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Equità e sostenibilità sono sinergiche?

Equità e sostenibilitàUna maggiore equità nella distribuzione dei redditi viene sempre più spesso invocata dai piani basali ed intermedi della piramide sociale.   Con ottime ragioni.   Un simile livello di disparità non si era mai visto nella storia, probabilmente neppure all’epoca dell’impero Han o di quello romano.   Certamente Carlo Magno era un poveraccio rispetto ai fratelli Koch.
Fin qui credo che ci sia poco da aggiungere e, a scanso di equivoci, preciso subito che sono d’accordissimo che sia uno schifo che deve finire.   Il punto che vorrei discutere è però un altro: alcuni (fra cui nientemeno che il papa) sostengono che migliorare l’ equità sociale migliorerebbe anche la situazione ambientale.   Siamo sicuri che sia così?

Redditi e consumi

Il punto principale di chi sostiene la sinergia fra aumento dell’equità e riduzione degli impatti è il fatto (verissimo) che i ricchi consumano molto di più dei poveri.

Dunque, tanto per farsi un’idea di come potrebbe funzionare, immaginiamo di distribuire la metà dei patrimoni dei 50 uomini (e donne) più ricchi del mondo  (1.250 miliardi secondo Forbes) fra il miliardo di persone più povere della Terra.   Farebbero circa 600 dollari a testa, cioè circa il doppio di quello che attualmente guadagnano in un anno intero.   Cosa farebbero?   Ovviamente li spenderebbero per togliersi la fame, curare i malati, vestirsi decentemente, riparare la baracca dove vivono, magari mandare i bambini a scuola.
Tutte cose sacrosante che raddoppierebbero secco il loro impatto ambientale ed imprimerebbero una brusca accelerazione alla crescita demografica.
Viceversa, quando Carlos Slim, che già aveva 69 miliardi, nel 2012 ne ha intascati 4 netti non ha aumentato i suoi consumi e le sue emissioni, semplicemente perché aveva già tutto ciò che è possibile avere e consumava già tutto ciò che si può umanamente consumare.

Per dirla in termini scientifici, la correlazione fra aumento del reddito ed aumento dei consumi non è lineare.   E l’aumento dei consumi è tanto maggiore, quanto più basso è il reddito di partenza.
Ne consegue che aumentare la quota di PIL nei piani bassi favorisce la crescita economica e demografica assai più che non la crescita nei piani alti.    Anzi, si potrebbe addirittura considerare il meccanismo perverso di concentrazione in corso una sorta di reazione immunitaria del sistema “Umanità” alla propria ipertrofia: più la ricchezza si concentra nei piani alti, più l’economia reale affanna e con essa rallentano sia la crescita dei consumi, sia quella demografica.

Equità e sostenibilità nei modelli

limiti dello sviluppo scenario 8Molti non troveranno convincente  il ragionamento, quindi vediamo cosa ci dicono i modelli disponibili che, in qualche misura, prendono in considerazione l’ipotesi di una ridistribuzione dei redditi.
Ad oggi, il più affidabile continua ad essere l’autorevolissimo Word3 che, nell’edizione del 2004 (Limits to Growth: The 30-Year Update) propone, fra gli altri, un scenario in cui si ipotizza che dal 2002 la natalità globale si si stabilizzi sulla media di due figli per coppia e che venga praticata una distribuzione dei prodotti industriali uguale per tutti ad un livello del 10% superiore rispetto alla media globale del 2.000.   Vale a dire molto meno per i ricchi e molto di più per i poveri.
Sorvolando sui dettagli,  è interessante che queste condizioni allungano la fase di picco delle curve di produzione e della popolazione, prolungando il periodo di benessere per una ventina d’anni rispetto a scenari meno egualitari (e più realistici).   Dopodiché avviene comunque un collasso sistemico analogo a quello dello scenario BAU.
Si badi bene che la maggior parte di coloro che reclamano una maggiore equità si guardano bene dal parlare di limitare la popolazione.   Nel libro non viene illustrato lo scenario con ridistribuzione dei beni senza controllo della natalità, ma non ci vuole molto a capire che la popolazione crescerebbe molto rapidamente, mandando in collasso il sistema in quattro e quattr’otto.

Il secondo modello che in qualche modo prende in conto il livello di equità sociale è il popolarissimo HANDY,  il cui successo di pubblico dipende largamente dal fatto che dice cose che fa piacere sentire.
Purtroppo però, sotto il profilo scientifico il modello ha parecchi e vertiginosi buchi.   A cominciare dal fatto che è eccessivamente semplificato, così da delineare scenari del tutto impossibili, come quello in cui i predatori (l’élite) crescono anche dopo che hanno fatto estinguere le prede (la gente comune).   Oppure, ancora più grave, considera la capacità di carico una costante, indipendente dalle altre variabili.  O ancora non considera le fondamentali retroazioni fra sviluppo delle élite, la specializzazione del lavoro, l’aumento della complessità dei sistemi economici, la capacità dei sistemi di dissipare energia, eccetera.
Tuttavia, a parte queste ed altre gravi lacune, il modello ha l’indubbio pregio di inserire l’elemento sociale in questo tipo di modelli.   In attesa di meglio, possiamo penso prendere per buona l’indicazione di larga massima secondo cui livelli moderati di disuguaglianza tendono a rendere più stabili e resilienti le società.   A braccio, direi che un’occhiata alla storia conferma l’ipotesi, a condizione di prendere il termine “moderata disuguaglianza” in senso molto relativo.

Conclusioni.

In sintesi, una parziale ridistribuzione dei redditi avvantaggerebbe primi fra tutti i ricchi, consolidandone il potere.   Le élite del passato che sono rimaste in sella a lungo lo sapevano bene, come lo sapevano Karl Marx e gli anarchici dell’800.
In secondo luogo, favorirebbe i poveri la cui vita migliorerebbe non solo sul piano materiale, ma anche per il ridursi della snervante sensazione di essere quotidianamente defraudati ed ingannati.
Tuttavia sarebbe un miglioramento molto temporaneo.   La crescita dei consumi globali e la crescita demografica che ne deriverebbe si rimangerebbero il vantaggio nel giro al massimo di un paio di decenni, per poi precipitare tutti in un baratro ancora peggiore.  Amen.

A dire il vero una scappatoia ci sarebbe.   Si ridurrebbero sia l’iniquità che gli impatti se si abbassassero i redditi dei ricchi, senza incrementare quelli dei poveri e, contemporaneamente, adottando drastici sistemi di controllo demografico.    Ma questa è l’unica opzione su cui tutti sono d’accordo per essere contro.

SpaceX e la nuova frontiera

SpaceX atterraggioSpaceX è una società aerospaziale privata che sta mettendo a punto una serie di vettori economici per la messa in orbita di satelliti.   Al di la di qualche inevitabile fiasco, il programma sta riscuotendo un notevole successo.    L’ultimo: un atterraggio riuscito su di una piattaforma telecomandata in mezzo all’oceano, a conclusione di una missione reale di messa in orbita di un satellite.

L’idea di base è la riutilizzabilità dei vettori, cioè è la stessa che fu alla base del programma “Space Shuttle” che, invece, si è dimostrato rovinosamente costoso.   Il segreto è nell’altissimo grado di automazione, nella riduzione all’osso del personale e, soprattutto, nell’assenza di equipaggi.

Lo spazio come nuova Frontiera

Come sempre a seguito di qualche impresa spaziale di successo, rinascono le speranze per una colonizzazione almeno parziale del cosmo da parte della nostra specie.   Il sogno della “frontiera” è evidentemente uno degli archetipi fondanti della nostra civiltà e, forse, della nostra specie.

Questa sarà la volta buona?

