Non abbiamo Perso!

Pubblico una risposta di Luca Pardi, presidente di  Aspo italia  al post di Jacopo sul risultato del referendum.

Abbiamo sbagliato, ma non abbiamo perso.

Il mio amico Jacopo Simonetta è uno di quei pessimisti che, vista la luce in fondo al tunnel la vanno a spengere (la battuta è di Lercio.it e so che lui l’ha apprezzata). Nel suo commento dopo il referendum sulle trivelle ne dice molte giuste, ma legge tutto in chiave negativa. Non è solo. Altri, dopo la sconfitta, si sono incaricati di criticare le scelte sbagliate del movimento ambientalista in questa campagna elettorale e spesso hanno etichettato questo evento politico come l’ennesima sconfitta dell’ecologismo politico. Non sono d’accordo. Ma partiamo dall’inizio e, quindi, dall’istituto del referendum abrogativo. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta, la sua esistenza non è, come è stato detto, “la prova che la democrazia non funziona”, ma un modo in cui si consente ai cittadini di modificare le scelte legislative del parlamento. È in costituzione ed è uno strumento utile quando i quesiti sono chiari e semplici, o comunque semplificabili come nel caso: abrogazione del divorzio: SI o NO? L’insieme dei referendum promossi dalle nove regioni costituivano un corpo di quesiti che, nell’insieme, poteva essere semplificato. Chi avesse votato a favore dell’abrogazione avrebbe fatto una scelta chiara sulla politica energetica nazionale. Il governo si è impegnato a disinnescare l’eventualità di un pronunciamento in questo senso e ha legiferato, accogliendo, almeno in parte, le finalità delle regioni. Dunque già su questo punto sconfitta non c’è stata. Ricordiamoci che a parte le poche decine di piattaforme su cui eravamo chiamati a pronunciarci il 17 aprile, non si potrà più trivellare entro le 12 miglia.

L’errore principale del fronte del SI, che poi coincideva all’80% con il fronte della partecipazione al voto, è stato quello di dare troppa importanza al referendum e attaccarsi agli argomenti meno solidi.  Ci sono argomenti, in campo energetico, sui quali gli “ottimisti razionali” hanno un vantaggio. Sono argomenti marginali come quelli economici (si per me, di fronte alla catastrofe ecologica in atto i temi economici sono marginali). È chiaro che è più facile attrarre consenso parlando delle potenziali perdite occupazionali di attività industriali esistenti piuttosto che contrapporre potenziali vantaggi occupazionali di attività che sono percepite come futuribili. È facile contrapporre ai rischi potenziali o reali dell’inquinamento poco visibile, causato dalle attività estrattive, quello visibilissimo dei liquami in mare a Rimini e in altre località. È inoltre facile per i conformisti energetici solleticare il nazionalismo energetico dei macchinomani del fine settimana. Sappi che dovrai rinunciare alla gita al mare la domenica (quella che da quando c’è la crisi molti italiani fanno dalla mattina alla sera per risparmiare sul costo di pernottamento). Per ogni contestazione di questo tipo si possono trovare esperti autorevoli, professori di questa o quella università, tecnici valenti e scienziati pluridecorati che possono smentire qualsiasi dato.

Si doveva puntare su altro. Ci sono due argomenti che nessun “ottimista razionale” può confutare credibilmente senza venire a patti con la propria onesta intellettuale. Cioè senza mentire sapendo di mentire. E questi due argomenti sono: il cambiamento climatico e l’esaurimento delle fonti fossili di energia. Credo che chi legge sappia già tutto su questi argomenti. La forzante umana è la causa principale del cambiamento climatico, l’uso dei combustibili fossili è il motore di questa causa. Se a Parigi non abbiamo scherzato ogni paese deve varare rapidamente una politica di uscita dalle fonti fossili. E per uscire dalle fonti fossili senza passare per un collasso della nostra civiltà è necessario rinforzare di almeno due ordini di grandezza (un fattore 100) l’attuale infrastruttura basata sulle nuove fonti rinnovabili di energia. Si deve passare dalle centinaia di Giga Watt alle decine di Tera Watt (attualmente il metabolismo sociale ed economico umano è una macchina che consuma 17 Tera Watt) in un paio di decenni. Il programma deve essere chiaro e stringente e si deve sapere due cose, anche gli ambientalisti lo devono sapere: 1) non si può fare questo salto senza accettare il relativo impatto e 2) l’impresa deve essere fatta utilizzando le fonti energetiche esistenti, cioè quelle fossili. Ci sarebbe un terzo punto, politicamente più scabroso, questa transizione non può essere condotta esclusivamente con le regole (ammesso che ve ne siano) del mercato.

Questa affermazione mi scatenerà contro i fautori dell’arbitrio travestito da libertà economica, ma posso farmene una ragione. Il fatto è che nella transizione si dovranno privilegiare usi utili delle fonti fossili perché una quota prossima al 50% delle loro riserve note dovrà restare dov’è per non causare un aumento catastrofico della temperatura terrestre. L’altro argomento inconfutabile è il processo di esaurimento dei combustibili fossili stessi. Avremmo dovuto usare la campagna referendaria per chiarire al grande pubblico il fatto che la vulgata sul crollo del prezzo del petrolio come sinonimo di abbondanza e “morte della teorie del picco del petrolio” è una vera bufala. Il prezzo misura il flusso della materia prima sul mercato e non dice nulla sulla qualità e quantità della riserva. Dalla metà del primo decennio di questo secolo i costi estrattivi crescono costantemente ad un tasso che è dieci volte quello del decennio precedente (i dati vengono dall’IEA e dal FMI), le nuove categorie di petrolio portate sul mercato, che hanno garantito la tenuta del livello produttivo di liquidi combustibili, sono più problematiche da estrarre, più costose e anche più inquinanti.

L’urgenza della transizione energetica è tanto evidente a chi la vuol vedere quanto ineluttabile. Il fatto che questi temi siano rimasti marginali mostra l’immaturità dell’ecologismo che tende a baloccarsi con argomenti ormai superati e spesso tutti sul lato difensivo. Al contrario è arrivato il momento in cui l’ecologismo politico deve rivendicare il punto centrale che l’ecologia ha rispetto all’economia. Una campagna referendaria era un’occasione d’oro per parlare di queste cose al massimo numero di cittadini piuttosto che perdersi a confutare i numeri demenziali di Renzi sull’occupazione o le contraddizioni dei geologi petroliferi sulle trivelle.

