Io e il nucleare (ricordando Chernobyl)

(quella che segue è la storia lunga e personale di come il sogno nucleare partorito dagli anni ’50 si sia dapprima intrecciato alla mia vita, quindi lentamente trasformato in un incubo… ho cercato di evitare il solito post tutto dati ed informazioni, chi desideri approfondimenti li troverà nei link inseriti nel testo)

All’inizio degli anni ’70 ero uno spigliato, precoce e solitario bimbetto. Avevo iniziato a leggere intorno ai tre anni e non mi ci era voluto molto per bruciare le tappe fumettistiche più classiche. Al mondo Disney (Topolino) era seguita la fase western (Tex) e a sette anni (!) ero ormai pronto a catapultarmi nello sfolgorante mondo dei supereroi (Superman, L’Uomo Ragno ed innumerevoli altri).

In questi mondi di fantasia accadeva che dei tizi a caso venissero investiti dagli effetti delle radiazioni, e che queste radiazioni producessero abilità strabilianti: super forza, la capacità di volare, di camminare sui muri, invisibilità e molto altro ancora. “Queste radiazioni devono essere la cosa più figa dell’Universo!” pensò quel me stesso infante. Fu così che crescendo decisi di capirne di più.

L’arco didattico della scuola dell’obbligo non mi aiutò molto, in compenso a quattordici anni ero già un accanito lettore di narrativa fantascientifica, da cui traevo nozioni confuse e difficilmente verificabili. Nel tempo che Mondadori impiegava a mandare in edicola un nuovo volumetto di Urania io ne avevo già divorati quattro o cinque, spazzolati sulle bancarelle dei mercatini dell’usato. Il mio sogno era di fare lo scienziato, ma prudenza ed indicazioni familiari mi fecero optare per una scuola tecnica (che comunque non mi precludeva l’iscrizione all’università).

Fu credo intorno al primo anno di Istituto Tecnico che nella biblioteca dell’ITIS Galileo Galilei trovai un libro intitolato “Fisica delle particelle”, testo che cominciò a dare concretezza a materie che avevo fin lì approcciato solo sotto forma di narrativa ‘pulp’.
(ne trovai anche un altro della stessa collana: “Dalla Terra alla Luna” di Paolo Maffei, che avviò il mio percorso di astronomo dilettante, ma questa è un’altra storia…)
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“La Fisica delle Particelle” mi chiarì quello che volevo veramente diventar: non un generico ‘scienziato’, bensì un fisico. E quale opportunità migliore per approcciare la facoltà di Fisica che non il percorso di studi in ‘Energia Nucleare’? Finito il biennio a Roma mi iscrissi per la specializzazione all’ITIS E. Fermi di Frascati (patria del vino e casa del Sincrotrone italiano).

Il percorso di studio sostituì all’iniziale entusiasmo una sobria diffidenza. Compresi una volta per tutte che le radiazioni non danno i superpoteri, ma hanno invece tutta una serie di ricadute non esattamente positive che vanno dall’avvelenamento da radiazioni al cancro nelle sue varie forme. Scoprii che al personale delle centrali viene fornito un ‘dosimetro’ per misurare la quantità di radiazioni assorbite in modo che non ecceda i limiti di legge (limiti comunque arbitrari). Anche l’incidente alla centrale americana di Three Mile Island contribuì a gettare un’ombra lugubre sull’intera faccenda.

Nell’estate dell’83 mi diplomavo col pigro voto di 51/60, fermamente convinto a non cercare impiego in una centrale nucleare. Mi iscrissi a Fisica, dove tuttavia entrai ben presto in rotta di collisione con la trattazione formale. Nel frattempo la mia sfera d’interessi si era ampliata, e la fisica cominciava a starmi stretta. Passai un paio d’anni inconcludenti all’università dove la cosa che imparai meglio fu il freesbee, quindi nel dicembre dell’85 partii per il servizio di leva, all’epoca obbligatoria.

Il disastro di Chernobyl nella primavera dell’86 mi colse ‘in pieno’. Non solo ero stato spedito nella regione italiana che subì il peggior fallout della nube radioattiva (il Veneto), ma in quei giorni il Comando Brigata ebbe la brillante idea di organizzare un campo di addestramento NATO nel bel mezzo dei boschi friulani. Passai una settimana di full-immersion nella natura ad inalare cesio 137.
(potete trovare un’efficace e sintetica ricostruzione dell’incidente sul blog di ASPO-Italia)

Fu così che, quando un anno dopo venne indetto il referendum per l’uscita dell’Italia dal piano energetico nucleare votai convintamente per chiudere il discorso. Consideravo ormai il nucleare una tecnologia che a fronte di modesti vantaggi (produzione di elettricità a prezzi concorrenziali) esponeva la collettività a rischi enormi. Tuttavia continuai negli anni a documentarmi, integrando in parte la formazione scolastica con tutta una serie di nozioni che all’epoca il piano di studi non prevedeva mi fossero fornite.

In primis la questione delle scorie. Negli anni ’80 il problema delle scorie poteva dirsi ‘non ancora’ risolto. Quarant’anni dopo posso serenamente affermare che il problema dello stoccaggio delle scorie ‘non è risolvibile’, almeno all’interno delle forzanti economiche del libero mercato. Lo smaltimento finale delle scorie non è di per sé impossibile, è semplicemente troppo costoso ed incerto sulla scala di tempi geologica dettata dai tempi di dimezzamento degli isotopi. Costoso al punto da rendere già in partenza scarsamente profittevole l’energia prodotta.