Poco probabile, considerato il rapido peggioramento della situazione economica e ambientale a livello planetario, ma nessuno può dire con certezza cosa succederà.   Dunque facciamo l’ipotesi che il programma vada avanti abbastanza rapidamente da consentire l’avvio di uno sfruttamento commerciale delle spazio.   Per esempio per il reperimento di minerali rari, necessari per le tecnologie d’avanguardia, come quelle largamente usate da SpaceX.
Dunque, se un simile programma avesse successo, potrebbe forse una diffusione di tecnologie avanzate molto superiore a quella attualmente fattibile, forse frenando in extremis il “Picco di Seneca” sul quale stiamo sdrucciolando.
OK, ammettiamolo, ma con quali conseguenze?

Tanto per cambiare, la traccia più consistente ce la può dare ancora una volta LtG che, quasi 50 anni dopo la sua elaborazione, continua a dimostrarsi un potente strumento di analisi.
In questi ultimi anni, di tutto lo studio è stato da più parti riesumato e verificato lo scenario BaU (business as usual) perché descrive in modo sorprendentemente preciso l’effettiva evoluzione del’nostro mondo.   Ma non era questo lo scopo del lavoro ed i ricercatori del MIT avevano delineato anche altri scenari possibili, perfino più interessanti.
Ad esempio, come evolverebbe il sistema se le risorse disponibili risultassero essere il doppie di quelle allora stimate? Oppure il quadruplo?
Sulla Terra queste risorse extra pare proprio che non ci siano, ma se fossimo in grado di reperirle nello spazio il risultato sarebbe alla fine analogo.   E dunque?

E dunque sarebbe enormemente peggio!    Una conclusione tipicamente contro intuitiva e dura da digerire, ma assolutamente affidabile.
Ipotizzando di poter attivare un apporto consistente di risorse extra ad un costo energetico appena decente, molto probabilmente potremmo avere qualche decennio di relativa crescita economica in più.   Ma questo comporterebbe un ancor maggiore incremento demografico, un molto maggiore inquinamento ed un’ulteriore distruzione di biodiversità.   Dunque il collasso verrebbe si rimandato, ma sarebbe ancora peggiore, con un numero molto minore di sopravvissuti su di un pianeta in condizioni ancora peggiori.

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In sintesi, lo scenario BaU prevede un collasso economico ed ambientale fra il 2020 ed il 2030, seguito a ruota dal collasso della popolazione umana.
LtG, scenario risorse abbondanti
Ipotizzando una disponibilità di risorse doppia a quella attualmente stimata, il collasso avverrebbe intorno al 2050, ma in compenso sarebbe molto più grave.

 

Certo, si può facilmente obbiettare che, mentre si sfruttano le risorse minerarie del cosmo, l’umanità potrebbe decidere di adottare un sistema economico basato su retroazioni negative, anziché positive come avviene adesso, così da impedire ogni ulteriore crescita economica.   Contemporaneamente, la politica del figlio unico (testé abolita in Cina) potrebbe essere di buon grado adottata da tutti ed avviasi così ad un lieto fine: un’umanità stabile e ragionevolmente prospera, finalmente cosciente dei limiti che non deve superare.

Ma un simile scenario mi pare manchi di coerenza interna.   Da una parte, infatti, si fa appello a tutte le forze del mercato e del progresso tecnologico per poter sfruttare il cosmo, dopo aver svuotato la Terra.   SpaceX è un’impresa commerciale tipicamente BaU.   Ed il progresso tecnologico può avvenire solamente a fronte di una massiccia dissipazione di energia, con tutte le conseguenze del caso.
Dall’altra e contemporaneamente, si fa appello a tutte le forze sociali e culturali per spazzare via l’economia di mercato e sostituirla con qualcosa che, forse, potrebbe somigliare alla “steady state economy” teorizzata da Herman Daly.

Ma se la prima ipotesi mi pare molto improbabile, ritengo la seconda impossibile.   Da almeno 50.000 anni a questa parte l’uomo non ha fatto che cercare nuove frontiere dove espandersi ed ogni volta che le ha trovate il risultato è stato sempre esattamente lo stesso: crescita demografica – impoverimento delle risorse e degrado degli ecosistemi – collasso della popolazione umana.
Collasso talvolta totale, assai più spesso parziale seguito, eventualmente, da un nuovo ciclo.   Dopo qualche secolo necessario per un parziale recupero delle risorse e per lo smaltimento delle scorie.
Nella storia ci sono stati alcuni tentativi di contrastare questa dinamica, ma anche questi hanno sortito risultati parziali e temporanei.

Dunque, personalmente, non credo che uno sfruttamento minerario del cosmo sia possibile.   Ma soprattutto non me lo auguro.

 

Euroscettici

euroscetticiGli euroscettici vanno di moda, ma chi sono?    Secondo la vulgata sarebbero un variegato assemblaggio di movimenti sia di destra che di sinistra, nemici su tutto tranne che sul fatto che bisogna ridurre il potere degli organismi comunitari.   Anzi, per parecchi di loro sarebbe meglio abolirli proprio.
Ma sono davvero loro gli euroscettici?

Per discutere l’argomento, conviene cominciare con un ripassino-lampo di storia patria:

 

Un po’ di storia

All’inizio del XX secolo le potenze europee avevano, complessivamente, il mondo in pugno.   Una solida alleanza fra Inghilterra, Francia e Germania avrebbe avuto la forza di tenere incantonati Stati Uniti, Russia e Giappone, nonché di risolvere tutti i problemi interni di povertà continuando a sfruttare spudoratamente il resto del mondo.
Certo, non era etico, ma non fu per uno scrupolo morale, bensì per un desiderio folle di predominio che gli europei decisero di suicidarsi scatenando la più terribile guerra mai vista fino ad allora.

Anche i vincitori ne uscirono molto peggio di come ci erano entrati ed il fiume di sangue fu così impressionante che ne  scaturì il progetto della “Paneuropa”.   Un progetto che ebbe un notevole successo iniziale, ma che fu presto soffocato dall’arrivo in Europa della Grande Depressione degli anni’30, nata in USA.   Il precipitare della situazione economica riportò al governo partiti nazionalisti che tentarono di arginare i danni dei propri paesi a scapito dei vicini.   Particolarmente feroci furono i francesi a danno dei tedeschi, cosa che aiutò non poco la carriera politica di Adolf Hitler.

Fu così che gli europei si gettarono in un secondo ed ancor più devastante suicidio collettivo; il più grandioso dell’intera storia.   Come andò lo sappiamo e, scavalcando forse 50 milioni di morti, giungiamo al 1945, con noi ridotti ad un cumulo di macerie, mentre USA ed URSS si spartivano il mondo e quel che restava di noi.

Fu in questo desolante paesaggio che Robert Schuman ebbe l’idea geniale di sostituire lo sfruttamento dei vinti con la collaborazione economica.   Un processo che nelle sue intenzioni doveva gradualmente sanare le ferite reciproche e creare quel clima di fiducia e fratellanza che era indispensabile per giungere alla creazione di quegli Stati Uniti d’Europa, tante volte vagheggiati e mai realizzati.

Funzionò e così giungemmo al 1989: collasso dell’Impero Sovietico.   Occasione per gli europei per un nuovo suicidio.
Con la Russia a pezzi e l’America troppo ebbra di vittoria per preoccuparsi di noi, abbiamo avuto una finestra di buoni 10 anni per fare due cose:
– Guidare l’economia in uno stato il più possibile stazionario;
– Creare una EU politicamente molto coesa ed integrata da subito, diluendo invece l’integrazione economica nei decenni a venire.
In altre parole, politica e difesa comuni; economie tendenti all’unificazione, ma con i tempi e le protezioni di cui ognuno aveva bisogno.

Ancor più importante: basare l’integrazione dei paesi dell’est sulla necessità di fare fronte comune alle immense difficoltà che non avrebbero tardato ad arrivare, anziché sulla prosopopea dell’arricchito che “educa al benessere” il suo vicino di casa povero.