Riconosciamo l’errore, ma non buttiamo via tutto correndo a spengere la luce in fondo al tunnel. Un terzo degli italiani comincia a capire, non siamo più l’1 per mille. Proprio perché questo quesito era marginale e difficile rispetto a quello del 2011, sull’acqua e il nucleare, nelle more del disastro di Fukushima, l’affluenza registrata è incoraggiante e significativo il fatto che l’unica regione petrolifera del paese, la Basilicata, ha superato il quorum. Si comincia a capire che da opzione vicente gli idrocarburi sono diventati un’opzione perdente. Per questo i sostenitori degli interessi legati al blocco di potere economico delle fonti fossili sono disperatamente scatenati. E pazienza se trovano il sostegno dei benpensanti che si sono autoproclamati ottimisti e razionali. Siamo sempre una minoranza? Forse. In questi casi mi piace ricorrere ad una citazione attribuita ad Amedeo Bordiga: “noi non siamo pochi, siamo quanti il momento storico richiede”. Tranquilli e “alla via così”, ma sapendo che ci sono argomenti su cui non ci possono dire nulla: clima ed esaurimento delle risorse. Non hanno scampo!

Catastrofe egiziana e cazzeggiare europeo

La visita di Hollande in Egitto.

Hollande e al sisiAlcuni giorni fa il presidente francese, François Hollande, si è recato in visita ufficiale in Egitto e, per l’occasione, sono stati firmati una serie di contratti.   La notizia ha sollevato un certo scandalo fasullo in Italia.   “Cattivi francesi che fanno affari profittando che l’Italia ha delle grane con l’Egitto per via di Regeni”.   Pietosa messinscena, dal momento che noi italiani non abbiamo esitato un attimo a consegnare due dei nostri soldati all’India.   Che neanche li processa e quindi li tiene (lo tiene, perché uno poi se l’è potuta svignare) in ostaggio a tempo indeterminato.   E questo per salvare un contratto da 12 elicotteri che poi (giustamente) è saltato lo stesso.

Dunque, sgombriamo il campo dalla nostra ipocrisia e concentriamoci su quella altrui, tanto per imparare qualcosa.

Durante i discorsi ufficiali, Hollande non ha resistito alla tentazione di fare il maestrino, ricordando al dittatore egiziano che “Il rispetto dei diritti umani è un punto di forza e non di debolezza”.    Al Sisi, gli ha risposto per le rime, dicendo che, evidentemente, gli europei non si rendono neanche conto di cosa succederebbe se esplodesse l’Egitto.

Al di là della schermaglia diplomatica, cosa ci insegna questo fatterello?

Hollande ha detto una cosa perfettamente vera.   Tanto più che per accollarsi le spese e gli obblighi di uno stato la gente ha diritto di avere qualcosa in cambio.   E, tanto per cominciare, da sempre questo qualcosa è l’essere difesi, nei limiti del possibile.
Ma Hollande non è quel presidente che tiene il suo paese in stato di emergenza da mesi e a tempo ancora indeterminato?   Che voleva far passare una riforma costituzionale che gli avrebbe attribuito poteri quasi dittatoriali e che sta mettendo in galera molti più ambientalisti e sindacalisti che Jihadisti?   Quando si dice da che pulpito la predica!

D’altro canto è vero che quella di Al Sisi è una dittatura militare a tutti gli effetti e che quel che è accaduto a Regeni è probabilmente abbastanza frequente che accada agli egiziani.   Anzi, più goffi si fanno i depistaggi degli egiziani, più aumenta il legittimo sospetto che dietro questo crimine ci sia implicato qualche personaggio importante del regime.

D’altronde ricordiamoci che l’alternativa alla dittatura militare è una dittatura islamista non più tenera di quella attuale e, per di più, ben disposta verso forme di “pulizia religiosa” anziché etnica.   Ne abbiamo visto l’assaggio durante la breve presidenza Morsi.

Ma c’è anche la possibilità di una ben peggiore catastrofe egiziana, che è quella a cui ha fatto esplicito riferimento il generale: la disintegrazione dello stato e la guerra civile.   Ed in questo Al Sisi ha detto una sacrosanta verità.
Se accadesse una cosa del genere, l’intero medio oriente salterebbe in aria come un petardo e la massa dei fuggiaschi verso l’Europa non sarebbe più di milioni di persone all’anno (come oggi) bensì di decine di milioni.   Ci troveremmo costretti a decidere molto in fretta se sparare a vista sui barconi e lungo le frontiere, o se essere letteralmente sommersi da una massa di disperati in fuga.

Dunque quello che ha detto Al Sisi è sostanzialmente questo: “Guarda amico che tu hai bisogno di me.   Se io mollo scoppia un casino che né tu, né nessuno dei tuoi amichetti sarebbe neanche lontanamente in grado di fronteggiare.”   Ed ha perfettamente ragione.

Questo ci insegna una prima cosa importante: chi non è capace di gestire i fatti propri li rimette ad altri, ma così affida ad altri la propria sicurezza, finanche la propria esistenza.   Nella fattispecie, si mette nelle mani di personaggi del tipo di Al Sisi e di Erdogan (o Gheddafi, di recente memoria).   Personaggi che non solo sono dei dittatori o degli aspiranti tali, ma che neppure esitano ad alzare il prezzo; non solo in euro, ma anche in sostegno politico e militare.

La catastrofe egiziana.

Quanto potrà durare questa situazione?   Probabilmente non molto.

catastrofe egiziana demografiaLa popolazione egiziana è passata da in 50 anni da 28 a oltre 90 milioni di persone, e continua a crescere ad un tasso superiore al 2%.   Il che significa raddoppio (180 milioni) nel giro di 30 anni.    Nel 2011, quando sono scoppiate le “primavere” erano 82 milioni, nel 2015 (quattro anni dopo) erano già 92!

Il 75% della popolazione ha meno di 25 anni, il che significa che, anche se la natalità crollasse bruscamente, la popolazione continuerebbe a crescere per almeno altri 50 anni (salvo catastrofi).   Inoltre, l’egiziano medio, malgrado sia poverissimo e spesso disoccupato, ha un’impronta ecologica che supera del 200% la disponibilità del paese.   Significa che per vivere come oggi, gli ci vorrebbero 4 paesi invece di uno.   E l’impronta ecologica è un indice notoriamente molto ottimista.

L’estrazione di petrolio ha “piccato” una quindicina di anni fa ed è in calo molto rapido, quindi le importazioni dovranno comunque aumentare molto rapidamente.   Il clima sta peggiorando e la produzione agricola cala, sostituita dalle importazioni, soprattutto dall’Ucraina, paese che qualche problema ce lo ha anche lui.

Il mare si sta mangiando il delta del Nilo, la cui portata sta diminuendo sia per ragioni climatiche, sia per il disboscamento a monte.   Ma soprattutto per le derivazioni d’acqua per irrigazione in Sudan, Sudan del sud ed Etiopia, tanto che già vi sono varie minacce di guerra pendenti.  Una per ogni diga in progetto.

Dunque la catastrofe si sarà con assoluta certezza.   Non possiamo sapere quando, ma sappiamo che fra non molto ci saranno decine di milioni di persone in fuga, con ottime ragioni per farlo.   Cosa pensiamo di fare?
Sostenere il governo, quale che sia e qualunque cosa faccia anche ai nostri cittadini, è un metodo per rimandare il disastro e guadagnare tempo.   Ma la catastrofe egiziana non potrà essere evitata, qualunque cosa facciamo.

