andato bene) al polo nord la temperatura media era di circa 13 gradi. Più o meno come a Milano, oggi.

Nota bene: i poli stavano ( piu’ o meno) dove stanno oggi. Insomma parliamo di territori che ANCHE A QUEI TEMPI erano all’estremo Nord. Domanda: che temperatura media c’era, alle nostre latitudini?

Non lo sappiamo di preciso ma siamo certi che fossero torride. Probabilmente le zone intorno all’equatore diventarono troppo calde per le specie animali più evolute.

La cosa interessante è che ora sappiamo che tale spaventoso aumento ( da 10 a 6 gradi!!) delle temperature medie è associato con un picco di rilascio di carbonio nell’atmosfera, sulla scala di circa 20.000 anni. Le ragioni di questo picco sono discusse ma una delle ipotesi deriva proprio da effetti di catastrofico feedback positivo Dovuti ad incendi estesi e ripetuti nelle foreste boreali ( ed australi, anche in Antartide si stava abbastanza bene) del periodo. Conseguente rilascio a catena di metano dal permafrost e dal mare etc etc.

Tutto questo è teoria.

Ma, ad esempio, cosa sta succedendo alla concentrazione di metano in queste zone?

Ecco la situazione il 3 Maggio, un paio di giorni dopo l’inizio degli incendi.

metano3maggio2016

Il puntino blu  a sinistra della macchiolina purpurea, dalle parti del canada occidentale ( aguzzate gli occhi) è Fort Murray. E’ evidente che i livelli di metano nei dintorni dell’incendio sono elevatissimi ( il magenta indica il fondoscala). Si tratterà di un incendio provocato dalle fughe di metano dal permafrost, come l’anno scorso in Siberia? Si tratterà, come più probabile, di un rilascio dovuto all’incendio stesso?

in ogni caso si tratta di un fenomeno di feedback positivo. Srà un’estate calda. MOLTO MOLTO calda, nelle zone artiche.

Ci consoleremo cantando a squarciagola (alla larga dal gatto):

Satisfaction came in a chain reaction – Do you hear?
I couldn’t get enough, so I had to self destruct,
The heat was on, rising to the top
Everybody’s goin’ strong
That is when my spark got hot

………….

ps: dedico la canzone a Marco, amico fraterno, che, giusto 38 anni fa, mi fece conoscere i trammps: oggi compie gli anni!!

Cronache dalla discarica

Dal blog di Luca Sofri prima, e da “Il Post” poco dopo, sono venuto a conoscenza di un disturbo mentale noto come disposofobia, o “accaparramento compulsivo“. La pagina di Wikipedia lo descrive così:

“Accaparramento compulsivo (…) è un disturbo mentale caratterizzato dal bisogno ossessivo di acquisire (senza utilizzare né buttare via) una notevole quantità di beni, anche se gli elementi sono inutili, pericolosi, o insalubri. L’accaparramento compulsivo provoca impedimenti e danni significativi ad attività essenziali quali muoversi, cucinare, fare le pulizie, lavarsi e dormire.”

Per comprendere meglio i termini del problema bisogna vedere le foto delle case di persone sofferenti di questa malattia. Queste sono quelle disponibili su Wikipedia.

 .

 

In pratica vi è un accumulo insensato di oggetti, del tutto indipendente da ogni eventuale futura utilità degli stessi, tale da pregiudicare la vivibilità degli ambienti domestici, oltre a rendere impossibile il mantenimento di adeguate condizioni igieniche. La prima cosa che mi sono domandato è se io stesso non soffra di qualche forma analoga, sebbene più lieve, di disturbo mentale.