Esattamente il contrario di quanto fecero i partiti al potere allora (ed ora).

euro-crisisLo stesso progetto della moneta unica, nacque come grimaldello per costringere le oligarchie nazionali a cedere effettiva sovranità ad un livello federale.    L’idea era, infatti, che poiché una moneta unica non potrà mai funzionare senza un governo unico, l’adesione all’Euro avrebbe poi costretto i vari “ras” ad accettare almeno un embrione di federazione.
Sbagliato.    Non ci hanno pensato due volte a mandare ai pesci il più importante esperimento politico del secolo per non rinunciare ad una fetta del loro potere.    Signora Merkel in testa al corteo.

Quel che non capisco è perché proprio lei ora si lamenti del fatto che il corteo cui ha dato l’avvio sta avendo tanto successo.

Comunque, non ci bastò: perseguendo un sogno neocoloniale assolutamente folle, assieme agli USA abbiamo promosso e spinto la globalizzazione economica planetaria.

Il sogno era affascinante: un Europa faro di civiltà che gestisce buona parte dell’economia mondiale (a proprio vantaggio), mentre le fabbriche, l’inquinamento, il proletariato urbano e tutte le altre cose sgradevoli connesse con lo sviluppo se le prendevano gli altri che, per di più, ce ne sarebbero stati grati.
E’ andata un po’ diversamente ed ora che la realtà bussa alle porte dei nostri sogni possiamo scegliere fra molte opzioni, ma ancora una volta riemergono gli spettri di un nazionalismo che, evidentemente, non ci è ancora costato abbastanza.    Sembra che stiamo nuovamente scegliendo di scannarci fra di noi, anche se sul piano economico e commerciale, anziché su quello militare, probabilmente perché non abbiamo più forze armate in grado di combattere se non come supporto a quelle USA.

 

Chi sono gli euroscettici?

Fenomeni complessi come questo hanno sempre cause altrettanto complesse, ma una di queste è facile da identificare: i partiti che controllano i governi nazionali controllano anche il Consiglio Europeo che è il vero organo decisionale comunitario.   E da 30 anni questi partiti sono impegnati in un gioco di prestigio: far funzionare un’economia integrata, ma senza integrare le politiche; anzi, spesso tirando a farsi l’un l’altro le scarpe.
Non funziona e non può funzionare, ma questa semplice constatazione non riesce a scalfire i processi decisionali interni agli stati che poi, tramite il Consiglio, si riverberano a livello comunitario.

Il paradosso sta tutto qui: gli stessi partiti che nel Parlamento europeo spingono per una sempre maggiore integrazione, nelle rispettive capitali locali e nel Consiglio Europeo remano invece contro, chi più chi meno.
Del resto è sempre così: le comunità sono più forti dei singoli e danno quindi dei vantaggi, ma per farle funzionare occorre che ognuno sia disponibile a far passare l’interesse collettivo avanti a quello individuale.   E questo non sembra che nessun governo abbia voglia di farlo.

Dunque, se proprio coloro che da sempre stanno seduti nelle “stanze dei bottoni” hanno estrema cura che certe cose non funzionino, è ovvio che non funzioneranno.    Ed è altrettanto ovvio che questo provocherà problemi, scontento e la precisa sensazione di essere presi in giro.   Sentimenti più che giustificati su cui estrema destra e sinistra hanno facile presa.

Io visualizzo la situazione in questi termini: siamo in mezzo ad un mare in tempesta e l’occhio del ciclone si avvicina.   La nostra barca è apparentemente robusta, ma chi la ha governata finora ha smontato gran parte delle strutture portanti per farci delle sovrastrutture inutili e pesanti che fanno beccheggiare pericolosamente lo scafo, mentre imbarchiamo acqua da diverse falle.   Gli ufficiali si picchiano intorno al timone, mentre i membri dell’equipaggio vagano con grosse canne in bocca e bottiglie di whisky mezze vuote in mano.   A questo punto un certo numero di passeggeri si ribella ed ha un’idea: affondiamo la barca ed andiamocene ognuno per conto suo, vedrete come sarà bello nuotare!

In conclusione, chi sono gli euroscettici?

Quelli che per 30 anni si sono rifiutati di fare davvero l’Europa, o quelli che in questi giorni si stanno costruendo delle carriere politiche sugli errori commessi da altri?

Comunque, almeno una cosa nessun euroscettico potrà negare: tutti i popoli d’Europa sono accomunati da almeno due cose: la smisurata superbia ed una spiccata tendenza al masochismo.

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Domesticazione umana

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Il tema della ‘domesticazione umana’ era già stato introdotto in un mio precedente post, ma credo valga la pena di svilupparlo meglio perché consente di inquadrare nella giusta prospettiva fenomeni che risultano ‘inspiegabili’ con le chiavi di lettura attuali. Ancora ieri si ragionava di incidentalità stradale, dell’aggressività alla guida, dell’insufficienza nelle reazioni messe in atto nel corso degli anni (campagne informative inefficaci o totalmente sbagliate, mancato adeguamento della legislazione e via dicendo…), con diverse persone che sottolineavano l’incomprensibilità di certi accadimenti.

Per approcciare la questione va fatto un lungo passo indietro, fino al lunghissimo arco di tempo (dal 15.000 al 4.000 a.C.) nel corso del quale l’Homo Sapiens ha addomesticato altre specie animali e vegetali, selezionando le varietà più utili e sostanzialmente stravolgendo il genoma di una porzione importante della biosfera.

La domesticazione coinvolge aspetti diversi. Nelle piante quello che si ricerca da principio è la produttività. Le piante da frutto utilizzano gli animali per massimizzare la diffusione dei propri semi (i frutti vengono mangiati ed i semi ‘diffusi’ assieme alle feci su un areale più vasto, passando indenni attraverso i processi digestivi). L’umanità seleziona le varietà con i frutti più grossi e gradevoli, e ne crea coltivazioni intensive.

L’esito finale può essere disastroso per la specie domesticata. Nel grano originario, ad esempio, i semi si staccano spontaneamente dalla spiga cadendo a terra per la semina dell’anno successivo. Ma questo non è funzionale alle esigenze umane, cosicché nel tempo si sono selezionate varietà di grano nelle quali i semi non si staccano. Varietà che non avrebbero modo di sopravvivere nell’ambiente senza l’intervento umano.

Con gli animali si sono prodotte dinamiche analoghe. Gli animali, a differenza delle piante, devono adattarsi alla vita in cattività, cosa non scontata. Jared Diamond spiega che alcune specie non sopportano di venir rinchiuse in recinti, si scagliano contro le pareti tentando di fuggire fino a morirne. Altre specie si adattano alla prigionia ma non si riproducono in cattività, cosa che rende impraticabile l’allevamento.

L’animale che per primo fu domesticato fu il lupo, utilizzato dai nostri antenati come aiuto nella caccia ed in seguito sottoposto ad una infinita serie di selezioni arbitrarie fino a produrre tutte le varietà esistenti di specie canine, dall’alano al chihuahua passando per bassotti, levrieri, molossi e barboncini.

La nostra stessa specie non è passata del tutto indenne attraverso questa fiera delle mostruosità, nonostante gli adattamenti prodotti nel tempo siano di natura più psicologica che morfologica. L’umanità nasce come una specie di cacciatori-raccoglitori nomadi che, in seguito all’invenzione dell’agricoltura, diviene stanziale, comincia ad intervenire sull’ambiente circostante su larga scala, crea comunità numerose e dà infine vita agli aggregati chiamati città.

L’esistenza delle città dipende dall’accettazione della coesistenza fra centinaia, poi migliaia, di individui. Questo è il primo adattamento psicologico richiesto: la capacità di convivere in gruppi estremamente numerosi, di essere circondati costantemente da sconosciuti, di entrare in relazione con essi attraverso un linguaggio comune, convinzioni comuni, ideologie condivise. Le città nascono grazie al potere militare che sono in grado di esprimere nei confronti delle popolazioni circostanti e sono tenute unite da religioni ed ideologie.