Abbiamo una strategia qualunque o pensiamo di continuare a trastullarci fra ignavia ed ipocrisia?

Il plusvalore del caos urbano

Recentemente mi sono chiesto se ci fosse modo di quantificare l’eccesso di spesa per l’auto a Roma. L’idea di partenza è di provare a ragionare l’emergenza traffico dal punto di vista di chi ci guadagna. Nella città dove vivo, senza un motivo apparente, il numero di automobili pro-capite è molto più elevato rispetto a Londra, Parigi ed alle altre capitali europee.

Le cause che producono questa disparità sono tante e già discusse, quello che mi interessa capire ora è di che cifre stiamo parlando. In sostanza, dato che a Roma le deficienze del trasporto pubblico obbligano la popolazione a possedere più automobili, quanto vale questo ‘mercato aggiuntivo’ rappresentato dal surplus di auto che, se Roma fosse una città ben organizzata e funzionante, non avremmo bisogno di acquistare.

Navigando in rete in cerca di dati ho trovato un post del 2014 che propone le seguenti cifre: Roma: 930 veicoli ogni 1000 abitanti – Londra: 314 – Parigi (area metropolitana): 530. A spanne possiamo dire che le auto vendute a Roma sono, rispettivamente, il triplo di quelle vendute ai londinesi ed il doppio di quelle vendute ai parigini.

Il contesto urbano è importante perché è nelle città che i problemi di traffico obbligano ad un’efficiente rete di trasporto pubblico. Proprio grazie all’efficienza e ad una corretta gestione del trasporto pubblico nelle grandi città europee molte famiglie non sentono la necessità di possedere un’automobile.

In cifre assolute il dato è di 2.677.942 automobili nella sola provincia di Roma. Stando a questi numeri, se il trasporto pubblico romano fosse efficiente quanto quello parigino dovremmo conteggiare circa 1,3 milioni di autovetture in meno. Se fossimo ai livelli di Londra la cifra salirebbe a circa 1,8 milioni. Per trasformare queste cifre in soldoni occorre determinare l’incidenza annua del possesso di un’auto.

Quanto costa un’automobile? Quanto dura nel tempo? Alla prima domanda non è semplice rispondere, ma facendo una media tra utilitarie ed auto di lusso credo che si possa parlare di una cifra intorno ai 15.000€. La vita media di un’automobile è, parimenti, stimata in circa 10 anni. Il sito della Federconsumatori conferma quest’ordine di cifre valutando un ammortamento annuo di 1.500€ a veicolo.

Se moltiplichiamo i 1.500€ per gli 1,3 milioni di veicoli “in eccesso” rispetto a Parigi otteniamo una cifra molto prossima a 2 miliardi di euro. Il confronto con Londra porta tale cifra a 2 miliardi e 700 milioni. Tanto vale, ogni anno, per l’industria dell’auto, l’inefficienza del trasporto pubblico romano. Altrettanto, o poco meno, vale per il mercato delle assicurazioni. Il calcolo per il mercato dei combustibili è più complesso.

Sono cifre che, prese così, non hanno molto senso, tanto lontane risultano dalla nostra esperienza quotidiana. Proviamo a ragionarle in termini diversi. Prendiamo a confronto una casa. Quante case ci potremmo comprare con 2 miliardi di euro? Il costo medio di un appartamento a Roma è intorno ai 250.000€: la risposta è ottomila.

Considerando che in un appartamento vivono in media 2,5 persone tale cifra corrisponde ad una città di 20.000 abitanti. Il confronto con Londra porta questa cifra a 27.000, più o meno la popolazione di Assisi. Tanto vale l’inefficienza del trasporto pubblico a Roma per i soli fabbricanti di automobili: il valore immobiliare di una intera città come Assisi. Ogni anno. Altrettanto per il mercato assicurativo. Altrettanto (grossomodo) per il comparto petrolifero.

E torniamo quindi a quella famosa ‘deriva messicana’ già teorizzata: dove sta scritto che una società, una comunità, debba funzionare? Perché abbiamo questa idea che le città europee di base ‘funzionano’, e se c’è qualcosa che non va è solo una spiacevole casualità?

In questo caso la ‘casualità’ muove fiumi di denaro, e non ci vuole un genio per capire che una parte di questo denaro venga necessariamente reinvestito affinché tale utile ‘casualità’ continui a prodursi, è nella logica del mercato. E nel momento in cui la popolazione finisce con lo sposare questa logica, la generosità, la fantasia e l’onestà intellettuale di pochi ambientalisti non bastano più ad invertire la rotta.

carjam

Abbiamo perso; un’altra volta.

pandaCome da pronostico, un terzo scarso degli aventi diritto è andato a votare ed il referendum non è passato.   Sorpresi?   Quante volte abbiamo già visto questo film?   Non credo che nessuno fra quelli che si sono attivati per il “SI” credesse davvero di poter vincere.

Ora è la fase dei commenti e, tra chi brinda e chi si arrampica sugli specchi, vorrei proporre alcune riflessioni personali.

Innanzitutto direi che bisogna distinguere i due fiaschi che il 17 si sono assemblati: il fiasco dell’istituto referendario ed il fiasco del movimento ambientalista.

referendum 17 aprile 2016Per quanto riguarda il primo, c’è poco da dire se non “Grazie Pannella”.   Fu infatti il leader radicale che, oramai tanto tempo fa, tentò di scardinare la macchina del potere partitico subissando il governo con una massa di referendum che, sperava, avrebbe obnubilato le capacità di reazione dei partiti.   Invece accadde il contrario.   Da un lato, fu messa a punto una tecnica estremamente efficace per boicottare i referendum, come abbiamo visto anche nei mesi scorsi.   Dall’altro, la maggior parte della gente si è stufata di troppe domande, troppo frequenti e troppo tecniche.   Risultato, il più democratico degli istituti è morto ammazzato dal suo più ardente paladino.   Si sapeva anche la settimana scorsa.   Amen.

Il secondo punto è più complicato, a cominciare dal fatto che questo referendum è nato nell’ambito di una lotta per il potere interna al PD ed alla macchina statale.   Tuttavia aveva delle implicazioni ambientali ed il movimento ci si è buttato.   Ha perso, ma quello che mi interessa qui è che non abbiamo perso ieri: abbiamo perso sempre.    Un movimento che 50 anni fa sembrava capace di cambiare l’agenda politico-economica globale si sta disintegrando senza aver ottenuto praticamente nulla.

