La mattanza delle alberature

di Jacopo Simonetta

Nell’agosto del 2017, nel bel mezzo dell’estate più torrida e secca mai registrata, il sindaco di Firenze, Dario Nardella, ha ordinato di abbattere parecchie centinaia di grandi alberi.   Senza entrare qui nei dettagli della polemica che ne è seguita, vorrei far osservare che si è trattato solo di uno fra gli infiniti esempi del genere.   Dopo un paio di secoli trascorsi a piantare alberi lungo strade e viali, in mezzo alle piazze e nei giardini, da almeno un paio di decenni si è diffusa e radicata la moda esattamente contraria.  Le amministrazioni pubbliche di ogni ordine e grado, oltre che la netta maggioranza dei proprietari di parchi e giardini, si dedicano ad eliminare gli alberi con uno zelo proporzionale alle dimensioni delle piante: più sono grandi, più volentieri si abbattono.  Perfino il codice stradale prevede l’eliminazione delle alberature che, fino a qualche decennio fa, costituivano il vanto di molte strade.
Il risultato è che il patrimonio arboreo urbano è tracollato e continua ad essere falcidiato giorno per giorno con uno zelo difficile da capire.  Vediamo quindi brevemente i principali motivi addotti per giustificare tutto ciò.

1 – Gli alberi sono pericolosi perché provocano incidenti.   Questa è semplicemente demenziale, non si è infatti mai visto un albero pararsi davanti ad un’auto in corsa, mentre spesso sono gli automobilisti che vanno a sbattere contro gli alberi, soprattutto dopo aver bevuto assai.

2- Gli alberi sono pericolosi perché cadono.  Questo è vero, ma qualunque cosa sia posta in alto può cadere: pali della luce e del telefono, tetti e cornicioni, persiane e molto altro ancora; eliminiamo tutto ciò? A questo proposito, un punto importante è che ciò che conferisce stabilità ad un albero è prima di tutto la buona salute che è difficile da diagnosticare con certezza, mentre è molto facile da danneggiare.  In questo campo amministrazioni pubbliche e privati cittadini sono maestri.  Il metodo più diffuso ed efficace per minare irreversibilmente la salute di una grande pianta è capitozzarne i rami principali.   Anche lo scavo di trincee attraverso gli apparati radicali è un metodo in voga e molto efficace, mentre asfaltare e/o cementare a ridosso della pianta porta a risultati più incerti e differiti nel tempo.   Per buona misura comunque, spesso si usano tutti e tre i sistemi ed i risultati infatti non mancano.   Spesso ciò deriva da grossolana ignoranza, ma talvolta viene fatto scientemente perché quando una pianta è gravemente malata è davvero pericolosa e nessuno può ragionevolmente opporsi al suo abbattimento.
In estrema sintesi: non esiste un modo per essere certi che un albero non cada mai, ma esistono molti modi per accertarsi che cada e tutti fanno parte delle ordinarie “cure colturali” cui sono sottoposte le alberature urbane,

3 – Gli alberi occupano spazio.  Vero, infatti spesso si eliminano per ampliare carreggiate e parcheggi.   Oggi lo spazio fisico è spesso una risorsa limitata, specie in città, e nella competizione fra alberi e automobili vincono le seconde a mani basse.   Alla fine, è solo una questione di priorità.

4 – Gli alberi sporcano.   Con il termine “sporco” di solito ci si riferisce alle foglie secche, ma anche agli esudati che talvolta stillano durante l’estate e perfino al guano degli uccelli.   Parlando di parchi e giardini, le foglie sono semplicemente quella cosa che è necessaria per mantenere la fertilità del terreno e, dunque, la buona salute del giardino stesso.   Certo è necessario toglierle da certe zone ed ammucchiarle in altre, ricordandosi che un parco od un giardino non sono la stessa cosa di un salotto e che il suolo è un sistema dinamico assai più complesso di un pavimento.  E noi, membri della società più complessa mai esistita, amiamo prima di tutto le cose lisce e prive di vita: il lastrone di cemento corrisponde al meglio al nostro concetto di “pulito”.    Anche se magari è coperto di polveri cancerogene.
Parlando invece di strade e piazze, la faccenda effettivamente si complica perché è necessario spazzare le foglie prima che intasino le fognature.   Un fatto che ci rimanda al punto seguente.

5 – Gli alberi costano.    A seconda di dove e come sono, può effettivamente essere necessario potarli e, comunque, è necessario raccogliere le foglie cadute.   Dunque che costano è vero, ma se si scelgono le piante giuste per i posti giusti, sono assai poco dispendiosi, mentre danno un contributo insostituibile per rendere vivibili anche i quartieri più degradati. Sono molti gli studi che hanno cercato di quantificare i vantaggi delle alberature urbane ed i risultati sono tanto impressionanti quanto inutili.  Infatti, per quanto i vantaggi possano essere numerosi, sui bilanci pubblici e privati figurano in modo molto indiretto e complicato, mentre le spese per spazzare le strade, pulire gli scoli eccetera sono dirette e ben evidenti. Come nel caso delle esternalità negative, che pure stanno falcidiando intere economie, anche le esternalità positive non riescono a penetrare le meningi di amministratori ed amministrati.

6 – Gli alberi danneggiano le strade ed i marciapiedi. Questo a volte accade per difetto di chi ha costruito strade e marciapiedi troppo a ridosso delle piante, ma talaltra deriva da una scelta sbagliata degli alberi da usare.  Per esempio, si sa benissimo che il pino domestico solleva l’asfalto anche a parecchi metri di distanza dal tronco.   Ci sono casi in cui può quindi essere necessario sostituire le piante.  Cosa che effettivamente talvolta viene fatta, solitamente piantando qualcosa che resterà certamente piccolo e poco frondoso.  E se poi non sopravvive al trapianto, tanto di guadagnato (v. punti precedenti).

E dunque? Come per molti altri aspetti connessi con l’insostenibilità e con la corsa collettiva verso il futuro peggiore possibile, l’unica cosa che è possibile fare è proteggere gli alberi propri, anche se questo significa assai spesso avere grane coi vicini.  E se le grane approdano in sede legale, sappiate da subito che sempre e comunque l’albero perde.

Per quanto riguarda le alberature pubbliche, le poche e spuntate armi a disposizione sono i consueti comitati di piantagrane e la ricerca spasmodica di un cavillo legale cui appigliarsi.  Niente di risolutivo, s’intende, ma serve a guadagnare tempo, sperando che nel frattempo qualcosa cambi. Talvolta succede e quindi vale la pena provarci.

 

 

Irma la dolce

Il riferimento è ad un simpatico film di oltre 50 anni fa, con Shirley Mc Laine e Jack Lemon.

Cosa c’entra, con un uragano tra i più potenti e devastanti, forse il più devastante in assoluto, di tutti i tempi?

C’entra, perché l’uragano, in effetti è dolce, dolcissimo rispetto a quel che abbiamo combinato e stiamo combinando NOI al pianeta.

Catastrofismo?

Si, certo. Questo è un post breve e catastrofistico, un rapido riassunto di quello che stiamo facendo.

A parte la probabile circostanza che la crescente frequenza ed intensità di eventi estremi come questo siano dovuti al riscaldamento globale di origine antropica, il punto è che, probabilmente, per le aree interessate e per tutto il pianeta, questo evento rappresenterà in retrospettiva un segnale DOLCE e delicato di quel che accadrà quando le conseguenze del nostro modo di vivere si riverbereranno completamente prima sul pianeta e poi sui 7.5 miliardi di esseri umani.

Come l’esperienza passata ci insegna, non vi è catastrofe naturale che abbia causato più morti di quelle scatenate dall’uomo, morti generalmente in condizioni e modi più atroci di quelli naturali.

La desertificazione e la sovrappopolazione stanno già causando più morti, con ogni probabilità di Irma. In realtà la semplice tragedia dei migranti, nelle nostre acque, uccide migliaia di persone l’anno, in mare e ne ucciderà sempre di più, magari a terra, lontano dai nostri sensibili occhi, in qualche forma di “outsourcing dei gulag”, una invenzione di noi italiani, con l’aiuto dei capetti libici. Più morti, e in condizioni più atroci di quelli che ( finora) ha fatto Irma.

Ma questo è solo l’inizio di una lenta apocalisse che coinvolgerà miliardi di persone e che non avverrà tra venti o trenta anni ma ha già cominciato ad avvenire.

Stiamo esaurendo l’acqua che irriga metà dei campi coltivabili del mondo. Stiamo esaurendo il suolo sotto oltre il 90% dei campi coltivati del mondo. Stiamo avvelenando l’acqua che resta e l’aria che respiriamo. Stiamo esaurendo le risorse minerarie del pianeta, nel mentre ne stiamo sconvolgendo e questa è la cosa più evidente ma, ripeto NON la più grave, il clima.

Stiamo anche dimostrando che POTREMMO fare qualcosa per evitare la situazione ed in effetti qualcosa stiamo facendo. Solo che, l’evidenza è li per dircelo, non abbastanza e non abbastanza in fretta per evitare l’impatto con la realtà di una ingordigia infinita su un pianeta finito.

Ovviamente le persone che tendono a morire di fame, che non vedono speranze nel proprio futuro, tendono  a fare qualcosa di disperato. E tendenzialmente questo qualcosa viene prima tentato camminando e poi, non bastando, sparando.

Il destino che ci siamo tracciati, che ci stiamo tracciando, è fatto di disastri come Irma, comunque declinati, che faranno da sottofondo a quelli, molto ma molto più gravi, direttamente causati dagli umani. Alle guerre, carestie, migrazioni, collassi. Per i nostri figli, ma anche per noi, un poco più vecchi, stiamo disegnando un mondo di distruzione morte disperazione. Dal quale FORSE emergeranno un decimo delle specie viventi esistenti sul pianeta. Da non confondere, come percentuale, con il numero di ESEMPLARI, di ogni specie. Eh, si, perché per salvare una qualunque specie basta poco, bastano poche migliaia, anche poche centinaia di individui.