Il faticoso adattamento alla vita collettiva, agli spazi chiusi, trova come contraltare una maggior sicurezza, la protezione di un esercito, l’abbondanza di cibo rispetto a quelli che restano a vivere isolati nelle campagne, a contatto con la natura. Gli individui che mal sopportano questa forzatura diventano viaggiatori, esploratori, mercanti, avventurieri, gli altri ingrossano le fila dei ‘residenti’, vivono vite sicure e tranquille e si riproducono a ritmi molto elevati.

Fabbrica
Questo processo ha condotto, nel corso dei millenni, ad una mutazione antropologica di una parte consistente (numericamente maggioritaria) della nostra specie. Veniamo allevati in cattività, abituati fin da subito a vivere circondati da barriere protettive (le mura di casa, della scuola, gli abitacoli dei veicoli con i quali ci spostiamo), fino a perdere, in tutto o in parte, la familiarità con l’ambiente naturale dal quale abbiamo avuto origine.

Questo sradicamento, questa alienazione, quest’esperienza di vite sempre più artificiali verso cui la modernità ci spinge, disarticola la nostra stessa cognizione del mondo. Se le civiltà del passato erano ancora in grado di collocare sé stesse all’interno di un sistema naturale, di percepire i cicli e le esigenze della vita sul pianeta, la nostra cultura se ne è allontanata a tal punto da renderne i segnali d’allarme indecifrabili.

Così, mentre catastrofi epocali avanzano di giorno in giorno, la desertificazione (solitamente di natura antropica) erode i continenti, l’atmosfera si surriscalda a causa delle tonnellate di gas serra rilasciate quotidianamente, gli oceani si acidificano, i ghiacciai millenari si sciolgono, le specie viventi selvatiche si estinguono in massa, l’umanità non riesce a vedere oltre i confini dei recinti nei quali si è spontaneamente rinchiusa, delle gabbie in cui si è abituata a vivere e che diventano via via più strette ed opprimenti.

Come gli allevamenti industriali hanno progressivamente sostituito i pascoli, così le città contemporanee hanno sostituito quelle antiche, incrementando l’isolamento individuale grazie anche al cambiamento degli stili di vita. Rispetto al passato abbiamo città e case più ingombre di oggetti e passiamo molto più tempo in compagnia di macchine da intrattenimento che non coi nostri simili.

Negli allevamenti industriali gli animali sono compressi in spazi ridotti, mutilati per impedire aggressioni reciproche, sovralimentati per farli aumentare rapidamente di peso prima della macellazione. Gli ‘allevamenti umani’ della società consumista non sono molto dissimili, anche se rispondono ad una logica leggermente diversa. ‘Dobbiamo produrre, dobbiamo consumare’: questo è il valore degli individui all’interno del meccanismo. Più produciamo, più consumiamo, più plusvalore i nostri governanti (politici, ma sempre più spesso economici) riescono a ‘mungere’ per sé.

Lo stress urbano, l’aggressività, la violenza, sono figlie della cattività, del vivere gomito a gomito con migliaia di sconosciuti, della compressione delle nostre esigenze di spazio, silenzio, solitudine e libertà. Esigenze di cui siamo stati privati per un arco di tempo talmente lungo da non renderci più in grado neppure di riconoscerle, o dargli un nome. Un vivere quotidiano talmente opprimente da non lasciarci le capacità mentali per guardare oltre, per vedere un pianeta in lento e progressivo disfacimento. Men che meno le energie per invertire la rotta.

Allevamento intensivo

Non abbiamo Perso!

Pubblico una risposta di Luca Pardi, presidente di  Aspo italia  al post di Jacopo sul risultato del referendum.

Abbiamo sbagliato, ma non abbiamo perso.

Il mio amico Jacopo Simonetta è uno di quei pessimisti che, vista la luce in fondo al tunnel la vanno a spengere (la battuta è di Lercio.it e so che lui l’ha apprezzata). Nel suo commento dopo il referendum sulle trivelle ne dice molte giuste, ma legge tutto in chiave negativa. Non è solo. Altri, dopo la sconfitta, si sono incaricati di criticare le scelte sbagliate del movimento ambientalista in questa campagna elettorale e spesso hanno etichettato questo evento politico come l’ennesima sconfitta dell’ecologismo politico. Non sono d’accordo. Ma partiamo dall’inizio e, quindi, dall’istituto del referendum abrogativo. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta, la sua esistenza non è, come è stato detto, “la prova che la democrazia non funziona”, ma un modo in cui si consente ai cittadini di modificare le scelte legislative del parlamento. È in costituzione ed è uno strumento utile quando i quesiti sono chiari e semplici, o comunque semplificabili come nel caso: abrogazione del divorzio: SI o NO? L’insieme dei referendum promossi dalle nove regioni costituivano un corpo di quesiti che, nell’insieme, poteva essere semplificato. Chi avesse votato a favore dell’abrogazione avrebbe fatto una scelta chiara sulla politica energetica nazionale. Il governo si è impegnato a disinnescare l’eventualità di un pronunciamento in questo senso e ha legiferato, accogliendo, almeno in parte, le finalità delle regioni. Dunque già su questo punto sconfitta non c’è stata. Ricordiamoci che a parte le poche decine di piattaforme su cui eravamo chiamati a pronunciarci il 17 aprile, non si potrà più trivellare entro le 12 miglia.

L’errore principale del fronte del SI, che poi coincideva all’80% con il fronte della partecipazione al voto, è stato quello di dare troppa importanza al referendum e attaccarsi agli argomenti meno solidi.  Ci sono argomenti, in campo energetico, sui quali gli “ottimisti razionali” hanno un vantaggio. Sono argomenti marginali come quelli economici (si per me, di fronte alla catastrofe ecologica in atto i temi economici sono marginali). È chiaro che è più facile attrarre consenso parlando delle potenziali perdite occupazionali di attività industriali esistenti piuttosto che contrapporre potenziali vantaggi occupazionali di attività che sono percepite come futuribili. È facile contrapporre ai rischi potenziali o reali dell’inquinamento poco visibile, causato dalle attività estrattive, quello visibilissimo dei liquami in mare a Rimini e in altre località. È inoltre facile per i conformisti energetici solleticare il nazionalismo energetico dei macchinomani del fine settimana. Sappi che dovrai rinunciare alla gita al mare la domenica (quella che da quando c’è la crisi molti italiani fanno dalla mattina alla sera per risparmiare sul costo di pernottamento). Per ogni contestazione di questo tipo si possono trovare esperti autorevoli, professori di questa o quella università, tecnici valenti e scienziati pluridecorati che possono smentire qualsiasi dato.

Si doveva puntare su altro. Ci sono due argomenti che nessun “ottimista razionale” può confutare credibilmente senza venire a patti con la propria onesta intellettuale. Cioè senza mentire sapendo di mentire. E questi due argomenti sono: il cambiamento climatico e l’esaurimento delle fonti fossili di energia. Credo che chi legge sappia già tutto su questi argomenti. La forzante umana è la causa principale del cambiamento climatico, l’uso dei combustibili fossili è il motore di questa causa. Se a Parigi non abbiamo scherzato ogni paese deve varare rapidamente una politica di uscita dalle fonti fossili. E per uscire dalle fonti fossili senza passare per un collasso della nostra civiltà è necessario rinforzare di almeno due ordini di grandezza (un fattore 100) l’attuale infrastruttura basata sulle nuove fonti rinnovabili di energia. Si deve passare dalle centinaia di Giga Watt alle decine di Tera Watt (attualmente il metabolismo sociale ed economico umano è una macchina che consuma 17 Tera Watt) in un paio di decenni. Il programma deve essere chiaro e stringente e si deve sapere due cose, anche gli ambientalisti lo devono sapere: 1) non si può fare questo salto senza accettare il relativo impatto e 2) l’impresa deve essere fatta utilizzando le fonti energetiche esistenti, cioè quelle fossili. Ci sarebbe un terzo punto, politicamente più scabroso, questa transizione non può essere condotta esclusivamente con le regole (ammesso che ve ne siano) del mercato.