Un dato questo inoppugnabile alla luce dei fatti: rispetto al 1970, la situazione ambientale del mondo è peggiorata in modo terrificante.   E’ vero, il panda non si è ancora estinto, anzi è in lieve ripresa.   Ma attenzione: ciò non è accaduto in forza di norme ed interventi del governo o di una presa di coscienza popolare.   Bensì come “sottoprodotto” del boom economico ed edilizio cinese che ha drenato verso le grandi città decine di milioni di contadini e montanari.   Questo ha dato temporaneo respiro ai boschi dove vivono i panda, ma intanto è raddoppiato l’inquinamento mondiale e con ogni probabilità abbiamo oramai superato il punto di rottura climatico.   Un po’ quello che è accaduto in Europa negli anni ’50 e ’60, più in grande ed in un contesto globale ben peggiore.

indicatori di crisi

E mentre quasi tutti gli indicatori mondiali di qualità ambientale peggiorano in maniera esponenziale (andate a leggere questo link), perfino sul piano culturale l’ambientalismo ha perso buona parte della la sua forza propositiva.   Ad oggi, in Italia ed in Europa esiste una piccola e radicata nicchia di persone preoccupata per l’ambiente, ma le associazioni storiche stanno scomparendo, quelle nuove non decollano ed alle riunioni si vedono sempre le stesse teste, sempre più bianche.   E mentre sui teleschermi assistiamo alla telecronaca in diretta del collasso della nostra civiltà, continuiamo a ripetere come dei mantra parole ormai prive di senso, come “sostenibilità” ed “efficienza”.   Né servono a molto quei pochi che, viceversa, accettano il ruolo di “foglia di fico” del sistema economico, sempre senza preoccuparsi minimamente di come questo si interfacci con la realtà.

Non è un caso se tutti i testi fondamentali per l’ambientalismo sono vecchi di 50 anni: “Silent Spring” 1962, “The Population Bomb” 1968, “The Entropy Law and Economic Process” 1971, “Limits to Growth” 1972.
Dopo è stato scritto molto e molto a proposito, ma i termini fondamentali della questione erano chiari allora ben più di ora.
Le opzioni possibili invece sono cambiate perché il tempo è passato e molte delle cose che non sono state fatte in passato non potranno essere fatte in futuro.

D’altronde, sull’altro fronte le cose vanno perfino peggio.   Se nel 1970 le principali industrie europee finanziavano lo studio che portò ai “Limiti dello sviluppo”, oggi il panorama economico è dominato da individui che si occupano di grattare il fondo del barile.   Oppure da ingenui che davvero credono che eliminando i pochi brandelli di tutele ambientali e sociali ancora esistenti si possa rilanciare una crescita economica che per noi è finita da anni e per il mondo (probabilmente) sta finendo proprio adesso.   Amen (un’altra volta).

Dunque la domanda che mi pongo è questa:   Ha ancora senso che esista un movimento ambientalista?   Se si, quali gli scopi che si dovrebbe prefiggere?

Non è una domanda nata oggi dalla sconfitta di ieri.   E’ una domanda nata 10 anni or sono dalla sconfitta di 50 anni consecutivi in cui non è stato possibile modificare di un millimetro la traiettoria suicida della civiltà umana.   Oggi semplicemente la ripropongo, perché ancora non ho trovato una risposta.

post-apocalypse-300x200La aspetto, non ho fretta.

Trappole 4: La paura

“ La paura fa 90”, si diceva un tempo.   In effetti poche cose funzionano bene come la paura per far correre la gente.   Il problema è che se mette il turbo ai piedi, lo toglie al cervello.   In altre parole, quando si ha paura si corre veloci, ma difficilmente si sceglie la buona direzione.

Facciamo un esempio d’attualità: il terrorismo.

La parola in origine significava una forma di governo basata sul terrore.   Gli esempi storici spaziano Dionigi (tiranno di Siracusa), a Nerone, fino a Pol Pot, passando per gli immancabili Adolf & Joseph.    Ai giorni nostri  la Corea del Nord, per capirsi.   Un uso giornalistico del termine lo ha esteso a gruppi criminali più o meno politicizzati che usano il terrore come strumento per perseguire i propri scopi.   Talvolta si tratta semplicemente di controllare il traffico di stupefacenti su di una certa rotta, talaltra di acquisire fama internazionale a buon mercato; fino alla destabilizzazione di interi stati, secondo i casi.

Una sola cosa hanno in comune questi e gli altri esempi possibili: ammazzare più gente possibile più o meno a caso, in modo che l’opinione pubblica, e dietro di essa i governi, facciano quello che i terroristi desiderano.   Può essere avere i titoloni gratis sulla stampa nazionale o mondiale, come l’elargizione di soldi e protezioni in cambio di tranquillità.   Oppure il varo di norme vessatorie che allarghino la base d’appoggio dei criminali e molto altro ancora.

Ci sono molte cose che si possono fare per contrastare il terrorismo.   Molte di queste sono appannaggio dello stato: polizia, servizi segreti, esercito, eccetera.   Ma la principale rimane in carico ad ogni cittadino: non lasciarsi terrorizzare.
Quando ci sono decine o centinaia di morti la rabbia ed il dolore sono normali, la paura anche, ma il terrore è un’altra cosa.

Quanta gente ammazzano i terroristi?

La figura 1 illustra i risultati di un sondaggio che stima il rischio reale ed il rischio percepito:

rischio reale e rischio percepito

Si capisce a colpo d’occhio che ciò che fa più paura (attacco terroristico, incidente aereo, elettrosmog) non ha niente a che fare con ciò che è più pericoloso (cancro, incidente d’auto, surriscaldamento climatico).

E come andavano le cose quando la maggior parte di noi era giovane?   Decisamente i venti anni dal ’70 al ’90 sono stati assai peggiori, eppure non ci sono state le crisi di nervi collettive, né lo stato di emergenza imposto ad intere nazioni a tempo indeterminato.

image (1)Se poi andiamo a vedere la percentuale di vittime, troviamo che l’Europa è un bersaglio del tutto marginale nelle diverse strategie terroristiche attualmente in atto nel mondo: 420 morti contro oltre 108.000 nel resto del mondo. (N.B. il dato relativo agli USA è sottostimato in quanto non considera i morti in sparatorie provocate da soggetti di estrema destra.   Il dato sulla Siria non comprende i morti nei bombardamenti governativi che sono l’80% dei civili uccisi).

Questo non significa che dobbiamo far finta di niente o minimizzare.   Significa però che la nostra abituale reazione (farsi prendere dal panico) è assolutamente ingiustificata.   Peggio: è probabilmente quello che i terroristi sperano che facciamo.   Dunque è il miglior incentivo alla loro azione.

Altre fonti e studi troveranno risultati un po’ diversi, ma la sostanza non cambia: ci stiamo comportando collettivamente in modo più sbagliato possibile.

Che facciamo?

Per essere chiari, non saranno certamente le marce per la pace che fermeranno il terrorismo, ma neppure le squadracce che picchiano chi gli capita a tiro.   Il terrorismo, inteso in senso moderno, è una parte inevitabile del nostro mondo e lo sarà ancora per decenni.   Possiamo fare molto per limitarlo, ma niente per eliminarlo.   Tant’è imparare a conviverci, pur senza smettere di ostacolarlo.   Il desiderio di sicurezza è legittimo e naturale, ma può facilmente condurre a qualcosa di infinitamente peggio di una certa dose di terrorismo criminale: un terrorismo di stato.   Perché dai criminali, almeno in parte, ti protegge lo stato, ma dallo stato, chi ti proteggerebbe?

