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Grugniti in libertà di un cacciatore raccoglitore del XXI secolo

Qualunquismo, Populismo e Fascismo.

di Jacopo Simonetta

Qualunquismo, Populismo e fascismo sono tre parole spesso confuse ed indifferentemente usate come insulti.  Non essendo un politologo, propongo qui una mia riflessione personale che non pretende certo di essere né completa, né esatta.   Anzi, se qualcuno avrà da precisare, correggere e discutere, meglio!  Lo scopo di questo blog è proprio quello di stimolare la discussione.

Populismo.

Ne ho parlato in un mio vecchio post cui rimando.  Qui vorrei solo ricordare che i movimenti ed i partiti populisti nacquero agli albori della rivoluzione industriale e si svilupparono fino a i primi del XX secolo, quando furono definitivamente sconfitti dai liberisti in alcuni paesi e dai comunisti in altri.
Talvolta spacciati per rivoluzionari, i populisti erano piuttosto dei conservatori che si opponevano in tutti i modi sia al capitalismo moderno, sia al comunismo.  Furono invece strenui difensori del lavoro artigianale ed agricolo, rifiutando sia la salarizzazione del lavoro, sia la  collettivizzazione dei mezzi di produzione.
Per loro, la società avrebbe dovuto essere radicalmente ristrutturata sulla base delle autentiche ed antiche tradizioni popolari.  Insomma, un estremo tentativo di rivalutare “Il costume antico” e la “common decency” che erano state fondamento della società civile nei secoli precedenti.
Tipici frutti di questi movimenti furono le società di mutuo soccorso, le fratellanze ed anche varie società segrete, talvolta intersecate con la Massoneria che, però, nel suo insieme fu invece un’organizzazione di impostazione liberale e progressista.

Fascismo.

Esistono biblioteche su questo argomento.  Qui vorrei solo precisare che uso questo termine in senso generico di “movimenti e partiti di tipo fascista” e non solo del partito di Mussolini che ha una sua storia precisa e particolare.
In estrema sintesi, direi che rappresentano la perversione del populismo in quanto basano anch’essi la loro retorica sul richiamo ad antiche tradizioni.   Ma mentre le tradizioni cui si riferivano i populisti di 50 o 100 anni prima erano ancora almeno in parte vive, le “tradizioni” cui si riferivano e si riferiscono i fascisti (sensu lato) sono in gran parte di fantasia.  Penso, ad esempio agli Ariani ed ai Turanici che non sono mai esistiti, ma anche la “romanità” mussoliniana aveva ben poco a che fare con la romanità storica.
Una lettura delle opere di Julius Evola è, credo, emblematica in questo senso.   Dall’inizio alla fine sono un peana ad un’atavica tradizione ben chiara nella sua mente, ma di cui non si trova traccia nei documenti antichi e nei resti archeologici.
All’atto pratico, i governi di tipo fascista si sono sempre contraddistinti per la creazione di regimi totalitari, per la capacità di trovare dei comodi compromessi con il grande capitale e per l’attitudine a precipitare i rispettivi paesi in guerre devastanti e puntualmente perse.  Con l’eccezione di Franco che, da militare avveduto qual’era, preferì litigare con Hitler (nel 1940), piuttosto che imbarcarsi in una guerra che sapeva sarebbe stata perduta.

Qualunquismo.

Anche il termine “qualunquista” è stato ed è ampiamente usato come insulto, ma ha un origine diversa .   L’ “Uomo Qualunque” nacque infatti nel 1944 come giornale; il logo raffigurava un tizio strizzato dai poteri forti in un torchio per estrarne dei soldi.  Il motto era: «Questo è il giornale dell’uomo qualunque, stufo di tutti, il cui solo, ardente desiderio è che nessuno gli rompa le scatole».

Il foglio ottenne un notevole successo, usando una satira spesso grezza ed insultante; fra l’altro storpiando i nomi dei politici in maniera ridicola.  Ad esempio, Calamandrei (capogruppo del Partito d’Azione) divenne “Caccamandrei”, Salvatorelli (giornalista) divenne  “Servitorelli”, Vinciguerra (deputato socialista) divenne “Perdiguerra” e così via.
Nel 1946 il movimento divenne un partito: il Fronte dell’Uomo Qualunque, mantenendo però l’impianto e lo stile del  suo giornale.  Subito odiato da tutti gli altri partiti, fu spesso tacciato di essere una riedizione del disciolto Partito Nazionale Fascista.  Ma anche se un certo numero di fascisti vi confluirono, la forza del Fronte fu proprio quella di saper raccogliere e dar voce agli scontenti e ai delusi di tutte le tendenze: dai monarchici ai liberali, dai fascisti ai socialisti.  La sua impostazione generale era liberale e libertaria, basata su pochi punti chiave:

  • Lotta a tutte le ideologie politiche, a partire dal fascismo ed dal comunismo.
  • Lotta alla “partitocrazia” (termine che comparve proprio in quell’epoca).
  • Lotta al grande capitale, in particolare alla grande industria, ed alla sua ingerenza in politica.
  • Sostegno alla piccola impresa, agli artigiani, commercianti, impiegati, contadini e, in generale, all’ “uomo della strada”, visto come  abituale vittima delle strutture di potere.
  • Riduzione delle imposte.
  • Lotta all’ingerenza del potere pubblico nella vita privata dei cittadini. Lo stato doveva essere un semplice amministratore che  fornisce i servizi essenziali con il minimo indispensabile di prelievo fiscale.

Non sono certo il primo a cogliere delle analogie con un’altro partito che oggi va per la maggiore.  Se altri sono dello stesso avviso, saranno forse interessati a sapere come andò a finire. Presto detto:  male.
Alle amministrative del 1969 l’Uomo Qualunque ottenne il 4% circa su base nazionale, ma in Italia meridionale fece il 15-20% a seconda delle circoscrizioni, fino ad oltre il 30% a Messina.   Alle successive elezioni per l’Assemblea Costituente andò ancora meglio ed ottenne ben 30 deputati.   Dunque una buona partenza per un partito che aveva tutti contro e che, per la sua propaganda, disponeva solo di un giornale autofinanziato.   Ma già un anno dopo, l’avvicinamento del fondatore e capo del partito (Guglielmo Giannini) al governo de Gasperi gli giocò buona parte della popolarità e le successive evoluzioni politiche fecero peggio, finché il partito fu sciolto nel 1953.

Tirando le somme.

Come ho più volte sostenuto, la definizione di “populista” in uso oggi è profondamente scorretta.  Casomai, il M5S ed altre formazioni simili in Europa potrebbero essere assai meglio definite come “qualunquiste”, nel senso originale del termine.   Anche per distinguerle dai movimenti e dai partiti autenticamente neo-fascisti o neo-nazisti che pure proliferano e che pure vengono impropriamente definiti “populisti”.
Certo, una parziale commistione c’è (come ci fu per con l’UQ), ma il fatto che dei fascisti votino M5S non significa che il partito sia fascista.
Non per ora, ma se davvero i 5S andranno al governo si aprirà una grossa crisi al suo interno.   Già le prime manovre post-elettorali e l’elezione della Castellati alla presidenza del Senato hanno allarmato parte dei suoi sostenitori e non potrebbe essere che così.
Il “Partito degli scontenti” funziona bene finché si è all’opposizione, ma quando si va al governo il rischio di scontentare gli scontenti è estremamente alto. Soprattutto in un contesto come quello attuale in cui i margini di possibile miglioramento sono oggettivamente esigui, mentre quelli di possibile peggioramento sono assai vasti.
Un forte indizio in questo senso è che fra le poche città importanti in cui i “grillini” hanno perso ci sono Roma, Livorno ed altre in cui avevano vinto a mani basse le amministrative precedenti.

Secondo me, la forza dei 5S oggi, come dell’UQ ieri, è quella di essere stato capace di raccogliere consensi da ogni parte, ma mantenere un equilibrio simile stando al governo sarà molto più difficile.
Vedremo.

Ponzi Planet

Immagine tratta da http://planetponzi.com

disclaimer: questo non è un post catastrofista. E’ il babbo di tutti i post catastrofisti. Non parla di collasso dei clatrati, o di picco del petrolio o di bolle speculative. In effetti, in rapporto a quanto tratteggiato, il picco del petrolio o l’instabilizzazione dei clatrati dei fondali artici, pur fenomeni di per se esiziali dell’attuale paradigma economico, potrebbero essere considerati fenomeni desiderabili, in quanto relativamente remoti nel tempo.

Qui parliamo di una miccia già accesa che non è più lunga di cinque anni.

Esagerato?

Forse si, forse no. In ogni caso, allacciate le cinture.

Carlo Ponzi, per chi non lo sapesse, è l’eponimo del cd “schema ponzi”, da lui utilizzato con un certo successo negli anni ‘20 e da tanti altri ripetuto sotto ogni cielo, fino ai giorni nostri. Lo schema è presto spiegato: si trova una opportunità economica vantaggiosa , si raccoglie un primo gruzzoletto grazie ad un manipolo di investitori, si ridistribuisce generosamente il ricavato, si ripete il gioco, via via che nuovi investitori si assiepano. Molto rapidamente, l’attivita’ economica di partenza diventa un pretesto e prevale la distribuzione dei capitali affluiti dai nuovi investitori come dividendi a quelli precedenti, finché, ad un certo punto, il denaro in uscita supera quello in ingresso, aumentano i problemi, gli investitori chiedono il rientro di tutto il capitale investito e non solo i dividendi ed il castello crolla su se stesso, lasciando migliaia, a volte milioni, di persone più povere. Dalle nostre parti, questo schema truffaldino è spesso meglio conosciuto come l’aeroplano, da una sua versione con questo nome che ebbe un notevole successo circa 30 anni fa.

In realtà, Ponzi, Madoff e gli altri cattivoni del genere sono solo una espressione della eterna pulsione umana a trovare scorciatoie verso il benessere. Dalla bolla dei tulipani a quella delle criptovalute, i soggetti come lui sono solo la naturale espressione della necessità evoluzionistica di occupare una ben precisa nicchia ecologica. Insomma: il sonno della ragione (economica) genera i Ponzi.  Lo schema è stato ripetuto più e più volte, con successo crescente, grazie alla velocità delle transazioni elettroniche, con scossoni sempre più grandi, l’ultimo più famoso, quello provocato da Madoff, che,  complice il pessimo tempismo, il collasso, per oltre 60 miliardi di dollari della sua società è coinciso con il momento più nero della crisi dei mutui subprime, si è beccato una condanna all’ ergastolo.