Questa affermazione mi scatenerà contro i fautori dell’arbitrio travestito da libertà economica, ma posso farmene una ragione. Il fatto è che nella transizione si dovranno privilegiare usi utili delle fonti fossili perché una quota prossima al 50% delle loro riserve note dovrà restare dov’è per non causare un aumento catastrofico della temperatura terrestre. L’altro argomento inconfutabile è il processo di esaurimento dei combustibili fossili stessi. Avremmo dovuto usare la campagna referendaria per chiarire al grande pubblico il fatto che la vulgata sul crollo del prezzo del petrolio come sinonimo di abbondanza e “morte della teorie del picco del petrolio” è una vera bufala. Il prezzo misura il flusso della materia prima sul mercato e non dice nulla sulla qualità e quantità della riserva. Dalla metà del primo decennio di questo secolo i costi estrattivi crescono costantemente ad un tasso che è dieci volte quello del decennio precedente (i dati vengono dall’IEA e dal FMI), le nuove categorie di petrolio portate sul mercato, che hanno garantito la tenuta del livello produttivo di liquidi combustibili, sono più problematiche da estrarre, più costose e anche più inquinanti.

L’urgenza della transizione energetica è tanto evidente a chi la vuol vedere quanto ineluttabile. Il fatto che questi temi siano rimasti marginali mostra l’immaturità dell’ecologismo che tende a baloccarsi con argomenti ormai superati e spesso tutti sul lato difensivo. Al contrario è arrivato il momento in cui l’ecologismo politico deve rivendicare il punto centrale che l’ecologia ha rispetto all’economia. Una campagna referendaria era un’occasione d’oro per parlare di queste cose al massimo numero di cittadini piuttosto che perdersi a confutare i numeri demenziali di Renzi sull’occupazione o le contraddizioni dei geologi petroliferi sulle trivelle.

Riconosciamo l’errore, ma non buttiamo via tutto correndo a spengere la luce in fondo al tunnel. Un terzo degli italiani comincia a capire, non siamo più l’1 per mille. Proprio perché questo quesito era marginale e difficile rispetto a quello del 2011, sull’acqua e il nucleare, nelle more del disastro di Fukushima, l’affluenza registrata è incoraggiante e significativo il fatto che l’unica regione petrolifera del paese, la Basilicata, ha superato il quorum. Si comincia a capire che da opzione vicente gli idrocarburi sono diventati un’opzione perdente. Per questo i sostenitori degli interessi legati al blocco di potere economico delle fonti fossili sono disperatamente scatenati. E pazienza se trovano il sostegno dei benpensanti che si sono autoproclamati ottimisti e razionali. Siamo sempre una minoranza? Forse. In questi casi mi piace ricorrere ad una citazione attribuita ad Amedeo Bordiga: “noi non siamo pochi, siamo quanti il momento storico richiede”. Tranquilli e “alla via così”, ma sapendo che ci sono argomenti su cui non ci possono dire nulla: clima ed esaurimento delle risorse. Non hanno scampo!

Catastrofe egiziana e cazzeggiare europeo

La visita di Hollande in Egitto.

Hollande e al sisiAlcuni giorni fa il presidente francese, François Hollande, si è recato in visita ufficiale in Egitto e, per l’occasione, sono stati firmati una serie di contratti.   La notizia ha sollevato un certo scandalo fasullo in Italia.   “Cattivi francesi che fanno affari profittando che l’Italia ha delle grane con l’Egitto per via di Regeni”.   Pietosa messinscena, dal momento che noi italiani non abbiamo esitato un attimo a consegnare due dei nostri soldati all’India.   Che neanche li processa e quindi li tiene (lo tiene, perché uno poi se l’è potuta svignare) in ostaggio a tempo indeterminato.   E questo per salvare un contratto da 12 elicotteri che poi (giustamente) è saltato lo stesso.

Dunque, sgombriamo il campo dalla nostra ipocrisia e concentriamoci su quella altrui, tanto per imparare qualcosa.

Durante i discorsi ufficiali, Hollande non ha resistito alla tentazione di fare il maestrino, ricordando al dittatore egiziano che “Il rispetto dei diritti umani è un punto di forza e non di debolezza”.    Al Sisi, gli ha risposto per le rime, dicendo che, evidentemente, gli europei non si rendono neanche conto di cosa succederebbe se esplodesse l’Egitto.

Al di là della schermaglia diplomatica, cosa ci insegna questo fatterello?

Hollande ha detto una cosa perfettamente vera.   Tanto più che per accollarsi le spese e gli obblighi di uno stato la gente ha diritto di avere qualcosa in cambio.   E, tanto per cominciare, da sempre questo qualcosa è l’essere difesi, nei limiti del possibile.
Ma Hollande non è quel presidente che tiene il suo paese in stato di emergenza da mesi e a tempo ancora indeterminato?   Che voleva far passare una riforma costituzionale che gli avrebbe attribuito poteri quasi dittatoriali e che sta mettendo in galera molti più ambientalisti e sindacalisti che Jihadisti?   Quando si dice da che pulpito la predica!

D’altro canto è vero che quella di Al Sisi è una dittatura militare a tutti gli effetti e che quel che è accaduto a Regeni è probabilmente abbastanza frequente che accada agli egiziani.   Anzi, più goffi si fanno i depistaggi degli egiziani, più aumenta il legittimo sospetto che dietro questo crimine ci sia implicato qualche personaggio importante del regime.

D’altronde ricordiamoci che l’alternativa alla dittatura militare è una dittatura islamista non più tenera di quella attuale e, per di più, ben disposta verso forme di “pulizia religiosa” anziché etnica.   Ne abbiamo visto l’assaggio durante la breve presidenza Morsi.

Ma c’è anche la possibilità di una ben peggiore catastrofe egiziana, che è quella a cui ha fatto esplicito riferimento il generale: la disintegrazione dello stato e la guerra civile.   Ed in questo Al Sisi ha detto una sacrosanta verità.
Se accadesse una cosa del genere, l’intero medio oriente salterebbe in aria come un petardo e la massa dei fuggiaschi verso l’Europa non sarebbe più di milioni di persone all’anno (come oggi) bensì di decine di milioni.   Ci troveremmo costretti a decidere molto in fretta se sparare a vista sui barconi e lungo le frontiere, o se essere letteralmente sommersi da una massa di disperati in fuga.

Dunque quello che ha detto Al Sisi è sostanzialmente questo: “Guarda amico che tu hai bisogno di me.   Se io mollo scoppia un casino che né tu, né nessuno dei tuoi amichetti sarebbe neanche lontanamente in grado di fronteggiare.”   Ed ha perfettamente ragione.

Questo ci insegna una prima cosa importante: chi non è capace di gestire i fatti propri li rimette ad altri, ma così affida ad altri la propria sicurezza, finanche la propria esistenza.   Nella fattispecie, si mette nelle mani di personaggi del tipo di Al Sisi e di Erdogan (o Gheddafi, di recente memoria).   Personaggi che non solo sono dei dittatori o degli aspiranti tali, ma che neppure esitano ad alzare il prezzo; non solo in euro, ma anche in sostegno politico e militare.

La catastrofe egiziana.

Quanto potrà durare questa situazione?   Probabilmente non molto.

catastrofe egiziana demografiaLa popolazione egiziana è passata da in 50 anni da 28 a oltre 90 milioni di persone, e continua a crescere ad un tasso superiore al 2%.   Il che significa raddoppio (180 milioni) nel giro di 30 anni.    Nel 2011, quando sono scoppiate le “primavere” erano 82 milioni, nel 2015 (quattro anni dopo) erano già 92!