E qui torniamo agli esempi storici di terrorismo.   Se è vero che probabilmente l’unico governo attuale autenticamente terrorista è quello di Kim Jong-Un, è altrettanto vero che sono molti i governi che stanno adottando la paura non solo come metodo di repressione del crimine, ma anche come strumento politico.   La fine di Regeni è abbastanza indicativa in questo senso, ma sono tanti i paesi dove essere all’opposizione costa la vita od il carcere.
Perfino nel cuore dell’Europa assistiamo ad una deriva simile.   I provvedimenti turchi contro la libertà di stampa, lo stato d’emergenza sine die in Francia sono solo la punta di un iceberg che stiamo assemblando pezzo per pezzo.   Siamo ancora molto lontani da governi terroristi, ma la distanza diminuisce e l’esperienza dimostra che la differenza fra protezione e prevaricazione tende a sfumare col tempo.

libertà versus sicurezza

La gradualità è il modo migliore per rendere impercettibile l’attraversamento di certe soglie che, viceversa, dovrebbero essere evitate a qualunque costo.   Anche a costo di morire per mano di una banda di pazzi criminali.

Perché si? Perché no!

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L’avete già capito. E ve l’aspettavate. Noi di Crisis da sempre siamo per uscire dal petrolitico, l’era del petrolio bruciato. Da sempre siamo per uno sviluppo accelerato delle energie rinnovabili e di una economia evolutiva, ovvero re distributiva e non della crescita. Per l’abbandono del concetto di consumatore, base, manco a dirlo del consumismo e inesorabilmente dell’economia del debito. QUINDI è ovvio che, in merito al prossimo referendum, siamo per votare sì, per tutti gli ottimi motivi esposti da tutti i fautori del si. Do per scontato che sappiate di cosa si tratti. In fondo siamo su Crisis, mica su casabella&cento cose cool della prossima estate.

Quindi: perché votare sì? Perché no. Non è una buona idea continuare a cavare petrolio nei nostri mari. Ma questo, già ve l’hanno detto.

Bene. Ok. E ALLORA?

Allora, per dare un contributo un filo controcorrente, mettiamoci, per un attimo, il cappello con su scritto: i love oil.

Bene: se ami davvero il petrolio, se trivellare madre terra e’il tuo personale modo di interagire con il mondo in mancanza di donne, se conservi con amore una fiala di petrolio di Gawar, beh, proprio in questo caso, perfino in questo caso, il tuo amatissimo petrolio lo dovresti lasciare sotto terra. Intanto perché bruciare una cosa preziosa ed indispensabile come il petrolio, una cosa dalla quale si fanno fertilizzanti, medicine e la base plastica del tuo civilizzatissimo mondo, e’ da idioti. Eh sì, perché oltre i due terzi del petrolio viene bruciato subito, ho idea che lo sappiate, ed il terzo rimanente, venendo riciclato in minima parte,  finisce comunque bruciato, con grande gioia degli alveoli polmonari di qualche vivente nei dintorni.

Che peccato, no, per chi ama tanto il petrolio, il mistero della sua origine, il suo ancestrale olezzo di distillato invecchiato milioni di anni in geo barrique? E poi, non è certo un grande affare. Trivellare e produrre oggi significa rinunciare ai due terzi, forse all’80%, dei guadagni possibili. Perché il prezzo del barile( e quindi del metro cubo di metano) risalirà, statene certi e risalirà a livelli ancora più alti di quelli rivisti negli anni passati. Conviene, quindi, lasciarlo dormire sottoterra. Tenerselo buono buono per un decennio o due. Magari cinque o sei. Sarà un affare migliore tirarlo fuori quando sarà finalmente compreso, l’oro nero. Quando a nessuno passerà più per la testa di bruciarlo o sprecarlo.  Quando il suo costo al litro sarà più alto di quello di un litro di buon rosso di carmignano.

Si vabbe, torna sulla Terra, dai.

Hai ragione, coraggioso lettore di Crisis ed eccomi di nuovo qui.

Restando tra di noi mi pare ancora più semplice. La produzione metanifera e petrolifera nostrana, mai lontanamente in grado di renderci autosufficienti, e’ da anni in forte calo, per puri motivi di sfiga geologica. Abbiamo una geologia vivace e piuttosto attiva ed interessante nel senso della maledizione cinese e questo mal si accorda con succulenti giacimenti. Far fuori il poco che resta non è quindi una buona idea in termini strategici. Non supereremo mai la produzione attuale, che vale qualche per cento dei nostri fabbisogni. Quindi tanto vale aspettare quando, in un futuro, avremo fortemente ridotto la nostra dipendenza dalla combustione di krill morto milioni di anni fa.

La stessa identica produzione di petrolio e metano  sarà allora una percentuale assai più importante dei nostri fabbisogni e darà un contributo proporzionalmente maggiore al benessere della nostra bilancia dei pagamenti.

Eh, ma i posti di lavoro…nessuna paura.

Se c’è un settore che non conoscerà crisi se non momentanee e’quello delle estrazioni. Tocchera’ girare il mondo, certo. Ma l’hai scelto tu, bellezza, un ben remunerato lavoro di merda. E poi…andiamo, non si può usare la stessa scusa tutte le volte. L’hanno già usata per il salvataggio di Banca Etruria, degli&dagli amici babbioni del babbino della madrina della madre di tutte le riforme costituzionali…

Il cielo sopra il mondo

Aracoeli(tra l’Altare della Patria e la piazza del Campidoglio sorge la Basilica di Santa Maria in Aracoeli, eretta nel VI secolo sul sito di un preesistente tempio romano. Vi si accede per mezzo di una lunga e ripida scalinata e fu luogo, diversi anni fa, di una delle esperienze più profonde, intense e spiazzanti della mia vita)

È un sabato pomeriggio. Con mia moglie abbiamo deciso di fare un po’ i ‘turisti in casa’, andando a passeggiare nel centro storico, senza una meta precisa. Quando ci ritroviamo a passare sotto la chiesa dell’Aracoeli vediamo un’ambulanza ferma, e mi rendo conto che in cima alla scalinata sta accadendo qualcosa. Un gruppo di paramedici si sta dando da fare su di un corpo steso a terra. Non so esattamente cosa mi muove, Emanuela vuole andar via, io sento che il mio posto è lassù. La convinco e saliamo lentamente le scale.