Ce la faranno gli uomini a sopravvivere? Certo. Siamo MILIARDI,  Non ci estingueremo. COME vivranno i nostri posteri e, se per quello, come vivremo NOI, cosa resterà delle nostre cosiddette civiltà e culture, è una questione da dibattere, ma, via via che esauriamo il tempo rimasto, le incertezze sugli scenari possibili, ci stiamo disegnando una traiettoria di uscita che prevede una qualche forma di annientamento per buona parte di quello e di quelli che conosciamo. Irma la dolce, si, rispetto a quello che stiamo bollendo in pentola.

Cronache del dopo bomba

Guarda figliolo! Un giorno il mondo sarà nostro!

Ok, forse dopotutto, non e’stata una grande idea.

Alcune migliaia di anni di storia umana o, più semplicemente, qualche decennio di personale esperienza sulle liti tra condomini, ci avrebbero dovuto consigliare maggiore prudenza. Come sapete tutti, all’inizio nessuno aveva preso molto sul serio il regime di Pyongyang. Un regime vetero comunista ed ipermilitarizzato, con un dittatore dalla zazzera improbabile e dalla ferocia paranoica, affamatore del proprio popolo. Sostanzialmente isolato dal resto del mondo, compresa la grande alleata di sempre, la Cina, che da almeno un paio di decenni preferiva di gran lunga fare affari ed intessere relazioni economiche ed industriali con la Corea del sud, piuttosto che risvegliare i fantasmi di una feroce lontana ed inutile guerra, materializzati dalla linea di armistizio lungo il 38esimo parallelo.

Paradossalmente, e’ stato proprio il crescente isolamento, insieme alla sindrome di accerchiamento, a spingere il regime a ricercare l’atomica, non preso sul serio, almeno all’inizio, da nessuno.
Gli sbeffeggiamenti sono continuati per qualche anno, tra test falliti, esplosioni mancate o quasi, missili che si spetasciavano appena partiti, etc, etc.

Poi, ad un certo punto, un test e’riuscito. Una bomba atomica, per quanto piccola ed inefficiente, e’ esplosa, la prima al mondo, da decenni a questa parte.  All’improvviso il ridicolo e sanguinario dittatore, che fucilava a cannonate i dirigenti che si addormentavano ai suoi discorsi o dava in pasto ai cani suo zio, si e’imposto sulla scena del mondo. In verità quel che voleva il regime era riaprire una trattativa con l’altra meta del paese, quella ricca e moderna, senza il cappello in mano, su basi paritarie. Oltre, naturalmente rinforzare la posizione interna, titillando, come ogni regime che si rispetti, il desiderio e la speranza di una futura grandezza internazionale, in un presente di fame più che letterale.

In ogni caso, una bomba atomica, da che mondo e’ mondo, non e’mai stata un’arma di offesa ma di difesa, specialmente quando i nemici hanno la bomba atomica anche loro. Sapendo di non avere speranza in un eventuale confronto, si cercava di rendere poco appetibile un attacco, nel contempo candidandosi o sperando di candidarsi ad un ruolo di potenziale potenza regionale. Insomma: la speranza era quella di potersi sedere ai tavoli diplomatici internazionali e sperare che le proprie istanze fossero ascoltate.
Di certo, nemmeno un Pazzoide, come il “brillante compagno” Kim Jong-Un, ha mai pensato seriamente di attaccare la Corea del sud o il Giappone o gli Stati Uniti. Anche solo il confronto tra le forze già schierate lungo il 38 esimo parallelo essendo sufficiente a comprendere che un attacco, improvviso o meno, motivato o meno, non avrebbe avuto la benché minima probabilità di successo.

In effetti una pantomima molto simile si era svolta, solo pochi anni prima, in medio oriente, con il programma nucleare iraniano.

Anche qui un misto di orgoglio nazionalistico, la necessita di focalizzare il malcontento interno verso i nemici esterni e la volontà di mantenere una leadership regionale storica ed ultra secolare, uniti al fatto che l’arcinemico Israele era a sua volta dotato di bomba atomica, avevano portato ad un convinto programma nucleare, sia pur debolmente velato da supposti sviluppi civili. In verità per le centrali nucleari civili non c’e’alcun bisogno di creare impianti di trattamento ed arricchimento su grande scala, potendosi rivolgere al mercato internazionale o comunque potendo fermare l’arricchimento ( il processo che innalza la % di uranio 235, radioattivo, rispetto all’Uranio 238, non radioattivo )al 5% e non al 90% necessario per le bombe. Comunque sia, dopo minacce, sanzioni, feroci proclami vicendevoli, era bastato un Presidente USA dotato di buon senso per comprendere che l’Iran non aveva alcuna intenzione di scatenare una suicida guerra santa contro Israele ma semplicemente vedere riconosciuto il proprio ruolo e prestigio locale. Senza contare, ovviamente, le sempre aperte questioni sulle aree di sfruttamento del petrolio e del gas naturale nel Golfo.
Poi è arrivato il Nuovo Presidente USA, diversamente biondo, una caricatura ambulante da reality, un Briatore meno di successo ( e’ praticamente fallito tre o quattro volte) ed infinitamente meno sveglio e globalizzato. Inutilmente tenuto a freno dall’establishment ed anzi sempre più circondatosi di yes-man, si e’convinto che una bella botta di machismo bellicistico in politica estera era quello che ci voleva.

Non certo in Siria, dove non si capiva chi fossero i “buoni” da “aiutare” ed i cattivi da sterminare, quanto in Corea, dove invece il cattivo c’era e non sembrava nemmeno tanto pericoloso, visto l’esercito con le scarpe sfondate ed i carri armati vecchi di 50 anni e senza benzina. Era sembrata una cosa facile, un modo per compattare il paese al grido di “America first!”   in un momento in cui perfino i suoi elettori sembravano aver capito l’enorme cappellata fatta votando lo zazzeruto palazzinaro.
Qualche minaccia, due o tre giri di sanzioni, un paio di ultimatum e poi una scarica di missili cruise, seguita da un paio settimane di bombardamenti mirati e, se proprio proprio necessario, una rapida e decisiva campagna militare. Il tutto avrebbe portato alla riunificazione delle due Coree, dato un chiaro segnale alla potenza locale dominante ( la Cina) ed aperto nuovi mercati ai prodotti americani: potete contare sui nostri ragazzi e sulle nostre portaerei ( almeno quelle che funzionano)  ma in cambio, dovete abolire dazi, barriere o normative che impediscano la libera circolazione dei nostri prodotti e, sopratutto, dei nostri capitali.

Una cosa già fatta talmente tante altre volte (con successo variabile, veramente) da non dover nemmeno essere troppo pianificata. In ogni caso le potentissime lobbies degli armamenti , mal che andasse, sarebbero state, d’ora in poi, dalla sua parte, senza contare la finanza, ovviamente.
Ci voleva un pretesto e, naturalmente, all’ennesimo lancio di un missile, caduto più per sbaglio che per volontà a meno di un chilometro da un’isola con una base USA, il pretesto era arrivato.

Le cose erano andate come previsto e, dopo un paio di settimane, il regime era allo stremo, le forze armate allo sbando, la popolazione affamata ed in preda al panico.  Il regime aveva in effetti provato a lanciare  un paio di dozzine di missili ma erano stati tutti intercettati e comunque, a parte forse uno, caduto in mare, avevano tutti testate convenzionali.  Poi, d’un tratto come troppo spesso succede nelle vicende umane, era successo l’inimmaginabile.

Un piccolo aereo da trasporto, con a bordo alcuni alti dignitari del regime, si era fatto intercettare e dirottare in un aeroporto militare, vicino a Seul. Sembrava una delegazione venuta per trattare la tregua o la resa, ma era invece una missione suicida, concepita dai più fanatici seguaci di Kim.

A bordo del piccolo aereo c’erano dieci testate nucleari da circa 25 chiloton l’una. Buona parte dell’arsenale nucleare a disposizione del regime. Nell’insieme circa dieci volta la potenza dell’ordigno di Hiroshima. A causa della tecnologia di basso livello, della scarsa purezza dell’Uranio impiegato, della scarsa qualità della realizzazione dei detonatori etc etc, la reazione a catena era stata interrotta precocemente e l’esplosione era stata molto meno potente di quella teoricamente possibile. Anche così buona parte di Seoul era stata devastata, i morti erano stati centinaia di migliaia, i feriti milioni. Si era scoperto, per l’occasione, che i grattacieli con le pareti di vetro sono trappole mortali, anche quando la distanza dall’esplosione e’tale da  mettere teoricamente al sicuro dai suoi effetti. Migliaia di persone erano state uccise dai vetri che cadevano in strada o verso l’interno. Vi erano stati morti anche a 15 km di distanza dall’esplosione.

Nell’olocausto erano morti anche quindicimila soldati americani, intere famiglie,  general contractors,  squali e  squaletti dell’industria bellica etc etc. Oltre, ovviamente, a migliaia di cittadini del resto dell’occidente, cinesi, russi. Il mondo era restato con il fiato sospeso, attonito, come un bambino che si accorge che aprire la gabbia del leone allo zoo e’una cosa seria e non poi tanto divertente.

Dopo un ennesimo ultimatum, era arrivata, inevitabile, la risposta americana. Preceduta da avvisi alla popolazione, inutili visto la mancanza di mezzi di comunicazione non in mano al regime, ma utile per salvarsi la faccia, dieci atomiche tattiche, seguite da altre 15, avevano cancellato le principali basi militari del regime, centri di controllo ed assembramenti truppe, aprendo la strada ad una rapida conquista ed al collasso del  figlio del “caro leader”.

Si erano contate circa un paio di milioni di vittime e quattro milioni di feriti, buona parte senza molte speranze di guarigione.