Ovviamente OGNI-SANTA-VOLTA che questi castelli finanziari sono collassati, ogni singola istituzione nazionale ed internazionale si è premurato di ricoprire di infamie il reprobo traditore della fiducia degli investitori, giurando e spergiurando che, nonostante certe pecore nere, il mercato è sano, in mano ad istituzioni finanziarie sicure, che le regole sono chiare, certe, infallibili, che la guardia contro questo genere di abusi sarebbe stata ancora alzata etc etc.

La pena esemplare a Madoff ha dimostrato che questo genere di cose spaventano DAVVERO l’establishment, per un motivo molto semplice, a mio avviso. Perché sono un pericolosissimo canarino nella miniera, sono un campanello di allarme che può alzare l’attenzione sul resto del mercato e sulla realtà più grande, evidente e ignorata (negarla, infatti, è impossibile). Viviamo in un ciclopico schema Ponzi globale. Anzi: in schemi Ponzi multipli, ciascuno dei quali dovrebbe, in teoria, fungere da sostegno in caso di implosione di uno degli altri. In ordine sparso, abbiamo uno schema Ponzi immobiliare, uno schema Ponzi finanziario, uno schema Ponzi estrattivo ( il fracking) e, ovviamente, uno schema Ponzi  finanziario, il tutto annaffiato da future ed altri titoli tossici per un multiplo spaventoso, nessuno sa veramente quanto grande, delle intere ricchezze del mondo.

E qui arriviamo alla parte che credo più immediata e facilmente comprensibile del Pianeta Ponzi, che abbiamo costruito e stiamo costruendo, ai danni di quello reale.

La crescita mondiale si regge, da sempre, sul credito, ovvero, per essere esatti, sul debito.

Per molto tempo, la corsa tra debiti crescenti e fatturati (mondiali) crescenti, si è chiusa in vantaggio per i fatturati. Ma da 20 anni e sempre più velocemente negli ultimi tempi, i debiti sono aumentati più rapidamente del prodotto interno lordo mondiale. Negli ultimi dieci anni il debito totale, pubblico e privato mondiale è aumentato di oltre il 7% di pil all’anno, superando ampiamente la presunta crescita, avvenuta dopo il crollo del 2008.

La situazione attuale è la seguente: il totale ( per difetto, perché una parte dei debiti tra privati non compare nelle statistiche e non tutti i debiti pubblici sono contabilizzati come tali) dei debiti mondiali in venti anni è più triplicato, in dieci è più che raddoppiato.

Come dicevo, la crescita non gli è stata dietro.

Infatti,  il debito è passato dal 217% al 318% del PIL mondiale, che è di circa 77 Trilioni di dollari. Nel 2017, è aumentato di 16 trilioni di dollari, oltre il 20% del PIL mondiale!!!

La cosa interessante, nel senso della cd “maledizione cinese“, è che il totale della ricchezza mondiale, la somma del valore di tutti i beni, pubblici e privati, di tutta la liquidità detenuta, di tutti i brevetti, di tutte le aziende, di tutti i terreni etc etc è stimato in circa 260.000 miliardi di dollari. Più compattamente, 260 trilioni. Negli ultimi dieci anni è aumentata, sopratutto grazie all’andamento delle borse, di circa 60 trilioni di euro e si stima che continui a crescere, se le cose vanno bene, di circa un 3.8% all’anno, nei prossimi 5 anni, toccando quindi i 340 triliardi di dollari nel 2022. Nel frattempo, se anche il debito continua a crescere come nell’ultimo anno, ovvero ad una velocità multipla rispetto alla ricchezza, saremo arrivati ad una cifra simile, 313 triliardi di euro. Negli anni immediatamente successivi avverrà il sorpasso.

In pura, quanto grossolana, teoria, NESSUNO AL MONDO POSSIEDERA’ PIU’ NULLA.

Infatti il debito procapite supererà la ricchezza procapite.

Il possesso di qualcosa, di qualunque cosa, sarà del tutto provvisorio, appeso alla possibilità di ripagare questo debito.

A quel punto quindi, i nuovi debiti NON potranno essere basati su beni reali, o, per meglio dire, l’intera ricchezza esistente al mondo non basterà a ripagare, ovvero garantire, i debiti contratti, mentre la NUOVA ricchezza creata non sarà in grado di coprire i nuovi debiti. Lo stato di insolvenza sarà certo ed assoluto, l’intero Schema collasserà, al primo stormire di foglia.

E’ bene chiarire che questo è uno scenario ottimistico; positivo. POSITIVO. ripeto. Perchè si basa su ipotesi di crescita tutte da dimostrare e sull’assenza di sconquassi non previsti. Le cose, infatti, potrebbero andare a rotoli più velocemente di così.

La tempistica esatta, ovviamente non ci è nota, come non è mai nota, per le infinite variabili, per ogni schema Ponzi che si rispetta. SE fosse prevedibile, ovviamente, per il fatto stesso di esserlo, sarebbe già avvenuta. Basta infatti che anche solo una piccola percentuale degli aderenti senta puzzo di bruciato e si comporti di conseguenza per far collassare il sistema.

Per analogia, questa volta basterà il collasso di un sufficiente numero di istituti di credito, generato da una crisi qualunque, che porterà all’impossibilità di esigere, per i più vari e comprensibili motivi, una quota consistente dei propri prestiti, per fare da innesco, da miccia, alla deflagrazione. Se quindi la tempistica non è certa, è però certa la caratteristica sostanzialmente truffaldina della sedicente crescita mondiale che ci millantano da tanti anni.

Di solito l’obbiezione regina a queste considerazioni sul debito è grossolana quanto, sostanzialmente, falsa:

“il debito di uno è il credito di un altro”. Quindi, secondo questa affermazione, non esiste problema: le due partite si chiudono, per necessità, in pareggio. Peccato che la parte che concede un prestito e quella che lo riceve NON sono simmetriche. Non si tratta di due cittadini che si scambiano vicendevolmente promesse ma di due diverse e non intercambiabili parti della Società.

L’una infatti, ha l’incarico di RIPAGARE i prestiti, con la propria attività CREATRICE di ricchezza, l’ altra di valutare i beni posti a garanzia del prestito, basato sui risparmi di cittadini ed imprese consimili al richiedente e, di conseguenza non dovrebbe fare prestiti senza le suddette e senza che le suddette, come noi comuni mortali sappiamo benissimo, siano almeno un ragionevole multiplo del prestito stesso.

Questo, lo dicono con assoluta evidenza le cifre anzidette, non è successo, non succede e non succederà, macroscopicamente, su scala mondiale. Vengono fatti decisamente MOLTI più prestiti di quanto sia possibile e di conseguenza i risparmi , ovvero la ricchezza accumulata dal sistema viene sistematicamente distrutta, in quanto, come abbiamo visto, i beni creati non sono in grado di tenere il passo con i debiti generati.  Di conseguenza, il collasso dell’una quindi, NON si traduce nella ricchezza dell’altra. La somma zero esiste solo nella bacata testa degli economisti che la propugnano e degli analisti che ci ricamano sopra scenari con la consistenza delle armate di Hitler, nei giorni del bunker della cancelleria.  ( una redutio ad Hitlerum ci sta sempre bene).

In ogni caso, alla fine, SE si arriverà davvero alla fine, diventerà TUTTO degli istituti di credito. Infatti una economia al collasso porterà alla fine all’escussione di tutti i i beni posti a garanzia, alla svalutazione di quelli non posti a garanzia, al blocco e scomparsa dei conti correnti, alla ipersvalutazione dovuta alla necessità di mantenere flussi finanziari vitali da parte degli stati centrali…

Gli istituti sopravvissuti o, più probabilmente, lo stato che gli sarà subentrato per “salvare i salvabile”, diventeranno proprietari di milioni di beni immobili, aziende macchinari brevetti… e non sapranno che farsene, per mancanza di strutture gestionali, di cultura “imprenditoriale”, e, sostanzialmente, di un mercato residuo che valorizzi i beni stessi, permettendo un recupero di liquidità che possa essere rimessa in circolo. Le partite si annulleranno, è vero, ma il risultato finale sarà quello di cancellare i risparmi di intere generazioni, insieme a chi li ha cosi mal gestiti.  Niente risparmi, Tutto statalizzato o in mano ad enti nazionali o addirittura sovranazionali, economia di sussistenza….

Sarà uno strano socialismo senza socialismo, sarà una situazione non voluta, non prevista non teorizzata e non preventivata.

Oppure sarà peggio, sarà un collasso generale. NON c’e’ bisogno che vi dica che, come ci urlano alcune migliaia di anni di storia, questo è lo scenario di gran lunga più probabile, con contorno di “guerre di alleggerimento e distrazione”.

Tutto considerato, alla fine il picco del petrolio non arriverà per la fine del petrolio. Avverrà per la fine dei soldi.

Niente più crediti, niente più debiti e niente più soldi, creati dal niente per alimentare la folle macchina in corsa verso il baratro.

Se il denaro è sostanzialmente creato a debito e se stiamo raggiungendo il limite FISICO dei debiti realisticamente sottoscrivibili, stiamo forse raggiungendo il picco del denaro.

Forse, fra i tanti picchi di cui noi catastrofisti ci siamo finora occupati, questo dovrebbe essere quello che dovremmo seriamente affrontare, visto che impedirà una gestione decente ed ordinata di tutti gli altri ( necessario eufemismo finale).

Siria: guerra 4.1

di Jacopo Simonetta

In Siria è cominciata una nuova fase di una guerra che sembra voler durare ancora parecchi anni.  In Iraq stanno ancora decidendo con chi ammazzarsi al prossimo giro.   Secondo le migliori tradizioni locali, la situazione è caotica e continuamente cangiante.  Le tabelle qui riportate sono quindi necessariamente molto  approssimative.

Riassunto molto schematico delle puntate precedenti.