Giunti in cima ci troviamo di fronte una scena surreale. I paramedici stanno praticando il massaggio cardiaco sul corpo di un uomo a terra. Accanto a loro due donne, di età diversa (moglie e figlia, penso) li osservano ammutolite. Nessuno osa parlare. Sotto di noi, lontani, i suoni attutiti della città ci raggiungono da una distanza che appare incolmabile. Sopra le nostre teste, nere nuvole temporalesche creano una luce cupa, rarissima da osservare. Sembra la scena di un film. Non un film qualsiasi. È Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.

Wenders
Nel film il protagonista è un angelo. La realtà degli angeli coesiste con la nostra, ma su un piano diverso. Gli angeli vedono un mondo in bianco e nero, privo di suoni. Non sentono le parole degli uomini, ma ne ascoltano i pensieri. Non possono interagire né interferire. Provano a consolarli quando sono disperati, ma molto spesso sono semplici testimoni dei fatti che accadono: della vita, del dolore, della morte. In cima a quella scalinata, sotto un cielo plumbeo, mentre abbraccio mia moglie senza parlare, mi sento così: mero testimone di un momento di passaggio, forse l’ultimo, per un mio simile. Il passaggio del confine tra la vita e la morte.

Cerco di immaginare i momenti precedenti. La famiglia in vacanza. La decisione di salire a vedere quella chiesa. La scalinata, forse troppo lunga e ripida per quell’uomo corpulento, di mezza età. Sull’ultimo gradino l’arresto cardiaco. Le due donne, poco prima allegre, improvvisamente sole di fronte alla tragedia inaspettata. Il mondo, sotto di loro, che indifferente va avanti con le sue routines. Osservo commosso questa scena cercando di darle un senso. Un senso difficile da trovare.

Dopo un tempo non quantificabile, dieci minuti, forse venti, i paramedici smettono di praticare i tentativi di rianimazione. Si fermano stremati a contemplare il corpo esanime. Io ed Emanuela entriamo in chiesa, storditi, lei per pregare, io per riflettere. All’interno della chiesa è in corso una funzione religiosa: una messa del sabato pomeriggio celebrata per una manciata di astanti, in prevalenza anziani. Dopo poco il sacerdote, informato dell’accaduto, interrompe la funzione. Avvisa che deve recarsi all’esterno per impartire l’estrema unzione al defunto, si allontana dall’altare a passi lenti e gravi.

Da ateo non posso partecipare alla dimensione trascendente della celebrazione, ma mi colpisce, all’improvviso, quel grumo di umanità, quel piccolo popolo legato a riti antichi. Percepisco la loro esigenza di una dimensione umana che travalichi il consumismo, il mero desiderio di oggetti inanimati. Comprendo, almeno in parte, la contrapposizione tra materialismo e trascendenza in una chiave di conflitto ideologico.

Pur ateo, la filosofia cristiana all’interno della quale sono stato cresciuto (e che ho introiettato, nonostante la rinuncia alla dimensione teologica) mi spinge ad agire in termini cooperativi, solidali, a considerare le dinamiche egoistiche e competitive come una strategia erronea dell’agire umano. Nonostante ciò devo riconoscere in questo momento storico il primato della sopraffazione. Come conciliare teoria e realtà?

Seguendo un filo di analisi che avevo già introdotto nel finale di un precedente post, la mia conclusione attuale è che competizione e cooperazione restano le due dinamiche portanti del comportamento umano, ma il punto di equilibrio è determinato dal contesto, ed il contesto che abbiamo sviluppato nell’arco dei millenni è totalmente diverso da quello che ha dato origine all’etica ebraica prima, e cristiana in seguito.

L’etica ebraico-cristiana, elaborata in seno ad un popolo disperso di pastori nomadi, fornisce indirizzi efficaci in situazioni di povertà di risorse e scarsità d’individui. Dato un simile contesto, la solidarietà, la condivisione, l’aiuto reciproco contribuiscono fattivamente al benessere delle comunità ed alla loro prosperità. Ma il mondo che ha visto la luce in seguito alla rivoluzione industriale non presenta più queste caratteristiche.

Il mondo in cui viviamo oggi è dominato dalla sovrabbondanza di beni e di popolazione, animato da collegamenti veloci che consentono di trasferire rapidamente persone e beni materiali da un paese all’altro, da un continente all’altro. Regolato da legislazioni che favoriscono l’accumulo di ricchezza in poche mani, perfettamente compatibili con pesanti disparità sociali che producono masse sfruttate da un lato ed oligarchie economico-finanziarie dall’altro.

In questo contesto l’etica solidale cristiana risulta ancora premiante al livello dei singoli individui, delle relazioni interpersonali, ma le modalità predatorie tipiche dell’accumulazione capitalista offrono vantaggi sconfinati per quanto riguarda le manipolazioni su vasta scala, dai singoli paesi ad interi continenti. Nella modernità globalizzata, singoli egoismi individuali possono arrivare a disporre di un potere di gran lunga superiore a quello esercitabile dalla vasta maggioranza della popolazione, grazie al controllo sulla politica e sui mezzi di comunicazione, alla propaganda strisciante ed onnipresente, alla menzogna reiterata.

Eppure anche questo momento storico  folle, estemporaneo ed esplosivo, si schianterà di fronte ai limiti fisici del pianeta che ci ospita. La cultura dell’accumulo egoistico dovrà sperabilmente far posto a quella della ridistribuzione, perché l’alternativa produrrebbe paesi spopolati ed indeboliti. Non possiamo dare per scontato che questo avvenga nell’immediato.  Nel secolo scorso il crollo dei mercati degli anni ’20, ed il conseguente impoverimento delle popolazioni, produssero al contrario ideologie fortemente aggressive come il Fascismo in Italia e il Nazismo in Germania.

Quale tipo di etica, o di ideologia, o di religione potrà guidare la transizione verso una cultura a minor impatto ambientale non ci è dato sapere, probabilmente deve ancora essere formulata. Abbiamo accumulato negli anni una lunga serie di tesi puramente razionali, ma sappiamo bene quanto poco la razionalità riesca a pesare nei momenti di crisi sociale. Converrà trovare il modo di elaborare una nuova Idea del Mondo nel tempo che ancora ci resta, a rischio di non poterne disporre quando ne avremo un disperato bisogno.

Il picco delle risorse

Di Jacopo Simonetta.

A giorni ci sarà un referendum che riguarda, sia pure in modo molto marginale, la principale delle nostre risorse: il petrolio!

Il picco del petrolio di buona qualità ed a buon mercato è stato nel 2005.   Quello di tutte le forme di energia fossile è probabilmente adesso perché il picco del petrolio si porta dietro, necessariamente, il picco di tutte le altre risorse.   Comprese quelle rinnovabili, che sfruttiamo in gran parte proprio grazie al petrolio

Al link qui sotto è possibile vedere le diapositive dell’incontro del 9 aprile 2016 dal titolo: Referendum 17 Aprile, una goccia nel mare.

picco delle risorse

 

Il picco delle risorse

Il blindato più caro del mondo? È’ italiano ed e’ una “sola”

Il Freccia
Il Freccia

Riconosco che può sembrare strano, su Crisis, un post dedicato ad un blindato.