Il problema, a vederlo oggi, non erano i milioni di morti. Sulla testa dei quali, tutte le potenze nucleari riunite avevano giurato solennemente: mai più e mai poi!

Il problema era che si era creato un precedente, in un mondo sempre più in ebollizione.

Due anni dopo c’era stata la storia di Formosa.  Poi il colpo di stato militar/estremistico in Pakistan, con le tre guerre regionali conseguenti…come e’andata lo sapete. Alla fine ogni regime “atomico” soccombente ( nonostante i veti internazionali molti altri regimi si erano affrettati a farsi il proprio arsenale atomico) aveva, piu’ o meno, seguito le orme di Pyongyang. E poi, quando già cominciavano a verificarsi in tutto il mondo  i primi segni di leucemie da radiazione, era successo il patacrac, in un crescendo trilaterale e folle in cui le maggiori potenze nucleari avevano svuotato il loro arsenale sui rispettivi territori ma, più che altro, su buona parte dell’Asia.

Benché l’Africa, l’Oceania, il sud America e, stranamente, buona parte dell’Europa avessero scampato il peggio, non avevano potuto evitare i dieci anni di oscuramento solare ed inverno nucleare seguiti all’olocausto. Senza contare i morti per antrace ed altri agenti biologici, sparsi a piene mani da chi non poteva permettersi la bomba.

Quando il sole era tornato a splendere, si era salvato solo un essere umano su 100, comunque sempre 80 milioni di persone, per lo più ridotto ad una agricoltura di sussistenza ( peraltro su terreni piuttosto radioattivi) ed al saccheggio delle strutture rimaste…come voi quattro lettori sapete benissimo.

Con il senno del poi, avremmo dovuto saperlo. Con migliaia di anni di Storia ad urlarcelo, non avremmo dovuto avere dubbi.


Quando hai un’arma nell’arsenale, prima o poi la userai. Quando l’hai usata la prima volta, troverai sempre ottimi motivi per usarla ancora ed ancora…

Vabbe’ sono cose che ben conoscete. Me ne vado a cavare due patate blu dall’orto, per cena. Non sono male, come sapore, una volta che riesci ad evitare i tentacoli velenosi.

 

 

PILLOLE DEMOGRAFICHE 2 – La Cina.

Nel precedente articolo abbiamo parlato della teoria demografica oggi corrente.  Una teoria che effettivamente spiega bene alcuni fenomeni, ma non tutti e che deve il suo grande successo in buona parte al fatto che è molto “politicamente corretta”.   Oggi parleremo invece di un caso concreto

Uscendo dalla guerra civile, il tasso di natalità era di oltre il 3,5%, nettamente superiore al 1,7, 1,8 % del tasso di mortalità.   La flessione della natalità alla metà degli anni ’50 corrisponde alla prima ondata di collettivizzazione forzata delle campagne che fu presa molto male dai contadini.   Tuttavia, la mortalità continuò a diminuire per il progressivo riorganizzarsi dello stato, la repressione del brigantaggio e delle ultime sacche di resistenza anti-comunista.   Nel 1958 Mao lanciò il “Grande Balzo Avanti” che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto avviare con decisione la Cina sulla via del progresso industriale.  Il risultato fu la maggiore carestia del XX secolo (fra i 14 ed i 78 milioni di morti a seconda delle stime), con il picco nel 1960.

Il fatto interessante è che, contemporaneamente, si ebbe un vero crollo della natalità culminato nel 1961.   Superata la crisi e migliorate le condizioni della gente, si verificò un autentico “baby boom” con il picco oltre il 4% nel 1963.    Fin qui niente di sorprendente, picchi di natalità a seguito di calamità particolarmente impattanti sono un fenomeno frequente.   La parte più interessante viene subito dopo.

Dal 1963 al 1977 il tasso di natalità calò rapidamente e vertiginosamente, malgrado le politiche nataliste volute da Mao, e con un PIL procapite molto basso.   Insomma qualcosa di simile alla “transizione demografica”,  ma prima e non dopo il “miracolo economico”, come invece è avvenuto in Europa e negli USA.   Un ruolo importante fu probabilmente giocato dalla “Rivoluzione Culturale” (1966-1976).   Una faida interna al Partito Comunista Cinese che coinvolse e sconvolse l’intero paese, creando evidentemente un clima negativo dal punto di vista riproduttivo.   Molti fattori vi giocarono contemporaneamente, probabilmente la scolarizzazione massiccia delle bambine e l’inurbamento, ma anche l’incertezza politica e la sistematica demolizione di ogni retaggio culturale, come di ogni struttura sociale tradizionale.

Fu solo dal 1980 (morto Mao e con un Pil procapite di meno di 200 $ annui), che il governo varò la politica del “Figlio Unico”.   Ciò nondimeno, per una decina di anni si verificò una sensibile ripresa della natalità, probabilmente dovuta al clima di maggiore ottimismo, di novità e di relativa libertà, oltre che all’impennarsi del tasso di crescita economica.    Attualmente il tasso di natalità si è stabilizzato sul livello di 1,2 – 1,3%, comunque più alto del tasso di mortalità, cosicché la popolazione cinese risulta tuttora in aumento, mentre l’età media sale progressivamente.

Il punto qui importante è che la fase galoppante della crescita economica cinese, fra il 1990 circa ed il 2007, è avvenuta mentre i tassi di natalità erano già calati a valori prossimi o inferiori a quelli occidentali del tempo.  Nel 2013 la legge sul figlio unico fu modificata, autorizzando le famiglie ad avere due figli, ma per il momento l’incremento di natalità è stato molto modesto.   Interessante perché, secondo le autorità cinesi,  ciò dipende dal fatto che la maggior parte dei giovani sono preoccupati per il futuro, proprio mentre il loro PIL nazionale e pro capite raggiunge il massimo storico (circa (8’000 $ l’anno).   Probabilmente vi giocano diversi fattori fra cui l’evoluzione della cultura e delle strutture sociali, ma penso anche l’effetto deprimente dei livelli pazzeschi di inquinamento e distruzione ambientale raggiunti in Cina ed il brusco rallentamento (forse arresto) della crescita economica dopo il 2008.

Espresso in Yuan, il tasso ufficiale di crescita del PIL cinese è sceso dal 12 al 6% annuo. Espresso in dollari è sceso dal 18 all’ 1% (Kroeber 2016 -https://www.brookings.edu/opinions/should-we-worry-about-chinas-economy/)

In altre parole, la legge del figlio unico stabilizzò una tendenza già in atto, ma soprattutto impedì un probabile secondo baby boom a seguito del  decollo economico, contribuendo quindi in modo consistente al fantastico incremento del reddito procapite dei cinesi ed a fare della Cina la potenza coloniale vincente di quest’inizio di XXI secolo.   Ora che anch’essa pare ben avviata sulla via della “Stagnazione economica secolare” (come la chiama eufemisticamente il FMI), al contrario della maggior parte degli economisti, ritengo che l’aver evitato un probabile secondo boom di natalità sia uno dei fattori che più stanno giocando e sempre più giocheranno a favore del “dragone”.   Sempre che riescano a  gestire decentemente i vent’anni in cui i babyboomers saranno vecchi e sempre che altre crisi non peggiorino bruscamente il quadro economico.

La prossima volta parleremo dell’India.

PILLOLE DEMOGRAFICHE – 1: La Transizione Demografica

La demografia è una scienza difficile, con intrinseci limiti strutturali che le impediscono di fare completo affidamento sui sofisticati modelli matematici che tanto si usano oggi.   I fattori in gioco sono infatti troppi, di natura assai diversa fra loro e di peso relativo continuamente cangiante a seconda dei periodi, dei luoghi, delle classi sociali e molto altro ancora.   Qualunque teoria generalizzante è quindi destinata a fallire e così, invece di tentare una “Summa Demografica”, proporrò su queste pagine una serie di considerazioni ed esempi che, beninteso, non sono generalizzabili.

La transizione demografica

Inizieremo questa scorribanda fra nascite, morti e migrazioni dando uno sguardo un tantino più ravvicinato del solito alla teoria demografica oggi in voga.  Tanto in voga da essere spesso scambiata per un dato di fatto, mentre è e rimane un modello.

Il padre della “Transizione Demografica” fu Adolphe Landry, un politico francese della sinistra radicale, più volte deputato e ministro.   Dichiaratamente favorevole a politiche decisamente nataliste e strenuo detrattore dell’opera di Malthus, in realtà Lanrdry ne sposò appieno i presupposti, giungendo però a conclusioni opposte.
In estrema sintesi, Malthus aveva osservato che, nell’Inghilterra del tardo XVIII secolo, i poveri facevano molti più figli dei benestanti ed aveva attribuito questo fenomeno al fatto che coloro che disponevano di un sia pur piccolo patrimonio si preoccupavano di cosa avrebbero lasciato ai figli.   Viceversa, l’abbrutimento e la miseria di chi non aveva nulla li spingeva a riprodursi in modo sconsiderato.   La conclusione del reverendo era che la forte natalità fosse la causa prima della miseria e che bisognasse quindi insegnare ai poveri a meglio controllare la propria libidine.
Il suo amico David Ricardo, rincarò la dose affermando che limitare la propria natalità era l’unica arma efficace che la “classe lavoratrice” avesse a disposizione per difendersi dallo sfruttamento del capitale che, comunque, avrebbe sempre usato la disoccupazione per comprimere i salari al livello di mera sopravvivenza.

Landry fece propria l’osservazione di Malthus, ma ne rovesciò le conclusioni.   In estrema sintesi, la sua idea era che non bisognasse ridurre la natalità poiché una popolazione numerosa e dinamica costituisce la principale ricchezza di una nazione.    Bisognava invece aumentare e diffondere il benessere economico, così da provocare una graduale stabilizzazione della popolazione, ma su livelli molto superiori a quelli di partenza.    In altre parole, rispetto a Malthus, invertì la causa con l’effetto.
Niente di meglio come viatico per chi sostiene che bisogna spingere al massimo la crescita economica, “conditio sine qua non” per la definitiva soluzione dei problemi umani.