Il discorso scorie porta con sé una questione che negli anni scolastici non fu mai affrontata, ovvero il fatto che, oltre al carburante nucleare esausto, a fine vita della centrale l’intero edificio è ormai radioattivo. In qualche caso talmente radioattivo da non consentire i margini di sicurezza per il lavoro degli operatori. Gli edifici diventano così ‘scorie nucleari a bassa intensità’. Da smaltire. Non si sa come.
(sempre su ASPO-Italia un’analisi dei costi correlati al ‘decommissioning’, per quelli che amano formule e numeri)

Ci si potrebbe a questo punto domandare il perché dell’avventura nucleare. Una delle tesi più attendibili, in base alle informazioni che sono riuscito a mettere insieme, è quella dell’impiego bellico dei sottoprodotti del nucleare civile. In sostanza la produzione energetica in sé sarebbe un ‘mascheramento’ del reale interesse, consistente nella produzione di plutonio per le testate atomiche, un materiale non più presente in natura perché interamente decaduto. Questa tesi è riemersa recentemente nel dibattito sul piano nucleare iraniano (un paese produttore di petrolio che non ha realmente bisogno di produrre energia da fonti nucleari). Non avendo l’Italia un proprio piano di armamenti nucleari è stato relativamente facile per noi fare a meno anche del nucleare civile.

Un’altra interpretazione chiama in causa il cosiddetto ‘capitalismo di rapina’, che consiste nello sfruttamento terminale delle risorse lasciando i danni in eredità ai posteri. È un sistema ben spiegato dal solito Jared Diamond (in “Collasso”) relativamente alle miniere aurifere del Montana. In teoria la legislazione prevede che le imprese minerarie si facciano carico della riconversione ecologica del sito al termine del lavoro estrattivo (spesso effettuato con prodotti chimici velenosi). In pratica le imprese dichiarano fallimento quando la vena non è più redditizia, senza aver provveduto ad alcun lavoro di riparazione.

Cosa resta, ad oggi, del ‘sogno atomico’? Poco o nulla. L’incidente di Fukushima in Giappone ha spazzato via gli ultimi onesti entusiasti, lasciando a difendere questa tecnologia dannosa ed obsoleta solo più i ‘portatori di interessi’. La rete ci ha poi portato in casa i video girati nei distretti abbandonati, scene di desolazione che nessuno vorrebbe filmare a casa propria. Non esiste un’altra modalità di produzione energetica in grado di causare disastri tanto estesi.

Il problema di fondo è che le radiazioni sono invisibili. Non abbiamo sensi in grado di individuarle semplicemente perché la vita non ha dovuto averci a che fare. Nell’arco dei tempi geologici gli elementi instabili presenti nella crosta terrestre all’epoca della sua formazione hanno avuto tutto il tempo di decadere e perdere la propria radioattività prima che gli esseri viventi reclamassero il pianeta. Esiste ugualmente un fondo di radiazione naturale, ma è estremamente basso.

Quello che ha fatto l’umanità, dagli anni ’50 ad oggi, è stato recuperare il poco materiale fissile diluito negli strati geologici, concentrarlo, farlo reagire per produrre altro materiale radioattivo irradiando atomi stabili, concentrare e moltiplicare la presenza di sostanze rare che in molti modi nuocciono ai processi vitali. Il tutto per produrre armi di distruzione di massa ed una minima frazione percentuale dell’elettricità che circola nelle nostre case.

L’apoteosi di questo sogno prometeico sono i reattori cosiddetti ‘autofertilizzanti’, nei quali uno dei sottoprodotti del processo è ulteriore materiale fissile, ottenuto esponendo isotopi non fissili agli intensi flussi di neutroni prodotti dalle reazioni nucleari. Anche in questo caso la pratica è apparsa differire molto dalla teoria: l’unico impianto di produzione autofertilizzante in Europa, il francese Superphenix, è stato chiuso nel 1997 a causa di una serie di incidenti minori con rilasci radioattivi nell’ambiente.

Da ultimo la fusione nucleare, tecnologia inseguita per decenni che, a detta dei suoi esegeti, avrebbe dovuto produrre energia illimitata e pulita per mezzo di un processo che non dovrebbe produrre isotopi pesanti. A cinquant’anni dai primi esperimenti gli esperimenti sui reattori a fusione continuano ad ingoiare fondi per la ricerca e a non raggiungere neppure il pareggio energetico (il punto nel quale la quantità di energia generata è pari a quella assorbita dal macchinario). Le analisi più recenti descrivono problemi di instabilità del fenomeno apparentemente non risolvibili che crescono di scala all’aumentare del dimensionamento dell’impianto.

In realtà disponiamo già di un reattore a fusione nucleare in grado di fornire enormi quantità di energia con estrema continuità, oltretutto collocato in una posizione dalla quale non rischiamo contaminazioni o rischi di processi esplosivi. È il Sole. Irradia energia da circa quattro miliardi di anni, è stato il motore primo della vita sul nostro pianeta e ad oggi abbiamo le tecnologie per trasformare tutta quest’energia che ci piove addosso ogni giorno in forme utilizzabili per le nostre esigenze: i pannelli fotovoltaici. Tecnologie semplici, economiche, non inquinanti, che hanno un solo grave difetto: non sono in grado di concentrare potere e ricchezza in poche mani. Se fossimo una specie realmente intelligente lo percepiremmo come un innegabile vantaggio.