Iraq

Qui ci occuperemo della Siria, ma un cenno all’Iraq è necessario.
La guerra in Iraq cominciò nell’ormai remoto 2003 con l’invasione americana e, fra alterne vicende, è ancora lontana dall’essere conclusa.  Qui ci interessa che, nel 2014, la guerra civile irachena e quella siriana si saldarono in una guerra unica per il dilagare dell’ISIL in entrambi i paesi.  Anche in Iraq il “califfo” riuscì a far coalizzare tutti contro di lui, ma con giochi di alleanza diverse dal teatro siriano.  Ad esempio, la Turchia nemica dei curdi in Siria, ne è alleata (in parte) in Iraq; mentre l’Iran è arcinemico degli USA su tutti i fronti, meno in Iraq dove finora sono stati alleati.
Altra peculiarità irachena è che ci sono due partiti e due milizie curde che fanno capo ai due clan principali: i Barzani ed i Talabani (che non c’entrano niente con i talebani afghani).   I Barzani hanno commesso l’errore fatale di dichiarare l’indipendenza del Kurdistan iracheno, ottenendo il risultato di inimicarsi prontamente tutte, ma proprio tutte le altri parti in causa.
I Talabani, hanno reagito consegnando senza combattere la città ed i campi pozzi di Kirkuk ai governativi, pare in cambio di un accordo secondo cui il territorio curdo rimane formalmente sotto il controllo di Baghdad, ma è di fatto indipendente.  Come del resto è stato dal 2003 ad oggi.
Un successivo attacco dei governativi verso Ebril è stato respinto e, per ora, non è successo altro di importante, ma è chiaro che la guerra non è finita.  Semplicemente i vari contendenti devono riprendere fiato e decidere contro chi combattere.

Il verde indica buoni rapporti, il giallo sostanziale indifferenza ed il rosso ostilità, ma entrambe le tabelle sono molto approssimative perché per ogni incrocio sarebbe necessario un lungo discorso.  Ad esempio, non sono confrontabili l’ostilità della Turchia nei confronti di Israele o dell’Iran, che si imita alla freddezza nei rapporti diplomatici, a quella verso i curdi siriani, sotto attacco militare.

Siria

Prodromi.  La Sira ha sempre sofferto di violente divisioni interne che hanno portato più volte a rivolte  contro la minoranza alawita  al potere.  Tutte rapidamente sedate con alcune migliaia di morti.  Su questo retroterra storico, negli anni 2000 si sono innestati due fatti nuovi: una siccità senza precedenti e il calo della produzione petrolifera al di sotto dei consumi interni.  Questi due fattori hanno fatto precipitare la situazione in tutto il paese.

La fase 1 cominciò nel 2011, con una serie di manifestazioni scatenate da un’ondata di rincari dei generi di prima necessità.  La repressione del regime fu pronta e feroce, ma le proteste si diffusero a gran parte del paese in un crescendo di violenza che divenne guerra civile.  Gli USA cercarono di cogliere l’occasione di intervenire per sostituire Assad con un governo loro tributario, ma non poterono per il veto di Russia e Cina.  Così ripiegarono sul sostegno a diverse milizie ribelli, perlopiù raccolte sotto l’etichetta di ESIL (alias FSA) che, in realtà, riuniva centinaia di milizie perlopiù autonome.  I combattimenti si diffusero a gran parte del paese, mentre gradualmente emergeva come forza ribelle principale Al Nousra: una costola di Al Qaida che conquistò parecchio territorio sia a spese dei governativi, sia a spese di altre formazioni ribelli.

La fase 2 cominciò nel 2014, con la repentina apparizione dell’ISIL (alias ISIS, alias DAESH). Molto rapidamente gli “uomini neri” divennero la forza principale in campo, sconfiggendo ripetutamente sia i governativi che gli altri gruppi ribelli.  Fra l’altro, in questa fase di rapida espansione, l’ISIL conquistò molte posizioni all’ESIL, impossessandosi degli arsenali forniti dagli USA e dagli altri paesi occidentali.
La rapidità e la violenza con cui l’ISIL si impose non è spiegabile altrimenti che con un fortissimo sostegno da parte di una potenza straniera  ed il candidato più probabile è l’Arabia Saudita, magari con il sostegno delle altre petrocrazie sunnite.  Il ruolo attivo della Turchia è più dubbio, ma di sicuro questa non ha mai attaccato seriamente DAESH, se non quando questo era già stato sconfitto e solo per contrastare l’avanzata dei curdi.
Questa fase culminò con la nascita del Califfato.   Un errore strategico mortale che costò la sconfitta e (probabilmente) la vita ad al Baghdadi.  Proclamarsi califfo significa infatti rivendicare un potere diretto su tutti i governanti islamici del mondo. Una cosa dura da digerire anche per i suoi occulti sostenitori che, infatti, cominciarono a sostenerlo sempre di meno.

La fase 3 cominciò fra il 2015 ed il 2016.  Prima con il progressivo rafforzamento dell’intervento occidentale e poi con quello, indipendente ma coordinato, della Russia e dell’Iran.   Gli attentati a Parigi e a Tartus (base russa in Siria), oltre alle atrocità gratuite (commesse anche dagli altri contendenti, ma in maniera meno sistematica e spettacolare) portarono ad una serie di accordi fra la coalizione USA, la Russia, la Turchia e l’Iran.  La guerra di “tutti contro tutti” delle fasi precedenti diventò così una guerra di tutti contro l’ISIL che ne uscì sconfitto, ma non ancora annientato.
Da questa fase i principali vincitori locali sono stati i governativi di Assad ed i curdi. Ma se Assad ha recuperato i due terzi circa del territorio, ha però perso buona parte del suo potere a favore dell’Iran che, tramite Hezbollah, controlla parti strategiche del paese e dal cui sostegno dipende in buona misura la tenuta del governo.
I principali vincitori internazionali sono stati l’Iran (che oramai controlla di fatto parte del territorio siriano), la Russia (che ha rafforzato le sue basi e recuperato un ruolo politico di primo piano nel settore) e gli USA (tramite l’alleanza con i curdi che controllano circa 1/3 della Siria).

La fase 4 è appena cominciata con una sorpresa. Molti si aspettavano una “resa dei conti” fra i governativi sostenuti dall’Iran ed i curdi sostenuti dagli USA, ma la Turchia è intervenuta a sparigliare le carte, attaccando direttamente il territorio curdo.
Nel frattempo, continuano i cobattimenti ed i bombardamenti dei governativi conto le sacche di resistenza in varie parti del paese, così come gli attentati terroristici.

Sviluppi?

In Iraq l’incognita principale riguarda il Kurdistan.  L’unica cosa che trova d’accordo i governi di Turchia, Iran ed Iraq è infatti evitare la nascita di uno stato curdo.  Proprio per questo, gli americani hanno interesse a sostenerlo, ma si trovano in una fase di debolezza politica senza precedenti da cento anni a questa parte.  ”America first”, nell’arena politica globale, è di fatto “America Last” ed i curdi potrebbero pagarne il prezzo.   Inoltre, rimane da vedere se i Barzani ed i Talabani troveranno un accordo  o se combatteranno fra loro; entrambe le ipotesi sono possibili.
Infine, non si parla più della robusta minoranza sunnita che per decenni ha governato il paese (per inciso, anche i curdi sono sunniti, anche se il loro governo è comunista).  E’ già stata sconfitta due volte, ma non è detto che, fra qualche tempo, non ritenti una rivincita.

In Siria, l’attacco turco non solo rimette in discussione tutto il già complicato sistema di alleanza ed inimicizie tra fazioni siriane, ma rimette gravemente in discussione anche i rapporti di alleanza (già molto tesi) fra NATO e Turchia.  Oltre che aprire scenari di una possibile guerra civile in Turchia.

Anche i questo caso, la debolezza americana gioca contro i comunisti curdi che si trovano sostanzialmente soli, ma la politica mediorienatale ci ha abituati alle sorprese.  Per esempio, non è da escludere un accordo fra curdi e governativi per uno status di indipendenza sostanziale, ma non formale.  E se, nel frattempo, la NATO decidesse che della Turchia non c’è più da fidarsi, la posizione di Erdoghan diventerebbe molto spinosa.  Vedremo. Personalmente credo che molto dipenderà da quanto l’offensiva turca miri davvero ad occupare tutto o gran parte del Kurdistan siriano.  Probabilmente, alla NATO stanno discutendo quanti chilometri di Siria concedere all’alleato (ex alleato?).  Non è da escludere che si tratti in gran parte almeno di un bluff in vista delle prossime elezioni che si presentano particolarmente difficili per il “sultano”.

Di tutti gli scenari possibili, il peggiore è infatti quello di un dilagare della guerra in Turchia. In cerca del sostegno dei nazionalisti, Erdogan ha infatti fatto di tutto per rilanciare la guerriglia interna del PKK, ma i curdi turchi sono 18 milioni.   Inoltre, anche se l’epurazione contri i kemalisti ed i goulemisti è stata pressoché totale, ad Istambul e nelle città occidentali la popolarità di Erdogan è ai minimi storici, mentre il suo primato è insidiato anche da destra da Meral Akşener (leader di un nuovo partito nazionalista laico, assolutamente contrario all’islamizzazione voluta dal “sultano”).   Erdogan potrebbe perdere le elezioni, ma potrebbe anche vincerle, con o senza brogli evidenti.  In tutti i casi, la possibilità di una parziale implosione della Turchia non può essere esclusa.
Le conseguenze sarebbero devastanti anche per l’Europa, non solo per la definitiva perdita del bastione medio-orientale, ma anche perché una parte consistente degli 80 milioni di turchi (più 3,5 milioni di rifugiati siriani) cercherebbero riparo da noi.  Abbiamo già deciso cosa fare e come in un caso simile?   Se no, sarà il caso di pensarci.

 

 

Pillole demografiche – Italia e Nigeria.

di Jacopo Simonetta

Concludiamo la nostra carrellata con due paesi molto diversi.  Per le pillole precedenti si veda (qui, quiquiqui e qui).

Italia.

Per prima l’Italia, che a prima vista si presenta come un caso paradigmatico di “transizione demografica”; ma ad un più attento esame forse non del tutto.

fig.1. Demografia italiana. Purtroppo la qualità della figura è pessima, ma rimane leggibile sapendo che il grafico va dal 1860 al 2016; la linea rossa rappresenta i morti e quella azzurra i nati.