Il modello

Troppo ben conosciuto perché valga la pena di descriverlo qui nel dettaglio, il modello prevede che il miglioramento delle condizioni di vita comporti prima una diminuzione della mortalità e successivamente della natalità.   Di conseguenza la popolazione si stabilizza su livelli maggiori.
Sulla solida correlazione fra aumento del benessere e progressiva riduzione della natalità la maggior parte dei dati sono concordi, ma su quel che può succedere dopo assai meno.   Ad esempio, M. Myrskylä, H. Kohler & F. Billari, nel 2009, hanno pubblicato su Nature un lavoro secondo cui a livelli molto alti di benessere corrisponderebbe un nuovo aumento della fertilità.
Se confermata, una simile tendenza sarebbe molto interessante sul piano teorico, ma poco su quello pratico.   Tutto lascia infatti presagire un XXI secolo all’insegna del peggioramento e non del miglioramento delle condizioni di vita della maggior parte delle persone.   Secondo la teoria corrente, ciò dovrebbe provocare sia un aumento della mortalità che della natalità, ma molti dati recenti confermano solo l’aumento di mortalità, non quello di natalità, cambiando completamente le prospettive, perlomeno in alcuni importanti paesi.

Torneremo sull’argomento nei prossimi articoli, intanto torniamo al modello standard.    Il suo pregio principale è di individuare una serie di fattori sociali e culturali che effettivamente danno un contributo importante alla dinamica di una popolazione umana.   Per esempio, il livello di istruzione specialmente femminile, l’accesso alle cure mediche ed ai contraccettivi moderni, l’accesso al mercato del lavoro per le donne, l’innalzamento dell’età matrimoniale sono certamente elementi importanti; cruciali in determinati contesti.

Un grosso difetto è invece quello di pretendere che una stessa dinamica debba necessariamente verificarsi dovunque e comunque.    Ancora peggio, nella versione utilizzata dalle principali istituzioni mondiali, il modello ignora completamente il contesto ambientale in cui le popolazioni umane vivono.   In altre parole, si da per scontato che gli ecosistemi di cui le popolazioni fanno parte siano comunque in grado di fornire loro le risorse necessarie ad una crescita sufficiente a completare la transizione ed a mantenere indefinitamente la popolazione al nuovo livello.   Parimenti, si da per scontato che i medesimi ecosistemi siano in grado di assorbire e riciclare i rifiuti (solidi, liquidi e gas) che l’umanità inevitabilmente produce.   Insomma, si considera che l’uomo sia svincolato dalle leggi fisiche ed ecologiche che limitano lo sviluppo delle altre specie.   Per quale ragione, non è dato sapere.

Un ulteriore fattore che la teoria non considera, ma che in molti casi gioca invece un ruolo importante, è quello dell’ottimismo.   Vale a dire la percezione che le persone hanno del futuro.  Ma su questo torneremo in un altro post.

WORLD3

Per fortuna il mondo è pieno di scienziati molto seri che hanno sì utilizzato questa teoria come elemento per i loro modelli, ma tenendo debito conto anche degli altri fattori in gioco.   Ad oggi, il tentativo più riuscito per modellizzare l’evoluzione globale del sistema socio-economico globale rimane il leggendario WORLD3 che incorpora la teoria della transizione demografica fra i suoi algoritmi, ma associandola ad altre variabili: la disponibilità di risorse, la produzione industriale, la produzione agricola, la produzione di servizi e l’inquinamento.   Ed l risultato è completamente diverso da quello previsto dai demografi dell’ONU.

Secondo il modello del gruppo Meadows, la popolazione continuerà a crescere fino al 2030 circa, poi comincerà a flettere in conseguenza del collasso del sistema economico globale.    Chi ha ragione?   Lo vedremo, ma intanto poniamo attenzione ad un importante difetto che praticamente azzera l’affidabilità della parte calante delle curve anche di WORLD3.   Incorporando la teoria in questione, il modello del MIT prevede infatti che, man mano che il collasso economico procederà, aumenteranno sia la mortalità che la natalità.  Ne deriva una curva della popolazione in calo relativamente graduale.   Nelle prossime puntate osserveremo dei dati reali e vedremo che questo è solo uno dei possibili scenari e, probabilmente, neppure il più probabile.

Dunque la Transizione demografica è oggi molte cose contemporaneamente.   E’ un sofisticato modello matematico, utile in determinati contesti, ma è anche un comodo pretesto politico per continuare a sostenere la necessità di spingere la crescita economica e perfino una pia leggenda che consente a molte persone di negare il dramma della sovrappopolazione.

Nella prossima puntata parleremo della Cina.

LA SICCITÀ NON E’ FINITA

In questa settimana una serie di temporali hanno portato un po’ d’acqua e di temporanea frescura almeno sulle regioni centro-settentrionali.   La siccità è finita?

No.   Se anche avesse piovuto il doppio od il triplo avrebbe magari  causato alluvioni e disastri (qualcuno lo ha comunque provocato), ma non per questo sarebbe finita la siccità che rimane un male insidioso e difficile da capire.   Facciamo un tentativo per cominciare a capirlo, tenendo presente che ogni zona ha la sua storia e la sua situazione particolare.   Le generalizzazioni valgono quindi per capire come nasce e si sviluppa il fenomeno, non per decidere le priorità caso per caso.

In buona sostanza, la siccità è dovuta ad un deficit nel bilancio idrico; vale a dire che da un determinato territorio esce più acqua di quella che vi entra.   Un fenomeno che è facile sottovalutare, soprattutto quando si dispone di tecnologie ed energia con cui controbilanciarne gli effetti a breve termine.   Ancora più grave è il fatto che, quasi sempre, gli interventi messi in opera per compensare i disagi dovuti alla siccità hanno l’effetto di aggravarla e ciò che sta accadendo il Italia ne è un eccellente esempio.

In prima, grossolana approssimazione possiamo distinguere due livelli: globale e regionale, che interferiscono fra loro.

Livello Globale.

E’ quello di cui si parla di più su cui si può agire di meno, ne faremo quindi solamente un rapidissimo cenno.   Si tratta ovviamente di tutta la complessa tematica del GW.   Senza dubbio la combustione di carbone, petrolio e gas è stata la forzante principale che ha scatenato il fenomeno, ma attualmente sono attive anche una serie di retroazioni che, complessivamente, tendono ad amplificarlo.   Di sicuro sappiamo che la temperatura media sta salendo, così come il livello del mare e l’acidità degli oceani, mentre il volume di ghiaccio diminuisce e  gli eventi meteorologici diventano più instabili.   Nella maggior parte delle zone fa più caldo e piove di meno, ma non dappertutto; ci sono anche zone in cui fa più fresco e/o piove di più.   L’evoluzione nei tempi lunghi sono poco prevedibili per molte ragioni, far cui l’instabilità intrinseca dell’atmosfera (e secondariamente degli oceani), il ruolo non modellizzabile delle nubi e dell’aerosol, la forza delle retroazioni in corso, l’interferenza con fattori di scala minore.

Livello regionale

Struttura geo-morfologica.   La forma del rilievo e delle rete imbrifera, la natura delle rocce  determinano in gran parte la facilità con cui l’acqua circola sul territorio e nel sotto suolo.  E’ un fattore che varia molto poco nel tempo, salvo casi particolari come le zone di bonifica o dove ci sono ampi bacini estrattivi che possono cambiare le caratteristiche geo-morfologiche di un territorio nel giro di decenni.  Oggi anche di pochi anni.

Aree umide.   Fino a circa un secolo fa paludi, stagni, golene, aree soggette a sommersione stagionale o occasionale eccetera rappresentavano un elemento determinante del paesaggio di quasi tutte le regioni italiane; oggi ne rimane circa l’1%.   Ciò ha modificato radicalmente il ciclo dell’acqua, sia perché sono molto diminuiti i tempi di corrivazione verso il mare, sia perché la minore evapotraspirazione contribuisce a ridurre la piovosità, specialmente sulle aree planiziali interne che sono quelle più densamente popolate e quelle più importanti per l’agricoltura.

Suoli.   La natura del suolo è anch’essa fondamentale nel determinare la quantità di acqua piovana che ruscella in superficie e quella che, viceversa, si infiltra e viene trattenuta.   A sua volta, la natura del suolo dipende da un’insieme di fattori che vanno dal clima e dalla natura delle rocce, fino alla vegetazione ed alla fauna, passando per le tecniche agricole.   Due aspetti molto importanti che riguardano in particolare i terreni agricoli sono il contenuto in sostanza organica e la struttura (come le particelle del suolo si aggregano fra loro).   La maggior parte delle tecniche agricole tendono a ridurre entrambi, riducendo in modo drammatico la quantità di acqua che i suoli sono in grado di trattenere a disposizione delle piante (capacità di campo).   Esistono anche tecniche che hanno l’effetto contrario, ma per ora rimangono molto marginali.

Vegetazione.  La vegetazione ha un impatto determinante sui suoli e sul ciclo dell’acqua, sia perché immagazzina grosse quantità di acqua nei propri tessuti, sia perché ne facilita l’infiltrazione in profondità quando piove per recuperarla e rimetterla in circolazione nel suolo e nell’atmosfera quando non piove.

Fauna.  La fauna ha un effetto più indiretto, ma determinante in quanto modifica, talvolta molto pesantemente, la vegetazione e, di conseguenza, i suoli; finanche il reticolo imbrifero.  Sia per quanto riguarda la fauna che la vegetazione, non conta solo la quantità, ma anche la varietà di forme di vita.   Una riduzione della biodiversità ha sempre effetti negativi sul funzionamento degli ecosistemi.