Per tradizione familiare tendo a non buttare nulla che possa avere un eventuale futuro utilizzo, ma mi disfo volentieri delle cose palesemente inutili ed inutilizzabili. Quindi, “a spanne” direi di no, anche se temo di esserci andato vicino in passato. Non disponendo di cantine, soffitte o garage, per anni ho avuto una stanza di casa (…una sola, che affettuosamente chiamavo “la stanza degli orrori“) “temporaneamente” ingombra di oggetti, per lo più di uso sporadico, “appoggiati” in attesa di miglior sistemazione. Ora, grazie soprattutto ad Emanuela, il locale è stato ricondotto alla decenza e ad una piena fruibilità.

Ma, mi sono chiesto poi, compiendo un salto logico: cosa accade se è un’intera popolazione, un’intera cultura, ad essere malata di disposofobia? Semplice, tutti continuerebbero ad ammucchiare roba inutile dappertutto, riducendo e rendendo infruibili gli spazi vitali… il che, a ben pensarci, è esattamente quello che avviene da alcuni decenni nelle nostre città.

 

Automobili e motorini parcheggiati in ogni dove, marciapiedi risicati e spesso invasi da mezzi in sosta, strade intasate o inutilizzabili perché percorse da veicoli ad alta velocità, cartelloni pubblicitari onnipresenti, una confusione visiva senza precedenti e soprattutto spazi per la vita e la socialità impraticabili o inesistenti.

La nostra avidità di oggetti, la nostra ansia da accumulo, l’esigenza di avere una, due, tre automobili per nucleo familiare ha progressivamente ridotto le nostre strade, i nostri quartieri e le nostre stesse vite esattamente come le case dei malati di disposofobia: ingombre ed impraticabili, progressivamente e senza che la maggior parte di noi se ne rendesse conto.

Vi siete mai domandati cosa penserebbe dei nostri spazi urbani un abitante della Roma di un secolo fa? Rubo ad internet qualche foto per chiarire il concetto. Questa era Roma tra fine ‘800 e poco prima degli anni ’60 (i “favolosi anni ’60“…):

Piazza del Popolo Piazza del Popolo
Piazza Venezia
Via Prenestina (prima della costruzione della sopraelevata)
Via di Tor Sapienza (estrema periferia)

(n.b.: tutte le foto, e moltissime altre, sono visibili sul forum “SkyscraperCity”, all’interno di una discussione intitolata “Roma Sparita”)

Quella delle immagini seguenti, invece, è la Roma di oggi, e la situazione continua a peggiorare nonostante si sia raggiunta in pratica la totale saturazione degli spazi urbani. Sono foto prese dalla rete, ma basta farsi un giro su Google Street View per rendersi conto di quanto il problema sia diffuso.

Dintorni di via Tuscolana
Corso Trieste (dal Blog RomaCiclista)

Ma non è tutto, l’ansia di possedere si spinge ben oltre, le case stesse non ci bastano più, l’esigenza di metrature e cubature cresce a dismisura. Negli stessi spazi che in anni lontani ospitavano una famiglia numerosa ora i “single” si sentono stretti. Abbiamo bisogno di tanto spazio da riempire con i nostri troppi oggetti, e dopo che l’abbiamo riempito non ci basta più e ne vogliamo dell’altro.

Quindi, non paghi di ammucchiare ciarpame nelle città stiamo facendo la stessa cosa con le campagne. La terra coltivabile scompare sotto schiere di seconde case usate se va bene un mese l’anno e capannoni industriali spesso sfitti e già ora in numero sovrabbondante rispetto al necessario, con la prospettiva di una de-industrializzazione a breve conseguente all’esaurirsi progressivo di combustibili fossili e materie prime.

Il responso clinico è semplice quanto inevitabile: disposofobia collettiva. Quella che pare improbabile è la possibilità di una terapia. Servirebbe un team di psicologi a disposizione di ciascuno di noi per avere qualche speranza di guarire… o forse “solo una catastrofe ci salverà”. Auguri!

(anche questo è un post ripescato dal mio blog Mammifero Bipede, e si collega idealmente a Il plusvalore del caos urbano, dove invece si analizzano gli interessi economici che ci hanno spinto in questa direzione)