Semplificando al massimo, nei primi 40-50 di unità nazionale, sono andate aumentando sia la natalità che la mortalità, con un saldo attivo piuttosto ridotto.  Poi c’è stata una lunga fase di lieve calo della natalità, ma ancora maggiore della mortalità.  Dunque un saldo attivo molto maggiore, ma in gran parte assorbito dall’emigrazione, il che spiega anche il rapido calo della mortalità. (v. fig. 2).
Poi ci fu il duplice disastro della “grande guerra” e, subito dopo, della “spagnola”.   Da notare che in questo, come in moltissimi altri casi, durante la fase acuta della moria anche la natalità è crollata, per rimbalzare subito dopo ad un livello leggermente superiore a quello precedente la crisi.  Interessante è anche osservare che, malgrado le politiche fortemente demografiche di Mussolini, durante il “ventennio” la natalità diminuì più rapidamente della mortalità, pur restando il saldo in campo ampiamente positivo. Quindi ci fu un doppio picco positivo di natalità a cavallo del picco negativo corrispondente alla 2a Guerra Mondiale (che fece molte più distruzioni, ma meno morti della prima, malgrado i bombardamenti l’olocausto, le rappresaglie, ecc.).
Poi, e questo è molto interessante, una netta depressione durante la ricostruzione degli anni ’50 e quindi un ripido picco positivo, in corrispondenza di quei mitici e ultra-ottimisti anni ’60 che ancora ci ossessionano.  Coi primi anni ’70 (maggiori diritti alle donne e diffusione del femminismo, ma anche primo sensibile intoppo sulla via della crescita), iniziò il graduale calo della curva fino a quota di mantenimento alla metà degli anni ’90 (al netto dell’immigrazione che ha mantenuto un saldo attivo della crescita demografica complessiva).  Tutto considerato, il picco storico di natalità è stato ai primi del ‘900, seguito da un altalenante declino.
Viceversa, considerando anche il saldo migratorio, il massimo storico di incremento demografico è invece quello che stiamo vivendo da 15 anni a questa parte.

Fig. 2. Demografia italiana saldo naturale (linea grigia) e saldo migratorio (linea nera).

L’ultima notazione rilevante è questa: la crisi mai finita del 2008 si è finora accompagnata sia un lieve aumento della mortalità, sia una lieve diminuzione della natalità. Non è detto che entrambi i parametri siano direttamente correlati ai dati economici.  Anzi, sicuramente, diversi fattori concorrono a questo risultato, ma è interessante che ciò sia esattamente il contrario di ciò che prevede la “Teoria della Transizione demografica”.
Comunque, bisogna tener ben presente che si tratta di una fluttuazione ancora troppo lieve e troppo recente per poter dire se si tratta di “rumore” o di una tendenza strutturale.

Se ora diamo un’occhiata alla struttura della popolazione italiana, vediamo che innegabilmente abbiamo un problema di “bubbone senile” in rapido arrivo.  E’infatti  innegabile che una società con più vecchi che giovani abbia dei problemi drammatici.  Dunque (escludendo, spero, l’ipotesi di una mattanza degli “over-50”), vediamo le strategie possibili.

1 – Rilancio della natalità.  La più sbagliata di tutte perché fino a 20 anni (minimo) i giovani italiani sono improduttivi, non foss’altro perché vanno alla scuola dell’obbligo.  Ipotizzando quindi di lasciare fermi gli altri fattori (che in realtà cambiano sempre e comunque), aumentare la natalità significherebbe essere rapidamente stritolati nella morsa di un duplice “bubbone”: troppi vecchi e troppi bambini contemporaneamente sulle spalle di troppo pochi adulti (quelli che oggi sono ragazzi).  Inoltre, ciò non farebbe che accrescere il dramma della sovrappopolazione locale e globale.

2- Favorire l’immigrazione.  E’ la scelta che è stata fatta.  E’ già meno stupida della precedente perché non aggiunge bocche al desco globale; ma le aggiunge comunque a quello nazionale che è già in affanno, specie fra i bassi ranghi dei commensali.   Inoltre, la pratica dovrebbe aver ormai dimostrato che le difficoltà di integrazione aumentano in misura più che proporzionale coi flussi.  In parole povere, se effettivamente un modesto flusso di immigrati può rappresentare un vantaggio, flussi imponenti come quelli verificatisi negli ultimi 15 anni sono ampiamente in grado di costituire la proverbiale “goccia che fa traboccare il vaso” in società già ampiamente fragilizzate da altri fattori.

3 – Ristrutturare la società adattandosi al fatto che, mediamente, saremo sempre più poveri.  Ciò rappresenterebbe un compito immane che dovrebbe investire ogni aspetto, a cominciare dal taglio dei redditi eccessivi al fine di rendere accettabile il loro stato ai poveri.  Poi bisognerebbe organizzare un sistema di “welfare” minimale, sostenibile con fondi decrescenti e quindi puntando sulla ricostituzione delle reti sociali autonome.  Ma occorrerebbe anche piantarla di raccontare balle razziste e/o buoniste per, finalmente, spiegare cosa sta accadendo e perché.  I passaggi dolorosi ed indispensabili sarebbero moltissimi e la crisi sarebbe grave, ma temporanea (pochi decenni).

Nigeria.

La Nigeria è il paese che più di tutti si presta ad illustrare l’esplosione repentina delle “bomba demografica”.  In appena 50 anni la sua popolazione è triplicata e continua a crescere ad un vertiginoso tasso vicino al 3% annuo.Le conseguenze sono state complesse.  Anche se molti acclamano il vertiginoso aumento del PIL del paese, la devastazione pressoché totale degli ecosistemi ha provocato la disintegrazione degli equilibri sociali e delle società tradizionali, con un tasso di inurbamento fantastico sia per dimensione che per velocità. Guerre locali, terrorismo, corruzione ad ogni livello, disoccupazione alle stelle e molto altro completano un quadro che sta già contribuendo a destabilizzare una bella fetta di mondo. Come se non bastasse, una situazione politico-sociale molto instabile all’interno di un paese ricco di risorse minerarie non può che essere un potente attrattore per speculatori privi di scrupoli da tutto il mondo.
La metà della popolazione ha meno di 17 anni e i due terzi vive in completa miseria, ma ciò nondimeno diverse ricerche internazionali hanno classificato il Nigeria come uno dei paesi più ottimisti del mondo.  Nel senso che la stragrande maggioranza delle persone, ad onta di ogni difficoltà e disgrazia, ha grandi progetti per un futuro che immaginano molto migliore del presente.
Questa è probabilmente una delle due principali ragioni per un calo così lento della natalità, in un ambiente così ostile per la grande maggioranza dei cittadini.  L’altro è che la larghissima maggioranza dei nigeriani sono cattolici o mussulmani, molto convinti e credenti in entrambi i casi.

Fig. 3 previsioni demografiche ufficiali per i 7 paesi più popolosi del mondo; la linea rossa rappresenta la Nigeria.

Come andrà nei prossimi decenni?  Impossibile a dirsi, ma di sicuro la proiezione demografica ufficiale è la meno probabile di tutte.  Anche tenendo conto che l’impronta ecologica è un parametro parziale, non c’è dubbio che la popolazione attuale abbia già ampiamente superato la capacità di carico del Paese da decenni.
Che la popolazione ed i consumi possano crescere ancora per molti anni non si può escludere a priori (il mondo reale è sempre ricco di sorprese), ma diciamo che è perlomeno molto improbabile.
Finora l’emigrazione di una molto modesta percentuale della popolazione complessiva (ma consistente della classe media) è stata sufficiente ad evitare il collasso del paese, ma situazione peggiorerà molto rapidamente e qualunque evento capace di fermare un simile impulso sarebbe (sarà?) qualcosa di “biblico” che coinvolgerà il mondo intero.
Faremmo bene a pensarci e ad prepararci, nei limiti del possibile..

PILLOLE DEMOGRAFICHE – Russia

di Jacopo Simonetta

Riprendiamo la nostra carrellata con un altro dei paesi più importanti: la Russia.  Per le pillole precedenti si veda (qui, quiqui e qui).

Se osserviamo la tendenza di lungo periodo, vediamo che la popolazione russa è cresciuta in modo esponenziale a partire dal 1500 circa, invadendo e colonizzando gradualmente l’Asia centrale e Parte dell’Europa orientale.   Un processo che raggiunse il culmine durante il XIX secolo, per poi rallentare anche a causa delle due guerre mondiali.  Parimenti disastrose sul piano demografico, ancorché di segno opposto su quello geopolitico.   La prima segnò infatti la fine dell’Impero Russo, la seconda la nascita di quello Sovietico.

Per quanto riguarda il secondo dopoguerra, il tasso di accrescimento della popolazione calò rapidamente, a fronte di un tasso di mortalità che è calato fino alla metà degli anni ’60, per poi tornare a crescere leggermente. Il netto rallentamento della crescita demografica fu dunque dovuto soprattutto ad un forte calo della natalità e, secondariamente, ad un modesto aumento della mortalità.  La cosa qui interessante è che ciò è avvenuto durante il periodo di massima espansione economica e politica dell’URSS.
Già questa una situazione che non coincide con la teoria, secondo cui la crescita economica dovrebbe causare prima un aumento e poi una stabilizzazione della popolazione.

Dal nostro punto di vista, è però ancora più interessante ciò che è accaduto dopo.
Il collasso dello stato sovietico, con la gravissima crisi economica che lo accompagnò, iniziò infatti alla metà degli anni ’80. Puntualmente segnato non solo da un balzo della mortalità (come c’era da aspettarsi), ma soprattutto con un ulteriore sdrucciolone della natalità, che raggiunse il minimo storico durante il decennio 1995-2005.  Per poi riprendersi, ma solo in parte, a fronte di una migliorata situazione economica e di una maggiore stabilità politica.  Un fatto questo molto importante perché diametralmente opposto alle previsioni fatte in base alla teoria.  Ed un fatto ulteriormente confermato negli ultimi anni.  Ma vediamo meglio che cosa è successo.

“A stato Putina”


Invece no.   Il periodo nerissimo dell’economia russa corrisponde, approssimativamente, alla presidenza di Boris Yelstin.  Ma la brusca ripresa della crescita economica avvenne fra il 1998 ed il 1999; cioè mentre Yelstin era ancora presidente e Putin era capo dell’ FSB (ex KGB) .  Dunque le politiche economiche non erano di sua competenza.  In effetti, le cause del rimbalzo siano state indipendenti dall’operato di Putin.  Tuttavia è probabile che, come capo dei servizi segreti, abbia avuto modo di ostacolare il saccheggio allora in corso da parte delle imprese occidentali, appoggiate dalla mafia locale.  Si occupò infatti di riportare sotto il controllo del governo le principali cosche mafiose, cosa che gli detto anche  modo di avviare la costruzione di quella rete di oligarchi miliardari che a tutt’oggi costituisce l’ossatura della politica russa.   Nel 1999, Putin (diventato nel frattempo primo ministro) fu anche colui che decise di invadere la Cecenia (allora semi-indipendente) e chiudere così la partita con il terrorismo islamista che, dallo staterello caucasico cominciava ad estendersi in altre regioni (la seconda guerra cecana fece tra i 25.000 ed il 50.000 morti secondo le stime).
Comunque, diventato presidente nel 2000, Putin stabilizzò per alcuni anni il tasso di crescita economica e ricostruì un apparato statale funzionante, ma con due problemi strutturali molto profondi.  Il primo è che l’economia russa post crisi dipende totalmente dalle esportazioni di gas e di petrolio.  Il picco del primo è alle spalle da un pezzo (fine anni ’80) e quello del secondo è probabilmente circa adesso (ma è troppo presto per esserne certi).