Urbanizzazione.   La quantità. La distribuzione e le caratteristiche dell’edificato modificano il ciclo locale dell’acqua, talvolta in modo drammatico.   Strade, case e piazze sono infatti impermeabili o quasi e le piogge cadute sull’edificato vengono allontanate il più rapidamente possibile tramite apposite reti fognarie.   Inoltre, ampie superfici di asfalto e cemento si scaldano molto di più del territorio agricolo, per non parlare delle foreste.   Questo altera la circolazione locale dell’aria.   Un effetto molto amplificato dai condizionatori che rinfrescano gli interni, surriscaldando ulteriormente l’esterno.

Consumi antropici.   In paesi come l’Italia, una quota consistente dell’acqua raccolta dai bacini imbriferi passa attraverso il nostro sistema economico; in estate una quota preponderante.   La portata di magra dei fiumi è oramai esclusivamente o prevalentemente formata da reflui dei depuratori (più o meno ben depurata).   In prossimità del mare, l’acqua che si vede nei fiumi è invece salata, tranne talvolta una sottile lente di acqua dolce che scorre in superficie, mentre il mare risale nell’entroterra.
Circa il 85% dell’acqua che usiamo va per irrigare le colture, l’ 8% per l’industria, 7% per i consumi domestici che da soli ammontano a ben 245 litri al giorno a persona!   Nel 1980 erano 47.

In effetti, l’acqua non si “consuma” in senso stretto, ma l’uso che ne facciamo ha due effetti principali.  Il primo è quello di inquinarla, il secondo è quello di accelerarne il deflusso verso il mare, inaridendo gradualmente, ma inesorabilmente il territorio cosa che, abbiamo visto, contribuisce a ridurre le piogge, aggravando il processo.   Il fatto che le falde freatiche si siano abbassate quasi dappertutto e che la portata di quasi tutte le sorgenti sia diminuita dimostra un fatto molto semplice: abbiamo creato un deficit cronico nel nostro bilancio idrico.   Un deficit che i periodi di piogge consistenti e prolungate mitigano per un periodo, ma che non riescono mai a compensare del tutto.

Che fare?

Uno dei fattori che rende la siccità un pericolo molto più grave ed insidioso di nubifragi, “bombe d’acqua” ed uragani è che passa quasi inosservata, sempre sottovalutata.   Questo perché mentre le tempeste hanno impatti drammatici nel giro di poche ore, la siccità mina lentamente, ma inesorabilmente la vivibilità di un territorio.   Ed è un fenomeno che si sviluppa nell’arco di decenni, perlopiù sotto terra, finché i danni si fanno manifesti; ma a quel punto sono anche irreversibili o quasi.   La maggior parte delle zone attualmente desertiche sono state rese tali da una secolare azione antropica; un processo che si è spaventosamente accelerato negli ultimi decenni.   Ma il disastro maggiore è che i provvedimenti presi per contrastarla sono solitamente tali da aggravarla.   Quasi sempre, la risposta ai periodi di crisi acuta sono infatti nuovi pozzi, captazioni e condutture; cioè un maggiore sfruttamento di una risorsa che si sta degradando principalmente a causa di uno sfruttamento già largamente eccessivo.

Sarebbero possibili interventi più efficaci?   Si, ma solo a condizione di cambiare di 180° il nostro modo di pensare.   Vale a dire che bisognerebbe lavorare a tutti i livelli contemporaneamente, dall’educazione permanente alla gestione dei fondi pubblici, passando per una miriade di norme e regolamenti, per riportare in pareggio il bilancio idrico a tutti i livelli.   E comunque gli effetti sarebbero parziali, indiretti e dilazionati nel tempo; cioè esattamente il contrario di quello che la maggior parte della persone vuole.

Sui fattori climatici globali possiamo e dobbiamo fare molto per ridurre i nostri consumi di tutto, questo è infatti l’unico modo per ridurre davvero tanto le nostre emissioni climalteranti, quanto i consumi di acqua.   Gli effetti sarebbero però indiretti e globali, non rilevabili a livello locale.   Viceversa molte cose potrebbero essere fatte a scala nazionale, regionale e comunale.   Un elenco anche parziale di possibili azioni occuperebbe decine di pagine, qui faremo quindi cenno solamente alle due strategie di base: aumentare le entrate e ridurre le uscite, come con qualunque bilancio.

Aumentare le entrate vorrebbe dire cercare, nei limiti del possibile, di aumentare la piovosità media.   Non ci sono ricette sicure, ma ridurre il surriscaldamento delle città (sia in estate che in inverno),  aumentare la biomassa arborea nelle aree planiziali, aumentare la capacità di campo dei terreni agricoli e le aree umide di ogni tipo sono fra le cose sicuramente utili.

Per ridurre le uscite, occorrerebbe innanzitutto ridurre drasticamente lo sfruttamento delle risorse idriche.  Cioè ridurre i consumi di tutti i tipi, anche mediante razionamento, e favorire il ristagno dell’acqua piovana nell’entroterra, anche temporaneo, ogniqualvolta sia possibile.  Ridurre le superfici irrigue e migliorare i suoli agricoli sarebbero le strategie principali in agricoltura, mentre per l’industria sarebbe necessario generalizzare il riuso di acque reflue depurate.  Un campo nel quale già si contano diverse esperienze molto positive, che però stentano a diffondersi perché, comunque, trivellare nuovi pozzi per ora costa meno.

Finirà la siccità?   Prima o poi si, per forza.   Gli ecosistemi ritrovano sempre un loro equilibrio, ma se vogliamo farne parte dobbiamo cominciare a pensare che senza petrolio è difficile che possa esistere una civiltà avanzata, ma con poca acqua non può esistere civiltà di sorta.

La città del manuale e la città reale

Il lavoro di assessore alla mobilità mi sta mettendo di fronte ad una serie di contraddizioni generate proprio dalle normative per l’organizzazione degli spazi urbani. L’esigenza di trasformare quegli stessi spazi in luoghi adatti alla fruizione ed alla socialità, e non soltanto al transito ed alla sosta dei veicoli, confligge continuamente con normative che frenano ogni cambiamento e contribuiscono a definire le città alienanti e disfunzionali che sperimentiamo ogni giorno sulla nostra pelle.

Pochi giorni fa si è trasformato nell’ennesimo battibecco un confronto, in sede di conferenza dei servizi, sul nodo di intersezione tra due piste ciclabili, una esistente e l’altra da realizzare. La soluzione proposta per l’attraversamento dell’incrocio da parte del flusso ciclistico si presentava ai miei occhi come inefficace, comportando una perdita di tempo totalmente priva di senso per la necessità di attendere ben tre fasi semaforiche al fine di raggiungere il lato opposto.

Da ciclista ho imparato negli anni a muovermi attraverso una città totalmente priva di infrastrutture dedicate, quelle poche presenti mal realizzate. Ho imparato a considerarmi di volta in volta veicolo e pedone, e ad utilizzare gli spazi in maniere creative, volte alla ricerca del miglior compromesso tra le esigenze di sicurezza e di velocità negli spostamenti. A muovermi, in sostanza, in modi che i manuali, redatti da gente che non ha mai avuto familiarità con la mobilità ciclabile, non è nemmeno in grado di immaginare.

Per questo, come già avvenuto molti anni prima per una diversa ciclabile (quella di viale Palmiro Togliatti), ho fermato la presentazione in corso ed ho rappresentato la soluzione per me ottimale, tracciando una linea in diagonale attraverso il centro dell’incrocio, anziché percorrerne le due estremità, e realizzando l’intero attraversamento in un’unica fase semaforica, impiegando per il transito un tempo stimabile tra i cinque e i dieci secondi.

Inutile dire che ciò ha sollevato le immediate obiezioni dei progettisti che, oltre a sentirsi scavalcati nel loro ruolo, hanno iniziato a fare riferimento a norme e normette, leggi e leggine, del tutto incuranti di quanto disfunzionale e scarsamente fruibile, per non dire priva di qualsiasi appeal per l’utenza ciclistica, fosse la soluzione da essi proposta. O, peggio, del tutto incapaci di comprenderne i limiti.

Altrettanto vani i miei tentativi di fare appello al buonsenso, di far comprendere loro che un impedimento del genere avrebbe ottenuto soltanto di spingere i ciclisti ad attraversare l’incrocio in modalità diverse e più efficaci, rendendo di fatto inutile la sistemazione realizzata. Modalità per me tanto evidenti e preferibili, quanto bizzarre ed incomprensibili devono essere risultate per loro.

Il fatto è che in una città dove la presenza dei ciclisti non è mai stata presa seriamente in considerazione, in una città che risulta integralmente ostile e scarsamente fruibile al punto da obbligare il ciclista ad inventare, giorno per giorno, minuto per minuto, le scelte da operare per preservare la propria incolumità, in una simile città la presenza di infrastrutture ciclabili appare come un orpello. Se queste infrastrutture sono oltretutto anche mal disegnate, l’unico risultato che ci si può attendere è che la loro presenza non venga neppure presa in considerazione, che i ciclisti non ne registrino la presenza o, una volta sperimentata, la rimuovano immediatamente dalla propria memoria e dalle proprie abitudini.

Più in generale, questa vicenda racconta di un conflitto insanabile tra norme mal ideate ed uso reale degli spazi pubblici, viari e non. Se la città risulta un coacervo di veicoli incolonnati, in sosta vietata, ammucchiati in ogni spazio disponibile, se i flussi pedonali risultano discontinui ed ostacolati da ogni sorta di intralcio, se i ciclisti non hanno spazi protetti ad essi dedicati e fanno un uso creativo e totalmente discrezionale di quanto trovano di fronte a sé, il motivo è uno solo: le regole che ci siamo dati sono difettose, deficitarie, incoerenti ed, in ultima analisi, sbagliate.