Il 75% della popolazione ha meno di 25 anni, il che significa che, anche se la natalità crollasse bruscamente, la popolazione continuerebbe a crescere per almeno altri 50 anni (salvo catastrofi).   Inoltre, l’egiziano medio, malgrado sia poverissimo e spesso disoccupato, ha un’impronta ecologica che supera del 200% la disponibilità del paese.   Significa che per vivere come oggi, gli ci vorrebbero 4 paesi invece di uno.   E l’impronta ecologica è un indice notoriamente molto ottimista.

L’estrazione di petrolio ha “piccato” una quindicina di anni fa ed è in calo molto rapido, quindi le importazioni dovranno comunque aumentare molto rapidamente.   Il clima sta peggiorando e la produzione agricola cala, sostituita dalle importazioni, soprattutto dall’Ucraina, paese che qualche problema ce lo ha anche lui.

Il mare si sta mangiando il delta del Nilo, la cui portata sta diminuendo sia per ragioni climatiche, sia per il disboscamento a monte.   Ma soprattutto per le derivazioni d’acqua per irrigazione in Sudan, Sudan del sud ed Etiopia, tanto che già vi sono varie minacce di guerra pendenti.  Una per ogni diga in progetto.

Dunque la catastrofe si sarà con assoluta certezza.   Non possiamo sapere quando, ma sappiamo che fra non molto ci saranno decine di milioni di persone in fuga, con ottime ragioni per farlo.   Cosa pensiamo di fare?
Sostenere il governo, quale che sia e qualunque cosa faccia anche ai nostri cittadini, è un metodo per rimandare il disastro e guadagnare tempo.   Ma la catastrofe egiziana non potrà essere evitata, qualunque cosa facciamo.

Abbiamo una strategia qualunque o pensiamo di continuare a trastullarci fra ignavia ed ipocrisia?

Trappole 4: La paura

“ La paura fa 90”, si diceva un tempo.   In effetti poche cose funzionano bene come la paura per far correre la gente.   Il problema è che se mette il turbo ai piedi, lo toglie al cervello.   In altre parole, quando si ha paura si corre veloci, ma difficilmente si sceglie la buona direzione.

Facciamo un esempio d’attualità: il terrorismo.

La parola in origine significava una forma di governo basata sul terrore.   Gli esempi storici spaziano Dionigi (tiranno di Siracusa), a Nerone, fino a Pol Pot, passando per gli immancabili Adolf & Joseph.    Ai giorni nostri  la Corea del Nord, per capirsi.   Un uso giornalistico del termine lo ha esteso a gruppi criminali più o meno politicizzati che usano il terrore come strumento per perseguire i propri scopi.   Talvolta si tratta semplicemente di controllare il traffico di stupefacenti su di una certa rotta, talaltra di acquisire fama internazionale a buon mercato; fino alla destabilizzazione di interi stati, secondo i casi.

Una sola cosa hanno in comune questi e gli altri esempi possibili: ammazzare più gente possibile più o meno a caso, in modo che l’opinione pubblica, e dietro di essa i governi, facciano quello che i terroristi desiderano.   Può essere avere i titoloni gratis sulla stampa nazionale o mondiale, come l’elargizione di soldi e protezioni in cambio di tranquillità.   Oppure il varo di norme vessatorie che allarghino la base d’appoggio dei criminali e molto altro ancora.

Ci sono molte cose che si possono fare per contrastare il terrorismo.   Molte di queste sono appannaggio dello stato: polizia, servizi segreti, esercito, eccetera.   Ma la principale rimane in carico ad ogni cittadino: non lasciarsi terrorizzare.
Quando ci sono decine o centinaia di morti la rabbia ed il dolore sono normali, la paura anche, ma il terrore è un’altra cosa.

Quanta gente ammazzano i terroristi?

La figura 1 illustra i risultati di un sondaggio che stima il rischio reale ed il rischio percepito:

rischio reale e rischio percepito

Si capisce a colpo d’occhio che ciò che fa più paura (attacco terroristico, incidente aereo, elettrosmog) non ha niente a che fare con ciò che è più pericoloso (cancro, incidente d’auto, surriscaldamento climatico).

E come andavano le cose quando la maggior parte di noi era giovane?   Decisamente i venti anni dal ’70 al ’90 sono stati assai peggiori, eppure non ci sono state le crisi di nervi collettive, né lo stato di emergenza imposto ad intere nazioni a tempo indeterminato.

image (1)Se poi andiamo a vedere la percentuale di vittime, troviamo che l’Europa è un bersaglio del tutto marginale nelle diverse strategie terroristiche attualmente in atto nel mondo: 420 morti contro oltre 108.000 nel resto del mondo. (N.B. il dato relativo agli USA è sottostimato in quanto non considera i morti in sparatorie provocate da soggetti di estrema destra.   Il dato sulla Siria non comprende i morti nei bombardamenti governativi che sono l’80% dei civili uccisi).

Questo non significa che dobbiamo far finta di niente o minimizzare.   Significa però che la nostra abituale reazione (farsi prendere dal panico) è assolutamente ingiustificata.   Peggio: è probabilmente quello che i terroristi sperano che facciamo.   Dunque è il miglior incentivo alla loro azione.

Altre fonti e studi troveranno risultati un po’ diversi, ma la sostanza non cambia: ci stiamo comportando collettivamente in modo più sbagliato possibile.

Che facciamo?

Per essere chiari, non saranno certamente le marce per la pace che fermeranno il terrorismo, ma neppure le squadracce che picchiano chi gli capita a tiro.   Il terrorismo, inteso in senso moderno, è una parte inevitabile del nostro mondo e lo sarà ancora per decenni.   Possiamo fare molto per limitarlo, ma niente per eliminarlo.   Tant’è imparare a conviverci, pur senza smettere di ostacolarlo.   Il desiderio di sicurezza è legittimo e naturale, ma può facilmente condurre a qualcosa di infinitamente peggio di una certa dose di terrorismo criminale: un terrorismo di stato.   Perché dai criminali, almeno in parte, ti protegge lo stato, ma dallo stato, chi ti proteggerebbe?

E qui torniamo agli esempi storici di terrorismo.   Se è vero che probabilmente l’unico governo attuale autenticamente terrorista è quello di Kim Jong-Un, è altrettanto vero che sono molti i governi che stanno adottando la paura non solo come metodo di repressione del crimine, ma anche come strumento politico.   La fine di Regeni è abbastanza indicativa in questo senso, ma sono tanti i paesi dove essere all’opposizione costa la vita od il carcere.
Perfino nel cuore dell’Europa assistiamo ad una deriva simile.   I provvedimenti turchi contro la libertà di stampa, lo stato d’emergenza sine die in Francia sono solo la punta di un iceberg che stiamo assemblando pezzo per pezzo.   Siamo ancora molto lontani da governi terroristi, ma la distanza diminuisce e l’esperienza dimostra che la differenza fra protezione e prevaricazione tende a sfumare col tempo.

libertà versus sicurezza

La gradualità è il modo migliore per rendere impercettibile l’attraversamento di certe soglie che, viceversa, dovrebbero essere evitate a qualunque costo.   Anche a costo di morire per mano di una banda di pazzi criminali.

Perché si? Perché no!

image

L’avete già capito. E ve l’aspettavate. Noi di Crisis da sempre siamo per uscire dal petrolitico, l’era del petrolio bruciato. Da sempre siamo per uno sviluppo accelerato delle energie rinnovabili e di una economia evolutiva, ovvero re distributiva e non della crescita. Per l’abbandono del concetto di consumatore, base, manco a dirlo del consumismo e inesorabilmente dell’economia del debito. QUINDI è ovvio che, in merito al prossimo referendum, siamo per votare sì, per tutti gli ottimi motivi esposti da tutti i fautori del si. Do per scontato che sappiate di cosa si tratti. In fondo siamo su Crisis, mica su casabella&cento cose cool della prossima estate.