Il secondo problema è strettamente correlato col primo ed è l’estrema concentrazione della ricchezza in pochissime mani; un dato in tendenza con il resto del mondo, compresi UE e USA, ma molto più elevato.  Entrambi questi fattori hanno giocato un ruolo determinate nello sviluppo della crisi, prima economica e poi politica, in cui anche la Russia si dibatte dal 2007.


Dal punto di vista demografico, il risultato è che durante il primo decennio circa dell’ “era Putin” la natalità è tornata a salire e la mortalità a scendere.  Mentre da quando l’economia ha ricominciato ad andare male, la natalità ha fluttuato a cavallo della parità con la mortalità.
Certo altri fattori influenzeranno la demografia russa, primo fra tutti l’immigrazione da alcune delle repubbliche ex sovietiche;  consistente soprattutto negli anni di relativa crescita economica.
Ciò nondimeno, a Mosca sono molto preoccupati, tant’è vero che da alcuni anni il governo sta portando avanti politiche decisamente nataliste sempre più martellanti, appoggiandosi sui sentimenti patriottici e religiosi della maggioranza dei russi, ma pare che per ora i risultati siano scarsi.

Nella prossima puntata parleremo dell’Italia.

 

Per chi vuole saperne di più sul “quadro d’unione” fra i vari termini della crisi sistemica in corso:
https://luce-edizioni.it/prodotto/picco-capre-libro-crisi-collasso-simonetta-pardi-vassallo/

 

Pillole demografiche 4 – La bomba demografica è scoppiata, e ora?

di Jacopo Simonetta

Nelle pillole scorse (qui, qui e qui) abbiamo dato un sommario sguardo alla teoria della transizione demografica e ad un paio di casi reali, non molto in linea con essa.   Prima di proseguire questa carrellata con alcuni altri esempi, propongo una pausa di riflessione per discutere un interessante articolo recentemente apparso sull’autorevole rivista “Proceedings of the National Accademy of Sciences of the United States of America” (abbreviato PNAS) dal titolo “La riduzione della popolazione umana non è un rimedio rapido per i problemi ambientali“.
Raccomandando a chiunque di leggere l’originale, tirerò per prima cosa le somme di questo lavoro, per poi fare cenno a cosa manca.  Lacune peraltro dichiarate e spiegate nell’articolo stesso.

Quello che dice

L’articolo si compone di tre parti.   Nella prima gli autori hanno testato mediante dei modelli matematici quali effetti demografici avrebbero riduzioni nel tasso globale di natalità, ferme restando le altre condizioni (tasso di incremento della aspettativa di vita media e saldo migratorio zero – ovviamente visto che si tratta di proiezioni a livello globale).   Il risultato era abbastanza scontato: riduzioni anche estreme, tipo un solo figlio per donna come media mondiale, avrebbero effetti trascurabili nell’immediato e modesti nel giro di decenni; mentre diventerebbero molto importanti dopo una settantina di anni. Nella fig. 1 si riassumono gli scenari delineati, come si vede solo lo scenario 4 (declino della natalità ad un solo figlio per donna a partire dal 2045 e aspettativa di vita media costante sui valori del 2013) comporterebbe un sensibile rallentamento della crescita in tempi brevi e una  riduzione della popolazione a 4 miliardi di persone al 2100.  In compenso, proiettando i risultati su tempi appena più lunghi (2130) si vedrebbero risultati abbastanza sconvolgenti (fig. 2).

 

Una seconda serie di prove ha testato l’effetto che avrebbero catastrofi bibliche, in grado di spazzare via miliardi di persone nel giro di pochi anni.   Ebbene, qualcuno sarà sorpreso, ma il risultato è che avrebbero un impatto trascurabile.  Perfino un ipotetica pandemia che sterminasse 2 miliardi di persone non ridurrebbe gran che la popolazione sui tempi lunghi.  Una catastrofe da 6 miliardi di morti nel 2040 significherebbe comunque oltre 5 miliardi di persone nel 2100.  Ovviamente nell’ipotesi che, nel frattempo, i parametri di natalità e mortalità restassero quelli attuali.
Il risultato è teorico, ma attendibile. Per citare un solo caso, il XX secolo è stato quello che ha visto la maggiore crescita demografica della storia della nostra specie, ad onta di un’infinità di guerre fra cui le due più terribili di sempre, epidemie carestie assortite, nonché Hitler, Stalin, Mao e vari loro imitatori.

Infine, gli autori hanno ripartito il mondo in 14 regioni dal comportamento demografico relativamente omogeneo ed hanno confrontato questa ripartizione con la distribuzione delle zone in cui si trovano i massimi livelli di biodiversità a livello globale.  Ne è risultato un quadro abbastanza fosco, con la situazione peggiore di tutte in Africa; continente in cui l’altissima crescita demografica sta comportando una distruzione particolarmente rapida di biodiversità

Nelle conclusioni, si afferma quindi che occorre assolutamente rilanciare a tutti i livelli le politiche di controllo e riduzione delle nascite, ma che questo sarà inutile se, contemporaneamente, non si ridurranno drasticamente i consumi pro-capite che, negli ultimi decenni, sono invece aumentati ben più rapidamente della popolazione.
Una conclusione corretta, ma incompleta.

Quello che non dice

Per quanto riguarda la prima parte del lavoro, la principale lacuna, peraltro dichiarata, è il tasso di mortalità.  Gli autori hanno cioè indagato gli effetti sia di una catastrofe biblica che di modeste variazioni nella natalità e nella mortalità infantile.  Ma non le conseguenze di un incremento di uno o due punti percentuali nella mortalità degli adulti.   In altre parole, si è dato per scontato che l’attuale tendenza all’incremento dell’aspettativa di vita prosegua secondo la tendenza attuale; oppure che si stabilizzi.  Ma non si è presa in considerazione l’ipotesi di una sua riduzione sul lungo periodo.   Come se l’aspettativa di vita fosse indipendente dall’evolvere delle condizioni economiche, ambientali e sociali.
Dunque, invece di immaginare pestilenze globali e guerre nucleari, proviamo semplicemente ad ipotizzare che quella “stagnazione secolare” di cui parla l’FMI gradualmente coinvolga tutte le principali economie del mondo.   Significherebbe il diffondersi e moltiplicarsi di situazioni analoghe a quelle già viste nell’ex URSS (v. pillola prossima ventura) durante gli anni ’90 o, attualmente, in parecchi paesi anche occidentali;  pur senza arrivare alla gravità di situazioni come quella attuale in Venezuela.   Aggiungiamoci crisi umanitarie analoghe a quelle attualmente in corso, ma in un contesto di minori disponibilità di intervento da parte della comunità internazionale; poi una riduzione dei servizi sanitari gratuiti e l’effetto cumulativo dell’inquinamento.  Non appare fantascientifico ipotizzare un incremento del tasso di mortalità di 2-3 punti percentuali che, associato al proseguimento dell’attuale riduzione della natalità, comporterebbe il dimezzamento della popolazione in molto meno di un secolo.  E senza neppure scomodare il 4 cavalieri dell’Apocalisse.

Una seconda osservazione riguarda l’analisi relativa alle possibili grandi calamità.  Che, di solito, catastrofi repentine non abbiano impatti demografici duraturi è un fatto storicamente confermato. Anzi, a seguito di guerre ed epidemie, spesso si verificano significativi rimbalzi di natalità (v. il caso cinese pillola 2).   Tuttavia, sia gli esempi storici che i modelli matematici, riguardano popolazioni in crescita, colpite da momentanee catastrofi.   Dal momento che la natalità è fortemente influenzata da fattori sociali e psicologici (oltre che economici ed ambientali), non possiamo sapere che effetto avrebbe una calamità biblica su di una popolazione che è già in contrazione per altre cause.  La gente potrebbe infatti reagire in modo tradizionale, con un ritorno di natalità, ma potrebbe anche reagire in altro modo.  Tanto più che la morte di miliardi di persone, specie se in paesi industrializzati e specie se per causa bellica, si accompagnerebbe ad un tracollo irreversibile dell’economia globale.   Cosa che contribuirebbe a mantenere elevata la mortalità e (forse) a mantenere bassa la natalità anche ad emergenza finita.

Infine, per quanto riguarda la dinamica regionale, lo studio pubblicato su PNAS dichiaratamente trascura l’effetto delle migrazioni in quanto dipendente soprattutto da fattori politici e militari del tutto imprevedibili. Il che è vero, ma le migrazioni rappresentano il fattore demografico determinante nel mondo attuale e prossimo venturo.  Trascurarle significa girare largo da una mina politica, ma anche dal nocciolo della questione.

Lacuna eguale e contraria

Può essere interessante confrontare i risultati dello studio in questione con il blasonatissimo “Limiti della Crescita” (LdS).   Malgrado la veneranda età, questo rimane infatti ancora lo studio più completo disponibile, proprio perché centrato sull’interazione tra fattori economici, ambientali e demografici.   Inoltre, caso raro, le sue anticipazioni sono state finora sostanzialmente confermate dai fatti.  Eppure contiene un errore strutturale analogo, ma contrario, a quello dell’articolo sul PNAS.
Nel modello Word3 (cuore dello studio LdS) fu infatti incorporata la teoria della “Transizione demografica” che prevede, in caso di crescita economica, un calo sia della natalità che della mortalità cosicché la popolazione dapprima cresce e poi si stabilizza.  Viceversa, in caso di crisi economica grave e persistente, prevede un aumento di entrambe, sia pure con un prevalere della mortalità, cosicché la popolazione diminuisce lentamente.
Sulla base di ciò, LdS propone uno scenario base con l’inizio di una irreversibile contrazione economica fra il 2020 ed il 2030 circa, seguita da un picco demografico circa 10 anni più tardi, cui dovrebbe seguire una lenta decrescita.   Oggi sappiamo però che, almeno in molti casi, ad un peggioramento delle condizioni economiche e sociali fa riscontro sia un aumento della mortalità, sia un calo della natalità (v. ad esempio la Russia anni ’90).  Anzi, almeno in alcuni casi documentati (fra cui l’Italia) il calo della natalità si verifica già a livelli di crisi troppo lievi per provocare aumenti sensibili della mortalità.  Tornando quindi allo scenario BAU di Word3 (fig.4), sarebbe quindi perfettamente plausibile ipotizzare un calo della popolazione molto più rapido di quello indicato dalle curve, almeno in vaste regioni della Terra.   Personalmente, anzi, ritengo che questo sia lo scenario più probabile, anche se non azzardo profezie.