Il punto è che la mamma di tutte le crisi si lega in modo indissolubile con malversazioni, manovre lobbistiche, proiezioni di sterile Potenza, pie illusioni di risoluzione armata dei conflitti sistemici per le risorse, mantenimento dello status quo mondiale e affaristico, etc etc.

Semplicemente, su questo non tanto piccolo, viste le cifre coinvolte, scandalo, mi è caduto l’occhio, leggendo un post sui numerosi conflitti di interesse affrontati e risolti con discreta soddisfazione delle lobbies di volta in volta coinvolte, da parte del governo Renzi, in buona continuità con quelli precedenti.

Manco a dirlo, l’acquisto di qualche miliardo di sistemi d’arma nuovi nuovi rende felici o almeno parecchio soddisfatte un bel po’ di lobbies  assortite. Ma andiamo con ordine.

Con due atti successivi, il governo italiano ha deliberato di acquistare 249 e poi 381 blindati ( erroneamente definiti da molti giornali carri armati) Freccia, per un totale di 630 mezzi. per una coincidenza strepitosa uno per ogni parlamentare.

Quanto ci costano? Presto detto: il primo lotto, nel 2009, ci era costato 1,6 miliardi per 249 mezzi, ma aveva compreso, ovviamente, anche la ricerca e lo sviluppo ( anche se il freccia deriva strettamente, pregi e difetti, dal blindo centauro). 6.43 milioni per  blindato. La nuova fornitura, per altri 2.6 miliardi complessivi, e’ stata approvata a gennaio 2015, dal governo Renzi tanto impermeabile alle lobbies da vedere il Capogruppo PD in commissione difesa tentare invano di bloccare la decisione del governo, presa lo stesso giorno in cui si coronava, tra l’altro, il sogno da oltre 5 miliardi di euro dell’Ammiraglio De Giorgi, proprio perché a suo dire pesantemente inquinata dalle  pressioni delle aziende di armamenti. Ci sarebbe da parlare anche di questi sogni di gloria e deliri proiettivi di potenza di una marina che non riesce a garantire sufficienti mezzi e carburante alla guardia costiera per evitare centinaia di morti in mare all’anno, ma rimaniamo su QUESTO delirio terrestre.

intanto ecco qui la scheda tecnica.

Poi affrontiamo, una buona volta, il costo unitario del veicolo.

2.6 miliardi per 381 mezzi  sono, in apparenza, 6.8 milioni a blindato. Il secondo lotto costerà quindi ancora di più del primo.

Piu’ di un teutonico Leopard II. 5.74 milioni di dollari.

Piu’ di un  celeberrimo americano Abrams m1a2, da 6.2 a 4 milioni di dollari, o meno se comprato come “usato garantito”

Piu di un avanzatissimo israeliano  Merkava IV. 4.5 milioni di dollari

Piu’ di un corazzatissimo inglese Challenger 2.  4.2 milioni di sterline.

Sono i migliori mezzi blindati occidentali in circolazione, i più potenti e sofisticati, con i sistemi di offesa e difesa più costosi e complessi. Possono resistere a qualunque cosa o quasi ( in realtà i razzi a doppia testata cava, che cominciano ad essere in dotazione a molti gruppi, sono in grado di bucare, in certe condizioni, anche le loro corazze).  Hanno cannoni precisissimi. Sistemi avanzatissimi di stabilizzazione del tiro, motori da 1500 cavalli, corazze stratificate e reattive….insomma stanno al freccia come una Jaguar sta ad un pulmino Volkswagen.

i freccia costano perfino di più, ed è tutto dire,, visto gli elevati costi di sviluppo spalmati su un esiguo numero di esemplari, dei carri ariete, che questo documento riporta con un costo unitario di 6.8 miliardi di lire, che potremmo rivalutare spannometricamente come 6.8 milioni di euro.

Lo stesso documento riporta, sulla riga immediatamente successiva, il costo del blindo centauro di cui, ripeto, il freccia e’una derivazione da trasporto truppe, decisamente meno potente e costosa, dal punto di vista dell’armamento.  3.8 miliardi di lire, che possiamo tradurre con 3. 8 milioni di euro, per riportarlo ai nostri giorni. Caro, come si vede dal confronto con veri carri armati, ma pur sempre poco più della metà’ degli irresistibili Freccia.

Vi sembrano conti dubbi? Allora che ne dite dei 10 milioni stanziati nel 2011  per la progettazione lo studio e la realizzazione di due prototipi del centauro II, un veicolo ovviamente più sofisticato e moderno del centauro ed almeno alla pari con il freccia ( senza contare le differenze di armamento) Si tratta di prototipi, quindi la costruzione non è in serie, molti apparati sono integrati per la prima volta etc etc etc. Eppure costano 5 milioni di euro l’uno. Oltre un milione di euro meno degli esemplari di serie del fantasmagorico veicolo “corazzato”.

A questo punto, credo ci aspetteremmo una via di mezzo tra la macchina di Batman e l’astronave di capitan harlock.

Invece no. I veicoli in questione non sono in grado difendere i soldati che trasportano in caso di attacco con bazooka, missili spalleggiati o grossi calibri. Al più possono salvarli da uno ied. ( Improvvised Explosive Device) non troppo potente o dalle raffiche di kalashnikov. Per resistere ad un cannoncino come il loro, da 25 millimetri ( da confrontare con i 105 o 120 dei vecchi e nuovi carri) o da una mitragliata di una camionetta “tecnica” di qualche milizia, devono essere dotati di blindature aggiuntive, che ovviamente fanno lievitare il costo.

I blindo centauro , utilizzati in Somalia e in Afghanistan sono stati in qualche modo ricoperti con piastrelle reattive in grado almeno di difendere gli occupanti da proiettili fino a 30 mm o razzi spalleggiati di modesta potenza. Di fatto, dei 250 mezzi realizzati solo 17 sono stati collaudati sul campo in Afghanistan e questo per il banal motivo che in realtà non sono particolarmente più sicuri di una camionetta blindata come il lince, dato che costituiscono un bersaglio più pagante per i gruppi dotati di razzi, dai quali, come visto, non possono difendersi. Dalla loro, grazie alla relativa leggerezza, hanno una velocità massima di oltre 100 km l’ora che però risulta di scarsa utilità sul terreno urbano e fuoristrada, tipici dell utilizzo di questi mezzi.

Non è ancora chiaro? Il Merkava ha dimostrato di non essere sempre in grado di difendere i soldati trasportati ( sì perché può portare alcuni soldati oltre all’equipaggio, all’interno) pur avendo una resistenza equivalente ad oltre 600 millimetri di acciaio, ottenuta con una corazza complessa, cariche reattive, etc etc etc.

QUINDI l’esercito israeliano ha deciso di realizzare un trasporto truppe ANCORA PIÙ PROTETTO del Merkava, ma da esso derivato. A quanto pare il veicolo corazzato più protetto e sicuro al mondo.

si tratta del Namer.