Quindi: perché votare sì? Perché no. Non è una buona idea continuare a cavare petrolio nei nostri mari. Ma questo, già ve l’hanno detto.

Bene. Ok. E ALLORA?

Allora, per dare un contributo un filo controcorrente, mettiamoci, per un attimo, il cappello con su scritto: i love oil.

Bene: se ami davvero il petrolio, se trivellare madre terra e’il tuo personale modo di interagire con il mondo in mancanza di donne, se conservi con amore una fiala di petrolio di Gawar, beh, proprio in questo caso, perfino in questo caso, il tuo amatissimo petrolio lo dovresti lasciare sotto terra. Intanto perché bruciare una cosa preziosa ed indispensabile come il petrolio, una cosa dalla quale si fanno fertilizzanti, medicine e la base plastica del tuo civilizzatissimo mondo, e’ da idioti. Eh sì, perché oltre i due terzi del petrolio viene bruciato subito, ho idea che lo sappiate, ed il terzo rimanente, venendo riciclato in minima parte,  finisce comunque bruciato, con grande gioia degli alveoli polmonari di qualche vivente nei dintorni.

Che peccato, no, per chi ama tanto il petrolio, il mistero della sua origine, il suo ancestrale olezzo di distillato invecchiato milioni di anni in geo barrique? E poi, non è certo un grande affare. Trivellare e produrre oggi significa rinunciare ai due terzi, forse all’80%, dei guadagni possibili. Perché il prezzo del barile( e quindi del metro cubo di metano) risalirà, statene certi e risalirà a livelli ancora più alti di quelli rivisti negli anni passati. Conviene, quindi, lasciarlo dormire sottoterra. Tenerselo buono buono per un decennio o due. Magari cinque o sei. Sarà un affare migliore tirarlo fuori quando sarà finalmente compreso, l’oro nero. Quando a nessuno passerà più per la testa di bruciarlo o sprecarlo.  Quando il suo costo al litro sarà più alto di quello di un litro di buon rosso di carmignano.

Si vabbe, torna sulla Terra, dai.

Hai ragione, coraggioso lettore di Crisis ed eccomi di nuovo qui.

Restando tra di noi mi pare ancora più semplice. La produzione metanifera e petrolifera nostrana, mai lontanamente in grado di renderci autosufficienti, e’ da anni in forte calo, per puri motivi di sfiga geologica. Abbiamo una geologia vivace e piuttosto attiva ed interessante nel senso della maledizione cinese e questo mal si accorda con succulenti giacimenti. Far fuori il poco che resta non è quindi una buona idea in termini strategici. Non supereremo mai la produzione attuale, che vale qualche per cento dei nostri fabbisogni. Quindi tanto vale aspettare quando, in un futuro, avremo fortemente ridotto la nostra dipendenza dalla combustione di krill morto milioni di anni fa.

La stessa identica produzione di petrolio e metano  sarà allora una percentuale assai più importante dei nostri fabbisogni e darà un contributo proporzionalmente maggiore al benessere della nostra bilancia dei pagamenti.

Eh, ma i posti di lavoro…nessuna paura.

Se c’è un settore che non conoscerà crisi se non momentanee e’quello delle estrazioni. Tocchera’ girare il mondo, certo. Ma l’hai scelto tu, bellezza, un ben remunerato lavoro di merda. E poi…andiamo, non si può usare la stessa scusa tutte le volte. L’hanno già usata per il salvataggio di Banca Etruria, degli&dagli amici babbioni del babbino della madrina della madre di tutte le riforme costituzionali…

Il cielo sopra il mondo

Aracoeli(tra l’Altare della Patria e la piazza del Campidoglio sorge la Basilica di Santa Maria in Aracoeli, eretta nel VI secolo sul sito di un preesistente tempio romano. Vi si accede per mezzo di una lunga e ripida scalinata e fu luogo, diversi anni fa, di una delle esperienze più profonde, intense e spiazzanti della mia vita)

È un sabato pomeriggio. Con mia moglie abbiamo deciso di fare un po’ i ‘turisti in casa’, andando a passeggiare nel centro storico, senza una meta precisa. Quando ci ritroviamo a passare sotto la chiesa dell’Aracoeli vediamo un’ambulanza ferma, e mi rendo conto che in cima alla scalinata sta accadendo qualcosa. Un gruppo di paramedici si sta dando da fare su di un corpo steso a terra. Non so esattamente cosa mi muove, Emanuela vuole andar via, io sento che il mio posto è lassù. La convinco e saliamo lentamente le scale.

Giunti in cima ci troviamo di fronte una scena surreale. I paramedici stanno praticando il massaggio cardiaco sul corpo di un uomo a terra. Accanto a loro due donne, di età diversa (moglie e figlia, penso) li osservano ammutolite. Nessuno osa parlare. Sotto di noi, lontani, i suoni attutiti della città ci raggiungono da una distanza che appare incolmabile. Sopra le nostre teste, nere nuvole temporalesche creano una luce cupa, rarissima da osservare. Sembra la scena di un film. Non un film qualsiasi. È Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.

Wenders
Nel film il protagonista è un angelo. La realtà degli angeli coesiste con la nostra, ma su un piano diverso. Gli angeli vedono un mondo in bianco e nero, privo di suoni. Non sentono le parole degli uomini, ma ne ascoltano i pensieri. Non possono interagire né interferire. Provano a consolarli quando sono disperati, ma molto spesso sono semplici testimoni dei fatti che accadono: della vita, del dolore, della morte. In cima a quella scalinata, sotto un cielo plumbeo, mentre abbraccio mia moglie senza parlare, mi sento così: mero testimone di un momento di passaggio, forse l’ultimo, per un mio simile. Il passaggio del confine tra la vita e la morte.

Cerco di immaginare i momenti precedenti. La famiglia in vacanza. La decisione di salire a vedere quella chiesa. La scalinata, forse troppo lunga e ripida per quell’uomo corpulento, di mezza età. Sull’ultimo gradino l’arresto cardiaco. Le due donne, poco prima allegre, improvvisamente sole di fronte alla tragedia inaspettata. Il mondo, sotto di loro, che indifferente va avanti con le sue routines. Osservo commosso questa scena cercando di darle un senso. Un senso difficile da trovare.

Dopo un tempo non quantificabile, dieci minuti, forse venti, i paramedici smettono di praticare i tentativi di rianimazione. Si fermano stremati a contemplare il corpo esanime. Io ed Emanuela entriamo in chiesa, storditi, lei per pregare, io per riflettere. All’interno della chiesa è in corso una funzione religiosa: una messa del sabato pomeriggio celebrata per una manciata di astanti, in prevalenza anziani. Dopo poco il sacerdote, informato dell’accaduto, interrompe la funzione. Avvisa che deve recarsi all’esterno per impartire l’estrema unzione al defunto, si allontana dall’altare a passi lenti e gravi.

Da ateo non posso partecipare alla dimensione trascendente della celebrazione, ma mi colpisce, all’improvviso, quel grumo di umanità, quel piccolo popolo legato a riti antichi. Percepisco la loro esigenza di una dimensione umana che travalichi il consumismo, il mero desiderio di oggetti inanimati. Comprendo, almeno in parte, la contrapposizione tra materialismo e trascendenza in una chiave di conflitto ideologico.

Pur ateo, la filosofia cristiana all’interno della quale sono stato cresciuto (e che ho introiettato, nonostante la rinuncia alla dimensione teologica) mi spinge ad agire in termini cooperativi, solidali, a considerare le dinamiche egoistiche e competitive come una strategia erronea dell’agire umano. Nonostante ciò devo riconoscere in questo momento storico il primato della sopraffazione. Come conciliare teoria e realtà?