A questo punto fare appello a quelle stesse regole dovrebbe apparire da sé non sufficiente a garantire il buon esito dell’intervento. Come il ciclista deve individuare da sé la modalità migliore per muoversi attraverso questo caos, così il progettista di sistemazioni urbane dovrebbe comprendere che è richiesto un surplus di intelligenza e buonsenso per ovviare alle carenze intrinseche della normativa corrente, dato che quella stessa normativa non è stata in grado fin qui di disegnare città vivibili.

Questa è, attualmente, la grande sfida del rinnovamento urbano: rileggere con occhio critico gli errori del passato ed essere in grado, sfruttando un corpus legislativo che non può essere ignorato, di disegnare spazi pubblici radicalmente diversi da quelli prodotti fin qui, aggiungendoci del proprio l’intelligenza ed il buonsenso di cui la legislazione attuale risulta carente. Una sfida che evidentemente non tutti possono essere interessati, o semplicemente motivati, ad affrontare.

Immigrazione e chiarezza.

 

Quando si parla di qualcosa, è una buona abitudine di chiarire prima il significato delle parole che si usano.   Specialmente quando ci sono ampi margini di vaghezza.

Le principali rotte d’arrivo. La cartina è del 2013 e la situazione attuale è un poco diversa in quanto la rotta africana passa oggi per la Libia, non più per la Tunisia (Fonte Limes)

Dunque:

1 – Immigrato.   Persona che si trasferisce per un lungo periodo di tempo (anni o decenni) in un luogo diverso da quello dove è nato.   Può significare che proviene da un paese estero, ma anche da un’altra regione del medesimo paese, come i calabresi a Milano.   Quasi sempre, il motivo per emigrare è la ricerca di un lavoro.   Il 1 gennaio 2017, i cittadini stranieri regolarmente residenti in Italia erano circa 5 milioni (dati ISTAT), di cui circa 1.150.000 romeni e circa 100.000 da altri paesi UE.   I residenti stabili con passaporto non europeo sono quindi circa 3,5 milioni, perlopiù albanesi e marocchini, seguiti da cinesi e ucraini.   L’unico paese africano ad avere una comunità residente consistente è il Senegal con poco meno di 100.000 persone (v. tabella in calce all’articolo).
Norme e condizioni per gli immigrati sono completamente diverse a seconda dei paesi di partenza e di arrivo.   Ad esempio, i cittadini dei “paesi Maastricht” possono stabilirsi dove vogliono, all’interno dell’UE, senza richiedere particolari permessi; di fatto non sono “stranieri”.   Cittadini di altri paesi (ad es. la Georgia e l’Ucraina) possono invece entrare in Italia liberamente, ma per stabilircisi hanno bisogno di un permesso di soggiorno rilasciato dalla prefettura.   Altri ancora hanno infine bisogno anche di un visto d’entrata, solitamente a termine, rilasciato dalla locale ambasciata del paese di destinazione.

2 – Profugo.   Spesso usato come sinonimo di rifugiato, giuridicamente indica invece la persona che è costretta a tornare in patria dal paese dove era emigrata.   Un esempio tipico sono gli europei tornati a seguito dell’indipendenza delle colonie; oppure gli italiani fuggiti dall’Argentina durante la dittatura.   Attualmente, per l’Italia è un fenomeno irrilevante, ma fra un paio di anni potrebbe esserci una grave crisi, a seconda di come andranno le trattative per la “Brexit”.

4 – Richiedente asilo.   Persona che richiede lo status di “Rifugiato” che viene rilasciato dalla prefettura in base alle disposizioni diramate dal Ministero degli Interni (v. seguito).   Quantificare questa aliquota di persone è arduo perché in costante e rapida evoluzione.   Sappiamo però che i “centri di accoglienza” ed il sistema “Sprar”  (compreso il famoso albergo a 30 € giornalieri) accolgono circa 174.000 persone (dati Ministero dell’Interno aggiornati al marzo 2017).   Non tutti sono richiedenti asilo, ma può andare come ordine di grandezza.   Teoricamente, coloro le cui richieste non vengono accolte dovrebbero essere respinti o rimpatriati.   In pratica ciò non avviene e, di solito, le persone si danno alla macchia arrangiandosi poi in qualche modo (v. seguito).

Boat people arrivati in Europa, fra il 2006 ed il 2015 (dati UNHCR).

5 – Rifugiato.   Persona che viene protetta dalle autorità del paese di accoglienza perché in patria è vittima di una specifica persecuzione per motivi politici, etnici o di altro genere.   Di solito si tratta di singole persone come esponenti ed attivisti politici ; per esempio molti intellettuali russi fuggiti in occidente durante l’epoca sovietica.   A seguito di guerre possono però acquisire lo status di rifugiato intere popolazioni, come i palestinesi fuggiti dalle zone occupate da Israele nel ’48 o gli Yazidi siriani fuggiti dalle zone occupate dall’ISIL nel 2015.   Oggi i rifugiati in Italia sono fra i 150.000 ed i 190.000 a seconda degli anni, una delle cifre più basse d’Europa.   E’ anche importante ricordare che lo status di rifugiato garantisce una serie di diritti, ma impone anche obblighi ben precisi.

5 – Extracomunitario.   Persona che non ha un passaporto europeo.  Dunque, fra gli altri,  sono extracomunitari i somali ed i cinesi, ma anche gli americani e, fra un paio di anni, anche gli inglesi.

6 – Immigrato irregolare o Clandestino.   Persona che si trova in territorio italiano senza autorizzazione.  Per definizione, solo gli extracomunitari possono essere clandestini.   Quanti siano ovviamente non si sa, ma sono stimati fra i 400 ed i 500.000 (dati Ministero degli Interni).   Perlopiù è gente a cui è stato rifiutato lo status di rifugiato, ma a cui è stato dato un permesso temporaneo; oppure che semplicemente se la è squagliata da un centro di accoglienza.   Teoricamente dovrebbero essere rimpatriati e le prefetture emanano circa 35.000 decreti di espulsione l’anno.   Ma ne vengono effettuate meno del 10%, per una combinazione di fattori (costo elevato dell’operazione, farraginosità della procedura, ordini ministeriali).   In compenso si conoscono bene le due principali porte di ingresso: gli aeroporti di Malpensa e di Fiumicino.  La maggior parte degli irregolari arriva infatti tranquillamente in aereo, se necessario con un visto turistico o di studio, per poi rimanere campando di espedienti nella speranza di incappare in una sanatoria od altro sistema per regolarizzarsi.
La seconda rotta è quella dei barconi e dei salvataggi in mare che tanto spazio ottiene sui media, malgrado sia quantitativamente secondaria.
Un problema cruciale è che molte di queste persone vanno ad ingrossare le fila dei parassiti sociali, della malavita e/o dei nuovi schiavi, volenti o nolenti.

Dunque quale è il problema?

Tirando le somme, la popolazione extracomunitaria in Italia ammonta probabilmente a qualcosa vicino ai 4,5 milioni di persone (clandestini compresi), pari a circa il 7-8% della popolazione.   E per rispondere a chi teme l’islamizzazione del paese, di questi meno della metà provengono da paesi a maggioranza mussulmana, e la metà di questi (circa 400.000) dall’Albania; non propriamente terra di islamisti scatenati.

Può non sembrare molto, eppure un pericolo che rischia di determinare in buona parte il futuro dell’Italia e dell’Europa, anche se per ragioni solitamente trascurate (o addirittura negate) anche da chi più teme questo fenomeno.

1 – La principalissima ragione è che l’Italia, come tutto il resto d’Europa e del mondo, è tremendamente sovrappopolata.   Gli indicatori sono molteplici, ma qui citerò solamente l’Impronta ecologica che, molto approssimativamente, misura quanto una data popolazione ecceda la capacità di carico del suo territorio.   L’Italia ha un’impronta pari a circa il quadruplo di ciò che sarebbe probabilmente sostenibile.  Ovviamente, non conta solo il numero delle persone, ma anche quanto queste consumano.   Non per niente, al calo del 25%  del nostro PIL pro-capite dal 2008  (dati Banca Mondiale), ha fatto riscontro un quasi equivalente calo della nostra impronta ecologica.   Una tendenza contrastata dall’aumento demografico, ma in misura limitata perché la stragrande maggioranza degli immigrati appartengono alle classi più povere che, loro malgrado, consumano meno della media nazionale.   Dovrebbe perciò essere evidente che continuare a ridurre i consumi sarà necessario (probabilmente anche inevitabile), ma che su tempi nell’ordine dei decenni non può bastare.   La decrescita dei consumi, felice o meno, potrà riportare la bilancia in equilibrio solo se accompagnata da una parallela, graduale riduzione della popolazione.   Cioè esattamente quel  1,2 – 1,5 % l’anno circa che avremmo in assenza di un’immigrazione che, viceversa mantiene la popolazione su tassi di crescita molto alti: circa il 2% annuo, anche se con fortissime fluttuazioni (dati ISTAT).   Ovviamente, 50 o 60 anni di decrescita demografica comporterebbero enormi difficoltà legate allo sbilanciamento verso l’alto della struttura demografica, ma sarebbe una crisi gestibile e prodroma di un migliore futuro.   L’alternativa, continuare a crescere, servirebbe solo a rimandare ed aggravare il problema, visto che i bambini di oggi saranno i vecchi di domani (si spera).   Finché, non sappiamo come e non sappiamo quando, sarà superato un limite oltre il quale la decrescita demografica avverrà comunque, ma in modo precipitoso ed incontrollabile.

Popolazione residente in Italia (esclusi irregolari).