Namer
Namer

costo: 3 milioni di dollari, meno della metà di un freccia. Con un calcolo approssimativo basato sulla capacità di resistere delle sue corazze, circa dieci volte più sicuro.

Breve sintesi: L’Italia ha quindi deciso di dotarsi del più caro veicolo blindato del mondo e, probabilmente, di tutti i tempi e un ragazzino con un  qualunque residuato bellico e’in grado di bucarlo.

con un lievissimo underststement: 4 miliardi e spiccioli certamente malspesi.

Intanto, a priori, per il motivo ovvio che con 4 miliardi si risolvono i problemi del sistema pensionistico italico almeno nel 2016, o si ricostruisce il centro dell’Aquila, o si chiude la vergogna degli esodati. Secondariamente perché dovremmo deciderci, una buona volta, a comprendere che la secolare battaglia tra corazza e proiettile e’stata vinta. Dal proiettile. E se non bastasse, dall’elettronica.

Il post si potrebbe chiudere qui, ma credo che ci vadano un paio di altre righe: 4 miliardi divisi i circa 30 milioni di contribuenti italici sono 133 euro a testa.

Non so voi ma il sottoscritto vorrebbe che fosse chiarito chi ha così facilmente convinto la nostra commissione difesa ad approvare, senza un fiato, una spesa ovviamente incongrua per un mezzo che, a parte le ovvie considerazioni sull’opportunità di mandare soldati nel mondo, costa ALMENO dal doppio al triplo del dovuto. E non serve allo scopo per cui e’realizzato, salvare la vita ai nostri soldati trasportati. Il fatto che su 250 ne siano stati utilizzati solo 17 in Afghanistan, la dice lunga sulla fiducia riposta nel mezzo. Pare evidente che, proprio in conseguenza dei costi, dei risultati di utilizzo non brillanti e dell’esistenza di alternative più economiche e molto ma molto più sicure, si sarebbe dovuto attendere prima di dare il via al secondo lotto. Con un pessimo affare per noi cittadini e per i soldati italiani.

Per dirla tutta: una “sola”,  almeno in apparenza.

Pressioni? Lobbies? Naaaa, giammai,  maddeche’, vade retro, gufi gufacci e rosiconi immobilizzatori del paese.

Gli idoli della modernità

Dopo Armi, acciaio e malattie, breve storia degli ultimi tredicimila anni non ho potuto resistere alla tentazione di leggermi al più presto anche il successivo libro di Jared Diamond: Collasso, come le società scelgono di morire o vivere. Se nel precedente l’attenzione era concentrata sull’evoluzione delle civiltà, qui l’autore cerca di comprendere i meccanismi alla base della loro fine.

Il nostro pianeta conserva i resti di innumerevoli civiltà, fiorite in luoghi diversi solo per poi sparire completamente, in modi misteriosi, lasciando dietro di sé templi ed idoli di una magnificenza sconcertante se si considera che furono prodotti da popoli in grado di maneggiare unicamente strumenti di legno e pietra.

Gli strumenti scientifici attuali ci consentono di ricostruire molta della storia di questi popoli con tecniche incredibili, fino a comprendere l’evoluzione dell’habitat naturale e delle abitudini alimentari nell’arco di secoli a partire dall’analisi microscopica dei resti abbandonati di antiche discariche e cimiteri.

La sconcertante civiltà dell’isola di Pasqua compare già nei primi capitoli del libro. Lontanissima da tutte le altre terre, circondata dal Pacifico per migliaia di chilometri, fu popolata intorno all’anno 1000 d.c. dai polinesiani, solo per perdere quasi subito ogni contatto con le isole da cui la colonizzazione partì.

Sull’isola si sviluppo’ una bizzarra civiltà, che costruì ed innalzò centinaia di enormi statue per ingraziarsi la benevolenza degli antenati, i Moai. La fabbricazione ed il trasporto di questi idoli di pietra causò la totale deforestazione dell’isola, finendo col rappresentare un enigma insolubile per i secoli a venire dopo la sua riscoperta da parte degli europei.

Nell’arco di circa sette secoli, un’isola che ora sappiamo coperta originariamente da una lussureggiante foresta di enormi palme (una specie endemica dell’isola, ora completamente estinta) e popolata da sterminate colonie di uccelli marini, fu ridotta ad una landa brulla e desolata in cui poche centinaia di abitanti si arrabattavano a sopravvivere coltivando poche varietà commestibili e ricorrendo di necessità, per colmare il deficit di proteine nell’alimentazione, al cannibalismo.

L’immensa foresta dovette sembrare, ai primi colonizzatori, una ricchezza enorme ed inesauribile, la crescita della popolazione un fatto inevitabile ed anzi ben accetto, la costruzione dei primi Moai una semplice forma di ringraziamento degli antenati. Poi qualcosa andò storto, o forse andò nell’unico modo in cui poteva andare: la fabbricazione delle statue divenne essenziale per la conservazione della struttura sociale che si era venuta a creare.

La costruzione dei Moai e delle piattaforme che li sostenevano divenne la principale attività “industriale” dell’isola, coinvolgendo migliaia di persone. Ciò rese il processo inarrestabile e portò al completo annientamento della foresta ed al conseguente esaurimento del legname indispensabile al trasporto. Nella cava di Rano Raraku restano ad oggi quasi 400 statue incomplete, segno che la popolazione era totalmente inconsapevole del destino cui stava andando incontro.

Con l’abbattimento della foresta di palme, che offriva cibo e rifugio agli uccelli marini, le condizioni di vita divennero ben presto insostenibili, la carenza di cibo innescò guerre tra le diverse fazioni dell’isola, ed anche tutti i Moai innalzati fin lì, in una forma di rabbiosa quanto sciocca vendetta, vennero abbattuti. La popolazione precipitò dai 15-20.000 individui del momento di massimo splendore a poche centinaia al momento del contatto con gli europei, che ne completarono la decimazione con le deportazioni e la trasmissione di malattie mortali.

Che insegnamento possiamo trarre da questa vicenda che ci riguardi direttamente? Certo è che i comportamenti umani sono tutti molto simili, e come gli abitanti dell’isola di Pasqua non si resero conto delle conseguenze a lungo termine delle loro attività, anche noi potremmo fare altrettanto: condurre la nostra società ad un tale livello di sovrappopolazione e sfruttamento di risorse non rinnovabili da rendere impossibile invertire o arrestare il processo.

Ed, al pari dei Moai, anche noi potremmo aver prodotto delle entità totemiche alle quali tutti guardano con venerazione e rispetto, la cui “necessità” non può essere messa in discussione, che rappresentano la principale attività industriale del mondo moderno (la prima voce nel consumo di risorse non rinnovabili) e che tendono a crescere in dimensioni, “status” e consumi man mano che si va avanti negli anni.

A voi questa descrizione cosa fa venire in mente?