Seguendo un filo di analisi che avevo già introdotto nel finale di un precedente post, la mia conclusione attuale è che competizione e cooperazione restano le due dinamiche portanti del comportamento umano, ma il punto di equilibrio è determinato dal contesto, ed il contesto che abbiamo sviluppato nell’arco dei millenni è totalmente diverso da quello che ha dato origine all’etica ebraica prima, e cristiana in seguito.

L’etica ebraico-cristiana, elaborata in seno ad un popolo disperso di pastori nomadi, fornisce indirizzi efficaci in situazioni di povertà di risorse e scarsità d’individui. Dato un simile contesto, la solidarietà, la condivisione, l’aiuto reciproco contribuiscono fattivamente al benessere delle comunità ed alla loro prosperità. Ma il mondo che ha visto la luce in seguito alla rivoluzione industriale non presenta più queste caratteristiche.

Il mondo in cui viviamo oggi è dominato dalla sovrabbondanza di beni e di popolazione, animato da collegamenti veloci che consentono di trasferire rapidamente persone e beni materiali da un paese all’altro, da un continente all’altro. Regolato da legislazioni che favoriscono l’accumulo di ricchezza in poche mani, perfettamente compatibili con pesanti disparità sociali che producono masse sfruttate da un lato ed oligarchie economico-finanziarie dall’altro.

In questo contesto l’etica solidale cristiana risulta ancora premiante al livello dei singoli individui, delle relazioni interpersonali, ma le modalità predatorie tipiche dell’accumulazione capitalista offrono vantaggi sconfinati per quanto riguarda le manipolazioni su vasta scala, dai singoli paesi ad interi continenti. Nella modernità globalizzata, singoli egoismi individuali possono arrivare a disporre di un potere di gran lunga superiore a quello esercitabile dalla vasta maggioranza della popolazione, grazie al controllo sulla politica e sui mezzi di comunicazione, alla propaganda strisciante ed onnipresente, alla menzogna reiterata.

Eppure anche questo momento storico  folle, estemporaneo ed esplosivo, si schianterà di fronte ai limiti fisici del pianeta che ci ospita. La cultura dell’accumulo egoistico dovrà sperabilmente far posto a quella della ridistribuzione, perché l’alternativa produrrebbe paesi spopolati ed indeboliti. Non possiamo dare per scontato che questo avvenga nell’immediato.  Nel secolo scorso il crollo dei mercati degli anni ’20, ed il conseguente impoverimento delle popolazioni, produssero al contrario ideologie fortemente aggressive come il Fascismo in Italia e il Nazismo in Germania.

Quale tipo di etica, o di ideologia, o di religione potrà guidare la transizione verso una cultura a minor impatto ambientale non ci è dato sapere, probabilmente deve ancora essere formulata. Abbiamo accumulato negli anni una lunga serie di tesi puramente razionali, ma sappiamo bene quanto poco la razionalità riesca a pesare nei momenti di crisi sociale. Converrà trovare il modo di elaborare una nuova Idea del Mondo nel tempo che ancora ci resta, a rischio di non poterne disporre quando ne avremo un disperato bisogno.

Gli idoli della modernità

Dopo Armi, acciaio e malattie, breve storia degli ultimi tredicimila anni non ho potuto resistere alla tentazione di leggermi al più presto anche il successivo libro di Jared Diamond: Collasso, come le società scelgono di morire o vivere. Se nel precedente l’attenzione era concentrata sull’evoluzione delle civiltà, qui l’autore cerca di comprendere i meccanismi alla base della loro fine.

Il nostro pianeta conserva i resti di innumerevoli civiltà, fiorite in luoghi diversi solo per poi sparire completamente, in modi misteriosi, lasciando dietro di sé templi ed idoli di una magnificenza sconcertante se si considera che furono prodotti da popoli in grado di maneggiare unicamente strumenti di legno e pietra.

Gli strumenti scientifici attuali ci consentono di ricostruire molta della storia di questi popoli con tecniche incredibili, fino a comprendere l’evoluzione dell’habitat naturale e delle abitudini alimentari nell’arco di secoli a partire dall’analisi microscopica dei resti abbandonati di antiche discariche e cimiteri.

La sconcertante civiltà dell’isola di Pasqua compare già nei primi capitoli del libro. Lontanissima da tutte le altre terre, circondata dal Pacifico per migliaia di chilometri, fu popolata intorno all’anno 1000 d.c. dai polinesiani, solo per perdere quasi subito ogni contatto con le isole da cui la colonizzazione partì.

Sull’isola si sviluppo’ una bizzarra civiltà, che costruì ed innalzò centinaia di enormi statue per ingraziarsi la benevolenza degli antenati, i Moai. La fabbricazione ed il trasporto di questi idoli di pietra causò la totale deforestazione dell’isola, finendo col rappresentare un enigma insolubile per i secoli a venire dopo la sua riscoperta da parte degli europei.

Nell’arco di circa sette secoli, un’isola che ora sappiamo coperta originariamente da una lussureggiante foresta di enormi palme (una specie endemica dell’isola, ora completamente estinta) e popolata da sterminate colonie di uccelli marini, fu ridotta ad una landa brulla e desolata in cui poche centinaia di abitanti si arrabattavano a sopravvivere coltivando poche varietà commestibili e ricorrendo di necessità, per colmare il deficit di proteine nell’alimentazione, al cannibalismo.

L’immensa foresta dovette sembrare, ai primi colonizzatori, una ricchezza enorme ed inesauribile, la crescita della popolazione un fatto inevitabile ed anzi ben accetto, la costruzione dei primi Moai una semplice forma di ringraziamento degli antenati. Poi qualcosa andò storto, o forse andò nell’unico modo in cui poteva andare: la fabbricazione delle statue divenne essenziale per la conservazione della struttura sociale che si era venuta a creare.

La costruzione dei Moai e delle piattaforme che li sostenevano divenne la principale attività “industriale” dell’isola, coinvolgendo migliaia di persone. Ciò rese il processo inarrestabile e portò al completo annientamento della foresta ed al conseguente esaurimento del legname indispensabile al trasporto. Nella cava di Rano Raraku restano ad oggi quasi 400 statue incomplete, segno che la popolazione era totalmente inconsapevole del destino cui stava andando incontro.

Con l’abbattimento della foresta di palme, che offriva cibo e rifugio agli uccelli marini, le condizioni di vita divennero ben presto insostenibili, la carenza di cibo innescò guerre tra le diverse fazioni dell’isola, ed anche tutti i Moai innalzati fin lì, in una forma di rabbiosa quanto sciocca vendetta, vennero abbattuti. La popolazione precipitò dai 15-20.000 individui del momento di massimo splendore a poche centinaia al momento del contatto con gli europei, che ne completarono la decimazione con le deportazioni e la trasmissione di malattie mortali.

Che insegnamento possiamo trarre da questa vicenda che ci riguardi direttamente? Certo è che i comportamenti umani sono tutti molto simili, e come gli abitanti dell’isola di Pasqua non si resero conto delle conseguenze a lungo termine delle loro attività, anche noi potremmo fare altrettanto: condurre la nostra società ad un tale livello di sovrappopolazione e sfruttamento di risorse non rinnovabili da rendere impossibile invertire o arrestare il processo.

Ed, al pari dei Moai, anche noi potremmo aver prodotto delle entità totemiche alle quali tutti guardano con venerazione e rispetto, la cui “necessità” non può essere messa in discussione, che rappresentano la principale attività industriale del mondo moderno (la prima voce nel consumo di risorse non rinnovabili) e che tendono a crescere in dimensioni, “status” e consumi man mano che si va avanti negli anni.

A voi questa descrizione cosa fa venire in mente?