2 – La seconda ragione è che attualmente l’Italia funziona come principale porta di ingresso in Europa per un flusso di persone che cercano poi di raggiungere altri paesi, soprattutto Francia, Germania, Inghilterra e paesi scandinavi.   Vale a dire che l’Italia contribuisce largamente non solo alla crescita della propria popolazione extracomunitaria, ma anche a quella dei nostri vicini.   Cosa che sta rendendo problematici i nostri rapporti con gli altri paesi europei.  Temporanee e parziali chiusure delle nostre frontiere sono già avvenute.  Se dovessero diventare definitive, il rischio di diventare un “cul di sacco” per una massa non valutabile di persone sarebbe molto elevato.

3 – Gli attuali livelli di pressione migratoria sono solo un blando assaggio di ciò che avverrà nei decenni venturi.   Con l’intera Africa e l’intero mondo islamico, dal Pakistan al Marocco, sull’orlo del collasso e forse di una grande guerra pan-islamica le prospettive sono nerissime.   Ciò che sta accadendo è solo l’inizio della deflagrazione della Bomba Demografica globale, qualcosa che non è mai accaduto prima nella storia dell’umanità e dalle conseguenze molto più tragiche di quanto non ci piaccia immaginare.   In altre parole, una vera invasione non è ancora in corso, ma è fra le prospettive possibili già nel giro di pochi anni.

4 – Il pericolo maggiore connesso con il proseguimento dell’attuale politica sull’immigrazione  è una crescita del livello di stress sociale che, prima o poi, finirà col portare partiti nazionalisti al governo di molti paesi UE.   Certo, non possiamo essere certi di cosa farebbero una volta al comando; la differenza fra ciò che si dichiara quando si è all’opposizione e ciò che si fa quando si è al governo è solitamente notevole.   Tuttavia è un’eventualità che potrebbe provocare la disintegrazione almeno parziale della delicata struttura comunitaria, lasciando parecchi paesi privi dei mezzi necessari per fronteggiare e gestire le crisi davvero gravi che sicuramente ci aspettano.    Per esempio, non penso proprio che l’Italia odierna avrebbe né la forza politica, né quella militare per trattare accordi convenienti con gli altri paesi.   Men che meno per controllare una frontiera come la nostra.

Proposte?

E’ molto rilassante essere un “signor Nessuno”, garantisce dal rischio che i propri eventuali errori vengano pagati da altri.   Forte di ciò, vorrei azzardare qualche suggerimento.

Il primo punto da mettere in conto ritengo sia recuperare un ragionevole controllo sulle frontiere interne ed esterne.  Che non significa sigillarle (non sarebbe nemmeno fattibile), bensì poter controllare l’ordine di grandezza dei flussi.   Una cosa vitale per qualunque paese che intenda continuare ad esistere, ma molto più facile da dire che da fare e, comunque, molto costosa.   Per questo, ritengo che solo un’effettiva collaborazione a livello europeo sarebbe una condizione necessaria , ancorché non sufficiente per riuscirci.   Ciò presuppone che tutti i paesi concordino e rispettino un ragionevole compromesso fra le loro diverse posizioni; una cosa che finora nessuno ha voluto fare.

Il secondo punto  è che non sono e non saranno un problema i rifugiati.   Sono troppo pochi, sono i più motivati ad integrarsi e sono anche la categoria che pone i maggiori obblighi etici, visto che respingerli significa esporli a rischi elevati, non di rado mortali.

Il terzo è che l’accoglienza dei migranti in cerca di lavoro dovrebbe essere commisurata alla possibilità di un loro inserimento lavorativo. Certamente ci sono ancora dei margini, ma esigui ed in contrazione, vista la generale contrazione del nostro sistema economico che tende ad espellere e non ad assorbire forza lavoro.

Potrebbero sembrare banalità, ed invece sono alcuni degli scogli su cui si stanno infrangendo molte delle nostre speranze per una transizione non troppo dolorosa verso il mondo che sarà.

 

Cittadini stranieri regolarmente residenti al 1º gennaio
Paese di cittadinanza 2005 Variazione
2005-2010
(%)
2010 Variazione
2010-2016
(%)
2016
 Romania 248 849 257 887 763 30 1 151 395
 Albania 316 659 47 466 684 0 467 687
 Marocco 294 945 46 431 529 1 437 485
 Cina 111 712 69 188 352 44 271 330
 Ucraina 93 441 86 174 129 33 230 728
 Filippine 82 625 50 123 584 34 165 900
 India 37 971 178 105 863 42 150 456
 Moldavia 54 288 95 105 600 35 142 266
 Bangladesh 35 785 107 73 965 61 118 790
 Egitto 52 865 55 82 064 34 109 871
 Perù 53 378 64 87 747 18 103 714
 Sri Lanka 45 572 65 75 343 36 102 316
 Pakistan 35 509 83 64 859 57 101 784
 Senegal 53 941 35 72 618 35 98 176
 Polonia 50 794 108 105 608 -7 97 986
 Tunisia 78 230 33 103 678 -8 95 645
 Ecuador 53 220 61 85 940 2 87 427
 Nigeria 31 647 54 48 674 59 77 264
 Macedonia 58 460 59 92 847 -21 73 512
 Bulgaria 15 374 199 46 026 26 58 001
Nota: le comunità sovraelencate sono quelle che superano i 50.000 residenti nel 2016 e complessivamente costituiscono oltre l’82% degli stranieri in Italia.

 

CONFINI 4 – Confini politici

Ultimo di quattro post.   Per le puntate precedenti, si veda qui, qui e qui.

matrioskeLe comunità umane possono essere considerate, fra i tanti altri modi,  come dei sistemi ed hanno infatti dei confini, sia pure di tipo molto diverso (spesso immateriali) a seconda del tipo e del livello di complessità della società.   In ogni caso, occorre ricordare che l’esistenza e la funzionalità dei confini comporta dissipazione di energia.  In termini economici, allocazione di risorse.
Confini più ampi sono anche più costosi in termini assoluti, ma magari meno in rapporto alla loro estensione.   Inoltre, contengono sistemi più capaci di estrarre risorse e scaricare entropia  “fuori” da se stessi.
Confini meno permeabili, sono parimenti più onerosi, ma più efficaci nel controllare i flussi.  Ecco quindi che, al di la dei nostri desideri, la posizione e la natura dei confini deve essere necessariamente articolata e dinamica, riflettendo la costante evoluzione del sistema che contengono e dei rapporti di questo con ciò che interagisce con esso.

I confini politici

Oggi, il tipo di organizzazione sociale principale è quello statale ed i confini sono perlopiù quelli ereditati dal XIX secolo, con qualche aggiustamento conseguente le guerre successive.  Questo livello di integrazione è solo uno dei molti possibili e, comunque, al suo interno comprende altri livelli (regioni, provincie, comuni, ecc.).   Livelli superiori agli stati sono invece alleanze, accordi commerciali, ecc.    Sono inoltre attive numerose organizzazioni sovra-statali, come EU o addirittura globali come ONU, FMI, OMS, OUA, WB, WTO ed altre ancora.

Ad ogni livello organizzativo, corrisponde una diversa funzione ed un diverso set di sistemi di controllo.  Uno dei compiti principali di una classe dirigente è quindi quello di decidere dove e come dovrebbero essere i vari tipi di confine che disegnano le nostre società.   Una scelta difficile che dovrebbe tener conto, a mio avviso dei seguenti punti:

  • I confini cambiano necessariamente nel tempo. Pensare di fissarli una volta per sempre serve solo a farsi molto male.
  • Anche il grado ed il tipo di permeabilità dei confini variano necessariamente nel tempo.
  • Minacce diverse possono essere controllate a livelli diversi di organizzazione. Ad esempio, il contrabbando di sigarette può essere controllato dalla polizia di un singolo stato.  Il controllo dei flussi migratori richiede la collaborazione di molti stati.   La garanzia contro un’aggressione nucleare richiede, perlomeno, la copertura di un’altra potenza nucleare.

Elevare il livello organizzativo presenta dei vantaggi, ma comporta un costo di cui la comunità si deve fare carico.  Se non lo fa, semplicemente il sistema si disgrega in sotto-sistemi sempre più piccoli finché si raggiunge un livello a cui si vogliono e si possono controllare le condizioni interne in rapporto a quelle esterne.   Ma non è un processo indolore.  Ad ogni riduzione nel livello di complessità organizzativa, corrisponde necessariamente una riduzione nella capacità di quella società nel procurarsi ciò che le serve e di difendersi dalle minacce esterne.

In pratica, più piccolo è meno costoso e più gestibile.  Ma anche più povero e più vulnerabile.  Ecco perché è necessario trovare un equilibrio dinamico fra la tendenza ad aggregarsi e quella a disgregarsi.

Muri

muro israeleLa forma più solida ed evidente di confine è il “muro”.   Fra quelli contemporanei, il più famoso e spettacolare è quello eretto da Israele, ma ce ne sono moltissimi, in tutto il mondo ed in ogni epoca storica.   Una forma di confine che, non a caso sta venendo di moda in questi anni in cui, da una parte, alcuni paesi usciti sconfitti dalla globalizzazione (ad esempio l’Europa e gli USA) stanno cercando di proteggere quel che resta dei loro vantaggi storici.  Dall’altra, i sistemi-paese, in gran parte proprio grazie al mercato globale, dispongono ancora dei mezzi necessari per simili, costose imprese.
A che serve un muro?   Nell’immaginario collettivo, serve a sigillare un confine, ma non è così.   In realtà serve a facilitarne il controllo con forze ridotte, ma ricordiamoci i due punti fondamentali visti nel primo post di questa serie: nessun sistema esiste se non controlla i propri confini; nessun sistema può esistere all’interno di confini impermeabili.  

Il muro è quindi solamente una forma di difesa estrema di chi sta subendo l’iniziativa altrui e non è in grado di trovare soluzioni meno costose.   Se poi sia efficace o meno e per quanto tempo, dipende da caso a caso.