Tirando le somme

  • La bomba demografica ci sta scoppiando sotto il naso proprio ora ed ha appena cominciato a farci male. Il “meglio” deve arrivare ed arriverà. Su di una cosa gli autori dell’articolo sul PNAS hanno perfettamente ragione: non ne usciremo alla svelta. Qualunque scenario minimamente realistico indica oltre il secolo venturo un possibile ritorno entro densità umane forse sostenibili. Sempre che, nel frattempo, clima e biosfera non siano collassati perché, se ciò accadesse, l’estinzione della nostra specie potrebbe anche verificarsi.
  • Probabilmente, un’ipotetica ecatombe nucleare o d’altro genere non avrebbe effetti demografici duraturi, anzi potrebbe provocare un riflusso di natalità.
  • La popolazione non tenderà a stabilizzarsi, bensì a diminuire, ma non in modo omogeneo. Ciò, unitamente agli altri fattori (climatici, ambientali, politici ecc.), renderà la questione delle migrazioni uno dei temi su cui si giocherà la sopravvivenza delle società.   Quello che stiamo vedendo oggi non è che il “lieve vento” che precede la tempesta.

Che cosa ha senso fare?

Soprattutto evitare il “benaltrismo”.   Cioè lo scarica barile fra chi vuole fare una cosa e chi un’altra: se vogliamo sperare di controllare almeno in parte ciò che accadrà nei prossimi decenni, sono molte le cose che dovremo fare contemporaneamente.

Secondo me, le principali emergenze sono salvare il salvabile del clima e della biosfera, in modo che il pianeta sia ancora abitabile fra un secolo o due.   Dunque ogni forma di riduzione volontaria della natalità ha perfettamente senso ed i molti paesi è prioritario, ma darà dei risultati tangibili fra decenni e non possiamo permetterci di aspettare senza far altro.

Un secondo ordine di cose urgenti da fare riguarda quindi la riduzione dei finanziamenti alla vecchiaia per aumentare quelli alla gioventù.   In tutto il mondo occidentale e non solo, i vecchi possiedono la quasi totalità del capitale e la maggior parte dei redditi, oltre che beneficiare della principale fetta dei finanziamenti pubblici (sanità, pensioni, sgravi e sconti vari, ecc.).  Aveva senso quando i vecchi erano mediamente più poveri dei giovani, non ora che è il contrario.   Non dico che bisognerebbe uccidere qualcuno, dico solo che una società che si dissangua per prolungare di qualche mese la vita di un vecchio, anziché investire per preparare e far lavorare un giovane non intende durare a lungo.
Poi ci sono una serie di provvedimenti che potrebbero rallentare il peggioramento del clima ed il collasso della Biosfera a partire da subito.   In estrema sintesi, ridurre i consumi, ridurre i consumi e ridurre i consumi.   Quindi tutta una serie di interventi attivi per conservare la biodiversità, i suoli e l’acqua.
Infine, altro punto dolente: garantire entro i limiti del possibile la sicurezza delle proprie frontiere.  Il che non significa sigillarle (non sarebbe neppure possibile), ma significa avere un sostanziale controllo sui flussi in entrata ed in uscita.   Ma significa anche essere in grado di dissuadere i potenziali aggressori in un mondo in cui le guerre regionali si moltiplicano e si ricomincia a temere perfino una guerra globale.  Tutte cose che richiederebbero un drastico cambio di rotta non solo alla politica, ma soprattutto al nostro modo di pensare.   Per ora non pare che ne abbiamo.

 

Gli articoli parlano dei dettagli, i libri del quadro d’insieme.

“Da molti anni di riflessioni nasce “Picco per capre”, un libro scritto per persone che hanno voglia di capire cose di cui sentono parlare (cambiamento climatico, crisi ecologica, picco del petrolio, limiti della crescita, ecc.) e di cui intuiscono l’importanza, ma che non hanno né gli strumenti, né il tempo per affrontarle su testi tecnici o anche di divulgazione “alta”.
La capra non è stupida, solo un po’ ignorante e indaffarata a trovare le risorse per vivere.

Estratto dalla prefazione di Luca Mercalli. “Picco per Capre” cerca di spiegare in termini semplici situazioni e concetti complicati.

 

 

La Svizzera a 2000 Watt

di Jacopo Simonetta

Il 4 ottobre scorso il Movimento Decrescita Felice e l’Associazione Italiana Economisti dell’Energia hanno organizzato a Roma, in Campidoglio, un’interessante convegno dal titolo: “ Modelli per la valutazione dell’impatto ambientale e macroeconomico delle strategie energetiche” (qui il link al sito per consultare tutte le relazioni).
In una serie di articoli cercherò di riassumere le presentazioni, tutte molto interessanti sia per le cose che sono state dette, sia per le cose che sono state taciute. Per prima vorrei qui trattare quella che il 4 ottobre è stata esposta per ultima, dal dr. Marco Morosini, perché, pur non avendo un contenuto tecnico rilevante, ha un contenuto politico potenzialmente rivoluzionario.

Di che si tratta?

Società a 2000 Watt” è un’idea elaborata nel 1998 da due politecnici federali: quello di Zurigo (ETH) e quello di Losanna (EPFL). Adottata nel 2002 come linea-guida dal governo federale e diventata legge locale nel 2008 a Zurigo, sempre tramite referendum (78% di si). Nel 2016 è stata approvata dal parlamento federale e nel 2017 resa attuativa con referendum nazionale (58% di si). In sintesi si tratta di porsi un obbiettivo vincolante: entro il 2050, ridurre i consumi pro-capite di energia di circa 2/3 rispetto ad oggi, portando le emissioni di CO2 a una tonnellata a cranio all’anno.

Perché è importante?

“Ridurre i consumi e le emissioni” è un mantra che oramai abbiamo sentito tante volte da dare la nausea, perché questa volta potrebbe essere diverso? Per svariate ragioni che si possono così riassumere:
1 – Non si tratta di una generica indicazione o di una dichiarazione di buoni propositi, bensì di una legge dello stato che stabilisce un obbiettivo preciso entro un tempo dato.
2 – Non si usano concetti vaghi ed elastici come “sostenibilità”, mentre si usano termini precisi: “Società” – significa che coinvolge tutti i cittadini in cambiamenti sostanziali – e “2000 Watt” – una quantità precisa espressa mediante un’unità di misura conosciuta.
3 – Si specifica che gli interventi dovranno svilupparsi secondo un ordine preciso di priorità: Primo ridurre i consumi di energia, secondo aumentare l’efficienza, terzo incrementare il ricorso alle rinnovabili, quarto uscire dal nucleare.

apocalottimismo J. WattIl punto qualificante ed innovativo dell’intera faccenda è proprio che, per la prima volta in un documento governativo, si ha il coraggio di dire chiaro e tondo che gli obbiettivi non saranno centrati senza, per prima cosa, una diffusa adozione di stili di vita nettamente più sobri dell’attuale. Un fatto condensato con lo slogan “Fare meno con meno”, in contrasto con il “Fare di più con meno” di cui solitamente si parla. Insomma, dare finalmente la priorità alla Sufficienza sull’efficienza.
Naturalmente,  ben venga l’efficienza, ma solo in un quadro di riduzione programmata dei consumi finali; altrimenti non si farebbe che reiterare il perverso meccanismo che ha moltiplicato per 20 (circa) i consumi pro-capite dai tempi in cui Mr. Watt progettava le sue caldaie a vapore. E che ha finora vanificato qualunque tentativo di ridurre davvero le emissioni climalteranti.

Cambiare rotta

Finora, i tentativi di pianificare una reale riduzione dei consumi si sono puntualmente arenati su tre secche ideologiche principali:

Secca 1 – “La riduzione della prosperità materiale non necessaria perché l’aumento di efficienza ridurrà il consumo energetico”. Solo in teoria, perché durante tutta la storia dello sviluppo industriale lo smisurato aumento nell’efficienza delle tecnologie ha comportato un aumento e non una diminuzione dei consumi finali. Può sembrare strano, ma è così.

Secca 2 – “La riduzione del consumo energetico non è necessaria se si userà il 100% di energie rinnovabili.” Falso per due ordini di motivi: il primo è che anche le energie rinnovabili hanno impatti ambientali spesso considerevoli, mentre richiedono materiali rari e processi industriali energivori. Il secondo è che ad oggi le energie rinnovabili coprono poco più del 10% del consumo globale (principalmente con l’idroelettrico che è la tecnologia più efficiente, ma anche più impattante). Non è realistico pensare di poter rendere maggioritaria questa percentuale senza ridurre di almeno 2/3 i consumi finali.

Secca 3 –“La riduzione del consumo energetico e della prosperità materiale non sono possibili perché sono inaccettabili per la popolazione e per l’economia”. E’ stato vero finora, ma se gli svizzeri riusciranno a portare avanti il loro progetto, avremo l’esempio di un’intera nazione che accetta una contrazione economica pur di ridurre il proprio impatto sul pianeta!

Se gli svizzeri riusciranno a centrare gli obbiettivi è presto per saperlo, ma questa volta sono partiti col piede giusto e davvero è già tanto.

 

PILLOLE DEMOGRAFICHE 3 – India

Dopo lunga pausa, riprendiamo le nostre pillole; per le precedenti puntate si veda qui e qui).

In un commento alla seconda pillola, un lettore attento ha fatto giustamente rilevare che i dati  trattati sono del tutto insufficienti per capire i fenomeni.  Per esempio, cita il fatto che la forma della piramide demografica può determinare un forte incremento demografico anche con una bassa natalità e che la ripartizioni in classi di età è critica dal punto di vista economico.  Tutto vero ed è perciò che questa serie di post è composta da “pillole”: vale a dire frammenti scollegati di un quadro ben più ampio e complesso.  Lo scopo è solo quello di stimolare la discussione e  prego perciò chiunque abbia da aggiungere osservazioni e informazioni di contribuire mediante altri commenti.

In questa terza puntata parleremo del secondo paese più popoloso del mondo: l’India

A partire dall’indipendenza (1947), il tasso di crescita demografica dell’India è andato crescendo, con un lungo e poco pronunciato picco durato praticamente 15 anni, fra il 1970 e la metà degli anni ’80.   Poi ha cominciato a declinare molto lentamente ed è ancora superiore a 1% che significherebbe, se durasse, raddoppio in meno di 60 anni.   Può sembrare poco, ma invece è moltissimo.   Nel frattempo, la crescita economica è proseguita con sostanziale costanza, ma il periodo migliore (dai dati ufficiali) è stato fra il 2000 ed il 2010.   Attualmente pare si sia impantanata, ma molti dicono che la crisi sia passeggera.

Una lettura classicista ci dice che, come da manuale, la crescita dell’economia è alla base del lento, ma apparentemente inesorabile calo della natalità indiana.   La natalità ha infatti cominciato a ridursi sensibilmente dopo il ’90; cioè  dopo un decennio in cui il PIL nazionale era più che triplicato e quello pro-capite raddoppiato.
In parte sarà certamente così, ma un altro ruolo importante lo giocano anche altri fattori, fra cui l’inurbamento e la disoccupazione.   Il modo rurale indiano è infatti caratterizzato da un’estrema miseria, in gran parte dovuta proprio alla crescita demografica che porta sempre più bocche su sempre meno terra.   Tuttavia, tradizioni culturali e sociali fortemente nataliste sono profondamente radicate, mentre la disoccupazione praticamente non esiste.   Su di un podere si può infatti rimanere senza mangiare, ma non senza lavoro.
Proprio per sfuggire alla miseria, un’aliquota crescente di giovani si trasferisce in città dove trova un mondo completamente diverso.  Da un lato i servizi, anche sanitari, sono molto migliori e dunque la mortalità è minore; dall’altro la disoccupazione è molto alta (10% circa della forza lavoro, secondo dati ufficiali molto ottimisti e malgrado una vivace emigrazione).   Aggiungendo le difficoltà di alloggio, la disintegrazione delle tradizioni culturali (nel bene e nel male) e tutto il quadro del disagio urbano, non c’è niente di strano che un numero crescente di giovani rimandi o rinunci a “mettere su famiglia”.

By by Cindia

Fig. 2 – Potere d’acquisto pro-capite, in % rispetto a quello americano

Qualcuno si ricorda di quando si parlava di “Cindia”?   In parecchi vagheggiavano un’alleanza strutturale fra questi due giganti che, uniti, avrebbero dominato il mondo.   Partiti praticamente insieme nel 1980, i due paesi più popolosi del mondo hanno invece seguito strade assai diverse e, ad oggi, la Cina ha vinto la corsa.   Certamente il fattore demografico non è stato l’unico in gioco, ma è stato importante.

L’India fu il primo paese del mondo ad adottare misure per la diffusione della contraccezione fin dal 1951, ma con scarsi risultati per l’estrema resistenza culturale e religiosa della popolazione.  Negli anni ‘70, mentre Mao lanciava politiche nataliste, in India il governo varava politiche decisamente contrarie, culminate con le famose sterilizzazioni forzate.   Ciò malgrado, mentre  fra il 1965 ed il 1975 il tasso di natalità cinese diminuì spontaneamente e precipitosamente,  in India continuò a crescere fino alla metà degli anni ’80, per poi calare molto lentamente.   Ciò ha permesso ai cinesi un sensibile aumento del reddito pro-capite fin dai primi anni ’80  e, quando nel 2001 la Cina entrò nel WTO, la sua popolazione era già quasi stabilizzata, seppure complessivamente giovane.   Una condizione ottimale per approfittare della situazione, con il più fantastico tasso di crescita economica mai visto nella storia umana.
Viceversa, la crescita demografica indiana ha continuato a assorbire parte della crescita economica fino ai nostri giorni, con un aumento del potere d’acquisto del cittadino medio che è meno della metà di quello dei cinesi.

Certamente in Cina non va tutto bene: tassi iperbolici di inquinamento di ogni genere, desertificazione, corruzione, abisso incolmabile fra i vincenti ed i perdenti della rivoluzione liberista (non liberale), eccetera.   Ma situazioni dello stesso genere, o perfino più gravi, flagellano un India che tenta di consolarsi raccontando a sé stessa che nel 2030 la marea montante della sua massa umana gli permetterà di surclassare definitivamente una Cina oramai invecchiata e declinante.
Molto poco probabile.   Intanto il Pakistan, che ha sempre mantenuto tassi di incremento demografico ancora più alti, si trova oggi in una situazione pressoché disperata.

 

Non chiamatela indipendenza

Un Panda Indipendentista dello zoo di Edinburgo è più libero?
Un Panda Indipendentista è più libero?

La Catalogna. Il referendum in Lombardia e Veneto. L’Inghilterra.

La Scozia. I fiamminghi. La Corsica. La Sardegna. La Toscana. … Tutti vogliono essere indipendenti. Da tutto. Da uno Stato fiscalmente oppressivo. da una Europa cinica bara ed ancora più fiscalmente oppressiva, dominata da una opaca burocrazia asservita a poteri ancora più opachi…Tutti sono convinti che, non appena diventeranno indipendenti, tutto andrà bene ed un nuovo e radioso avvenire splenderà nei loro cieli, finalmente liberi dal bieco oppressore. Straniero o meno che sia.

Balle.

Ad esempio, La Catalogna e La Scozia NON sarebbero affatto libere di esercitare la politica fiscale preferita, visto che entrambe vorrebbero rimanere dentro l’Europa. Peraltro, a parte le dichiarazioni recenti e apodittiche di Junckers, non è detto che ci riescano, perché in Europa non c’e’ Stato che non abbia le sue minoranze in attesa di una loro indipendenza e non si vuole aprire il vaso di Pandora più di quanto non si sia già aperto.

Il punto è che si sbagliano e di brutto, gli indipendentisti. Perché non avverrà alcuna grande rivoluzione fiscale, anche restando fuori dall’Europa e dall’Euro.

Ovviamente le nuove monete coniate sarebbero debolissime ed ovviamente, nel processo, i capitali scapperebbero, impoverendo le due regioni. Ovviamente, DOVREBBERO chiedere con il cappello in mano, di ottenere le stesse condizioni e gli stessi accordi commerciali in vigore attualmente in Europa e non è detto che le otterrebbero. Nel processo, l’economia non potrebbe che andare a rotoli, con buona pace della speranza di PAGARE MENO TASSE.

Perché, in tutte queste indipendenze, a parte qualche riverniciatura culturale, emerge sempre, chiaro e nitido un fatto: che il vero e fondante motivo di queste istanze di libertà dall’oppressivo…etc etc etc bla bla bla…. è che si vuole pagare meno tasse, supposte malimpiegate da governi centrali parassitari.

Illusione. Perché le tasse sono sempre meno pagate per dare allo Stato la forza di mantenere servizi( in calo, costante, in ogni paese europeo) ma sempre più per pagare i debito contratti con il sistema finanziario, che a sua volta si approvvigiona presso la banca centrale per avere i fondi necessari a rifinanziare lo Stato. Il meccanismo ha bisogno dei cittadini come passaggio  intermedio e si muove a velocità sempre crescente, anche perché sempre più spesso è lo Stato che interviene a salvare le banche con crediti in sofferenza ( prevalentemente NON nei confronti dei cittadini, nota bene).

Così è questo Moloch che schiaccia l’economia, il peso crescente dei debiti pubblici e privati che già ci porta ad impegnare il futuro dei nostri figli per pagare oggi le pensioni e per salvare oggi i conti correnti dei cittadini. Questo Moloch NON E’ MESSO IN DISCUSSIONE  da nessuna istanza indipendentista. Si vuole girare meno soldi allo Stato centrale e lasciare più soldi per la gestione dello Stato autonomo appena nato e/o del governo federalista. Tuttavia pensare che sarebbero impegnati per servizi e/o che comunque la finanza non finirebbe per rosicchiarne parti crescenti ( essendo tanto più fragile tanto più è industrializzato il territorio, causa sofferenze bancarie) E’ una illusione non in un remoto futuro ma già ora. Non è un caso che le banche recentemente fallite siano quelle di distretti industriali tra i più sviluppati delle rispettive Regioni.

Per l’ennesima volta: l’UNICO modo per uscire da questa soluzione è chiedere l’indipendenza, si, ma da questa economia puramente monetaria che sta distruggendo a passi esponenzialmente più rapidi quella reale. Non c’e’ Stato che tenga. Questo sistema fagocita tutti gli Stati, e trascende dalle frontiere.

Non sarete liberi, cittadini di Catalogna o di Brembate, perché l’economia è costruita sul debito e questo debito è sempre più impagabile, non potendo l’economia crescere alla stessa velocità del debito. In realtà per raggiungimento rapido dei limiti fisici, la crescita presto finirà in tutto il mondo e questa volta in modo stabile. L’apparato finanziario mondiale si mangia, secondo diverse stime, circa il 25% della ricchezza reale prodotta nel pianeta e circa il 20% delle risorse fisiche. Senza produrre, ormai altro che un incubo planetario, che agita le notti dei ragionieri delle imprese, dei padri di famiglia precari con il mutuo sulle spalle dei genitori in pensione e dei Capi di Stato mondiali, alla ricerca di una scusa esterna per il collasso dell’economia prossimo venturo e/o la stretta alle libertà personali. Al netto dell’ovvio egoismo che pervade la vostra posizione, potevate scegliere tra il coraggio e l’illusione.

Avete scelto o state scegliendo l’illusione.

Avrete bisogno di molto più coraggio, per vivere nei tempi prossimi.

La prima indipendenza è quella dai luoghi comuni. La prima libertà non è quella che vi fanno sognare ma quella che vi costruite con le vostre mani.

Uscite dalla scatola, convincete voi stessi e poi i vostri concittadini e non avrete più bisogno di uccidere o odiare vostri simili per una chimera che molti possono raccontarvi ma nessuno portarvi a toccare in carne ed ossa. Non dovete distruggere il vostro Stato, dovete rivoluzionarlo. Non dovete distruggere l’Europa, dovete rivoluzionarne le istituzioni. Rimettete la finanza sul sedile posteriore. Fate tornare i soldi a fare il loro mestiere di mezzi e non di fine. Obbligate ad investirli in cose costruttive.

Fatelo in un modo semplice. Scegliendo, tra la stabilità della morte per soffocamento, schiacciati da un debito sempre crescente in termini reali che si mangia pezzi sempre più grossi della vostra vita, l’instabilità di una rapida svalutazione del denaro.

I vostri stipendi perderanno valore ma il denaro fermo in sempre più illusori investimenti finanziari ancora di più. Cancellate il debito. Avverrà comunque.

Potete ancora scegliere il modo.

Non dovete lasciare che distruggano la vostra vita e perfino le vostre illusioni. Abbiate illusioni raggiungibili.

E cesseranno di essere illusioni…

Il diabolico Piano Kalergi

di Jacopo Simonetta

“Possa tu vivere in tempi interessanti” pare fosse un’antica maledizione. Non so se sia vero, ma di sicuro questi sono tempi molto interessanti, soprattutto sul piano culturale dove lo smarrimento dei punti di riferimento consolidati, le possibilità tecniche offerte dal web ed il precipitare di una crisi che si intuisce profonda ed irreversibile genera fenomeni singolari. Gli esempi possibili sono infiniti, qui vorrei occuparmi di un caso mediatico particolare: il “Piano Kalergi” che mirerebbe (nientedimeno) al genocidio dei popoli europei per sostituirli con una massa amorfa di meticci al servizio di una plutocrazia masso-giudaica.

La Paneuropa

Il sogno di un’unità europea nasce con la disintegrazione dell’Impero Romano d’Occidente. Nel tempo, ha ispirato personalità distanti quanto Carlo magno, Federico II di Svevia, Carlo V d’Asburgo e papa Pio II; per arrivare a Victor Hugo e Mazzini, passando per Napoleone. Il conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi non fece dunque che rilanciare un’idea vecchia di millenni, confezionandola in termini che erano moderni negli anni ’20 e ’30 del XX secolo.
Persona colta, raffinata e cosmopolita come potevano essere gli aristocratici dell’epoca, fu scioccato dal bagno di sangue fratricida della I Guerra Mondiale e dalla fine, anche formale, del “Sacro Romano Impero”. Influenzato soprattutto dagli scritti di Oswald Spengler, Friedrich Nietzsche, Giuseppe Mazzini e Rudolf Kjellén, Kalerghi capì benissimo due cose:
1 – Bisognava evitare a qualunque costo una nuova “guerra civile europea” (come egli definì la guerra ’14-’18).
2 – In quella guerra le potenze europee avevano bruciato definitivamente la loro supremazia mondiale. Le potenze montanti erano gli Stati Uniti e la Russia e, se non volevano essere schiacciati da questi due colossi, i paesi europei dovevano necessariamente consorziarsi.

  • Inizialmente ebbe una certa influenza, riuscendo a ottenere l’appoggio di personalità del calibro di Winston Churchill, Paul Valery, Thomas Mann, Francesco Saverio Nitti, Sigmund Freud, Albert Einstein e John Maynard Keynes.
    Ma l’ascesa del nazismo fece precipitare la crisi che si voleva evitare. Kalergi dovette quindi fuggire temporaneamente in America, da dove mantenne però stretti contatti con gli anti-nazisti e gli antifascisti (in un primo tempo aveva preso sul serio Mussolini, ma si ricredette alla svelta). Finita la guerra ebbe un certo ruolo indiretto, soprattutto tramite l’opera diplomatica di Otto d’Asburgo e l’amicizia con personaggi come Jean Monnet, Konrad Adenauer e Maurice Schumann.
    In estrema sintesi, il suo diabolico piano si basava sui seguenti punti:
    1 – Formazione di una confederazione europea basata su di una garanzia reciproca di delega della sovranità. Cioè la cessione di sovranità dai governi nazionali e quello federale avrebbe dovuto essere esattamente simmetrica per tutti.
    2 – Istituzione di una Corte Federale per gestire i conflitti tra gli stati membri (che non pensava assolutamente di abolire).
    3 – Un esercito unico europeo, così da garantire nel contempo la pace interna e la difesa esterna.
    4 – Una progressiva unione doganale.
    5 – Un’unificazione delle colonie che si sarebbero dovute sfruttare a livello europeo.
    6 – Moneta unica.
    7 – Rispetto della diversità delle culture europee e delle molteplici civilizzazioni nazionali.
    8 – Aumento delle autonomie regionali e tutela delle minoranze nazionali.
    9 – Una buona ed efficace collaborazione nel quadro della Società delle nazioni.

Nell’idea di Kalergi la Turchia avrebbe dovuto entrare nella federazione, mentre cambiò varie volte idea a proposito del Regno Unito che, all’epoca, era ancora abbastanza potente da poter diventare egemone. Escludeva invece la Russia sovietica, non già perché non amasse la cultura russa, ma perché la Russia era troppo grande e potente rispetto agli altri (e perché aveva capito benissimo come ragionava Stalin).

E la storia del genocidio?

Si fonda su ben tre “solide basi”:
1 – Kalergi era cristiano, ma aveva sposato un’ebrea ed aveva grande stima della cultura ebraica (che pensava avrebbe potuto rinvigorire la languente aristocrazia europea). Aveva anche amici fra i banchieri ebrei, in primis il barone Rothschild e si sa che gli ebrei sono dietro ad ogni nequizia e complotto.
2 – Fu per qualche anno affiliato ad una loggia massonica viennese (Humanitas), ma se ne andò quando capì che questo era di ostacolo e non di aiuto al suo progetto.
3 – Una frase tratta da una pubblicazione secondaria (Praktischer Idealismus -1925): “L’uomo del futuro remoto sarà meticcio. Le razze e le caste di oggi saranno le vittime del superamento di spazio, tempo e pregiudizio. La razza eurasiatica-negroide del futuro, simile nell’aspetto alla razza degli antichi Egizi, sostituirà la pluralità dei popoli con una molteplicità di personalità». Alle nostre orecchie odierne suona effettivamente inquietante, ma se ci si prende la briga di leggere i libri per intero e di abituarsi al gergo dell’epoca, si scopre qualcosa. Per cominciare, che Kalergi non parlava dell’Europa, bensì del mondo intero, in un remoto futuro. Per continuare, che non pianificava invasioni, bensì sognava un’era in cui lo sviluppo dei rapporti internazionali e la fine dei pregiudizi razziali avrebbero portato ad un utopico “meltig pot” di scala planetaria.
Kalergi aveva molti difetti, ma era un convinto pacifista, innamorato di tutto ciò che era definibile come “europeo”, sia pure con molta fantasia.

Dunque il piano per sommergere l’Europa di “neri” non è mai esistito.  Esiste invece, ma non se ne parla, un disperato problema di sovrappopolazione che, quasi inevitabilmente, sfocerà in un olocausto per molti, se non tutti, i popoli della Terra. Ed esistono anche un sacco di soggetti, chi in buona e chi in cattiva fede, che soffiano in vario modo sul fuoco.
Negare che abbiamo un problema di immigrazione serve solo ad aggravarlo, così come sfruttare la situazione per riesumare dai cassetti della storia scheletri che stanno bene solo al museo degli orrori.

Ma forse un po’ di complotto forse c’è davvero

 

Perché disturbare il fantasma di un distinto signore che, cento anni fa, caldeggiava una confederazione fra i paesi europei per evitare nuove guerre e colonizzare più efficacemente il mondo? (Ebbene si, kalerghi non propugnava l’invasione dell’Europa da parte degli africani, semmai il contrario).

Da quello che ho potuto ricostruire, la leggenda del kalerghiano “genocidio” si deve ad un certo Gerd Honsik che, nel 2005, pubblicò a Barcellona un libro intitolato “Adiòs, Europa – El Plan Kalergi” (ed. Editorial Bright-Rainbow).
Honsik è uno scrittore austriaco noto per pubblicazioni in cui nega l’olocausto, rilancia la vecchia propaganda anti-semita e tenta di rivalutare la figura storica del Furer. Tutto ciò gli ha procurato delle condanne penali, ma in compenso gli ha assicurato un solido mercato fra i neo-nazisti europei. Potrebbe quindi trattarsi di una semplice bufala commerciale, ma se mi si consente un po’ di complottismo, forse c’è sotto qualcosa di più.

Tanto per cominciare, Kalerghi fu un personaggio di spicco dell’anti-nazismo; che ce l’abbiano ancora con lui si può quindi capire, ma forse la bufala nasconde anche un virus. Uno dei pochi punti condivisi dal caleidoscopio di movimenti e partiti d’estrema destra attuali è l’odio per le istituzioni europee, viste come un ostacolo per la loro ascesa al potere. Occorre quindi non solo evidenziarne ed esagerarne i pur reali e considerevoli difetti; è necessario anche diffondere rabbia e paura: un complotto antieuropeo di fantasia potrebbe quindi ben servire ad una politica antieuropea molto reale.  E l’abilità del suo inventore è dimostrata dal fatto che lo ha confezionato in modo da essere creduto e rilanciato anche da persone assolutamente aliene al neo-nazismo. Talvolta perfino da persone assolutamente contrarie ad esso.

Quanto pesa oggi Kalergi?

Niente. Il suo movimento “Paneuropa” ebbe un certo ruolo negli anni ’50, soprattutto per l’amicizia personale che legava il vecchio conte con personalità del calibro di Adenauer, Shuman, Otto d’Asburgo e De Gasperi.
Dunque si, parecchi dei suoi punti programmatici sono stati in una qualche misura attuati dai trattati, ma secondo parametri molto diversi da quelli dell’utopia paneuropea.   Kalergi detestava il capitalismo, mentre vagheggiava un’Europa unita da uno slancio spirituale ed ideale, governata da un’aristocrazia cosmopolita e benevolente. Qualcosa di molto irrealistico e anche di molto diverso dalla società liberal-plutocratica e dalla logorroica macchina burocratica che abbiamo costruito.
Oggi Paneuropa esiste ancora, ma il suo peso politico pari a zero ed il suo fondatore viene talvolta ricordato nelle cerimonie ufficiali solo per essere stato uno degli anticipatori di quella “Unione Europea” che, con tutti i suoi forse mortali difetti, rappresenta il più originale e pacifico esperimento geo-politico della storia. Ad oggi, rimane infatti l’unico tentativo di superare definitivamente la logica della guerra e di formare uno stato sulla base di una comunanza di intenti fra nazioni anziché sulla conquista militare.
Probabilmente non ci riusciremo, ma perlomeno ci abbiamo provato e già questo non è poco.

L’Unione Europea? Una cosa fantastica, se esistesse.
Gianis Varoufakis