Disintegrazione

Dunque, abbiamo visto che l’impatto contro i Limiti della Crescita comporta, fra le molte altre cose, anche una crescente tendenza verso la frantumazione delle organizzazioni sovrastatali e statali.   Le cronache non lesinano gli esempi, ma finora, l’unica grande potenza ad essere andata parzialmente in frantumi è stata l’Unione Sovietica.   Gli altri stati importanti hanno finora resistito, in parte anche grazie alla fine dell’URSS che ha dato fiato ai vincitori.   Ma 25 anni dopo, la Russia mostra segni di un possibile nuovo cedimento, mentre l’Europa e l’India sembrano sul punto di fare la stessa fine. Gli USA seguono e perfino la Cina scricchiola.

E’ perlomeno molto probabile che, prima o poi, tutti i principali stati ed organizzazioni sovra-statali si disintegreranno, ma il punto importante è che non lo faranno né tutti insieme, né tutti allo stesso modo.

Il caso dell’URSS è un esempio da manuale del fatto che chi riesce a mantenere più a lungo un livello organizzativo superiore acquista un vantaggio competitivo notevole.   Altrimenti detto, chi muore prima, aiuta gli altri a tirare avanti ancora un po’.   Ognuno ha perciò interesse a mantenere alto il proprio livello, magari cercando di “picconare” quello degli altri.

Non è infatti facile controllare le retroazioni positive, specialmente in fase di decrescita.   Per fare un esempio, una disgregazione dell’edificio europeo consentirebbe ai singoli stati di eliminare i costi dell’eurocrazia, ma li esporrebbe all’attacco delle grandi potenze.  Probabilmente non un attacco militare: ci sono molte altre opzioni.   Per esempio, l’imposizione di scambi commerciali sfavorevoli, cosa che ci indebolirebbe ulteriormente, esponendoci ad ulteriori rischi.   Ad esempio, i singoli paesi europei potrebbero non essere più in grado di controllare le proprie frontiere (neanche volendo), con conseguenti movimenti incontrollati di persone e merci che minerebbero ulteriormente l’economia e la società. Insomma accadrebbe esattamente il contrario di quel che sognano molti nazionalisti odierni.

casa crollataSemplificando al massimo con una metafora, la casa che abbiamo costruito grazie all’energia fossile sta franando, sia per i maggiori costi e la minore qualità delle risorse rimaste (rinnovabili e non), sia per l’accumulo di sostanze e materiali tossici che comincia a minare i fondamenti della nostra società (clima, pesca, foreste, barriere coralline, eccetera).   Finirà in un cumulo di macerie, ma chi abita nelle stanze che crollano per prime, farà da materasso (qualcuno lo ha già fatto) a quelli che cadranno dopo.   Quello che riuscirà a cadere per ultimo in cima al mucchio, sarà quello che si fa meno male di tutti.

Una strategia possibile?

Ovviamente, passando dalle metafore alla realtà le cose si fanno parecchio più complicate.  A cominciare dal fatto che la globalizzazione ha alzato i livelli di interdipendenza a livelli tali da rendere difficile un conflitto.  Uno dei vantaggi che la de-globalizzazione si porterà via.   Per fare un esempio, se davvero l’Europa, o gli USA andassero in frantumi, l’economia Cinese subirebbe un contraccolpo probabilmente mortale.  Questa è una delle ragioni per cui, per ora, non ci saranno conflitti diretti fra “pesci grossi”, mentre i pesci piccoli saranno progressivamente spendibili, secondo il bisogno di questo o quello dei grossi.

Al di la di questo, rimane il fatto che ogni paese dovrà trovare la sua strada fra le due opposte esigenze. Da un lato, occorre ridurre la complessità per contenere i consumi e gli impatti (oltre che la popolazione, ma questo non si dice perché è brutto).  Dall’altro bisogna mantenere, se possibile accrescere la dimensione e la complessità per evitare di essere schiacciati dai vicini, parimenti in difficoltà.

comunità-agricolaUna partita quindi che andrebbe giocata su due tavoli contemporaneamente.  Da un lato, favorire e sostenere la diffusione di tecniche e modelli sociali il meno impattanti possibile.  Dunque favorire una controllata discesa verso modelli organizzativi di dimensione decrescente (le famose economie locali, ecc.).   Dall’altra, sviluppare livelli maggiori di integrazione sovranazionale (federazioni, alleanze, ecc.) in grado di opporsi almeno per un certo periodo alle brame altrui su quel che resta della nostra eredità storica.   Un gioco che, comunque, non potrebbe durare per molto, ma che potrebbe permetterci un impatto molto meno violento contro il nostro fato.  Guarda caso entrambe queste strategie tendono a svuotare il livello statale che, non a caso, si sta opponendo con tutte le proprie, notevoli forze ad entrambe.  Resta da vedere se davvero dei livelli organizzativi di tipo ottocentesco siano indicati a fronteggiare il presente ed il futuro prossimo.

Un altro pezzo importante di una strategia di rallentamento del declino, è quello di danneggiare i soggetti esteri potenzialmente ostili per renderli inoffensivi e, se possibile, abbastanza fragili da poter essere poi sfruttati.   Contemporaneamente, accrescere invece la collaborazione con i soggetti con cui abbiamo interessi comuni da difendere.  Insomma niente di concettualmente diverso da quello che gli stati hanno sempre fatto e che oggi altri fanno molto meglio di noi.   USA, Russia e Cina stanno tutti facendo questo gioco, sia pure con metodi e scopi diversi.   Gli americani picconano la stabilità della nostra moneta e giocano di sponda fra le tradizionali inimicizie  europee.   I russi finanziano i vovimenti neo-fascisti e nazionalisti.   I cinesi stanno saccheggiando quel che è rimasto dell’Africa, scaricando a noi la massa di gente in esubero.   Comunque, man mano che ci indeboliamo, diventa più facile soffiarci altre fette del bottino che abbiamo accumulato nei due secoli in cui diversi paesi europei si sono alternati nel condurre questo gioco.

La dinamica è infinitamente più complessa, ma in fondo concettualmente simile dal sistema delle razzie che tanta parte ha nell’economia e nell’ecologia dei popoli primitivi.

Conclusioni

Per quanto riguarda l’UE, il panorama politico europeo è oggi dominato sostanzialmente da due tipi di formazioni.

In primis, le forze che tuttora controllano i governi nazionali e che sono autenticamente “euroscettiche”.   Nel senso che vogliono mantenere in piedi le strutture attuali, ma svuotate di sostanza in modo da limitare al minimo indispensabile  la perdita di potere che investirebbe gran parte delle classi dirigenti nazionali se si formassero classi dirigenti federali.   In altre parole, vogliono la scatola, ma il più vuota possibile.

L’altro gruppo, che annovera la maggior parte dei partiti di opposizione principali, comprende coloro che vogliono fare a pezzi la scatola, sognando scenari di benessere e libertà in linea con la robusta tradizione utopistica della nostra cultura.

Indipendentemente dai casi particolari, anche molto diversi, il mio giudizio personale è che i primi (l’attuale classe dirigente) non ha giustificazione alcuna.  Non solo stati loro a svuotare l’EU di qualunque contenuto ideale, ma sono stati parimenti loro a spingere il processo di globalizzazione che tanto ha fatto per minare le fondamenta materiali d’Europa.
Oggi molti confondono questi due processi, mentre, come ho cercato di spiegare nei precedenti post, erano e restano antitetici.  L’europeizzazione consiste infatti in un processo di progressiva eliminazione degli antichi confini statali, sostituendoli con un più consistente confine collettivo.   Cioè un processo che avrebbe dovuto portare alla creazione di un sistema capace di trattare con USA e Russia da pari a pari.  In un simile contesto, probabilmente, la Cina sarebbe rimasta marginale.
La globalizzazione, come abbiamo visto, tende invece all’eliminazione di ogni confine economico a livello mondiale. Dal nostro punto di vista, ciò ha significato soprattutto la massiccia esportazione di capitali e tecnologie verso paesi almeno potenzialmente ostili.  Difficile immaginare un suicidio più sicuro per una società industriale, già alle prese con le prime avvisaglie dello scontro finale contro i Limiti dello Sviluppo.

La seconda categoria, quella che definirei degli eurofobi, è molto più eterogenea e comprende anche persone colte ed intelligenti che poco hanno a che fare con il becero neo-populismo maschilista di molti gruppi attivi in questo campo.   Conoscendo e stimando alcuni di loro, credo che come movente di fondo abbiano un profondo senso di tradimento.   Un sentimento peraltro giustificato da quanto detto qui sopra.
Tuttavia, se la dinamica dei sistemi ci può insegnare qualcosa a questo proposito, ridurre il proprio grado di complessità consente sì di ridurre i costi di  mantenimento delle sovrastrutture, ma al prezzo di ridurre anche la propria capacità di assorbire bassa entropia ed espellerne di alta.   E si tratta di una retroazione positiva in uno scenario globale senza precedenti storici.   In pratica, i due scopi dichiarati: rilancio delle economie nazionali e recupero della sovranità  sarebbero i risultati più improbabili di una simile operazione.   Pensare che un “oggetto” come l’Italia o la Germania possa rivendicare un effettiva sovranità nei confronti di soggetti della taglia geopolitica di USA, Russia e Cina, è un po’ come pensare che S. Marino potrebbe fare qualcosa contro la volontà del governo italiano.

D’altronde, non dobbiamo dimenticare che chi dobbiamo assolutamente salvare non è la nostra civiltà o le nostre persone, bensì la Biosfera.   Altrimenti non ci saranno in futuro né civiltà, né umani, né niente del tutto.   E dal punto di vista della Biosfera, qualunque cosa è meglio del prolungarsi della presente agonia.
In parole povere, ciò che ci potrebbe favorire nell’immediato, necessariamente ci nuoce in prospettiva e viceversa.
Forse, accelerare i tempi del proprio collasso è la cosa più altruista che una società possa fare.   Resta da vedere se ne è cosciente.

conclusione

Stagnazione all’italiana.

Nei giorni scorsi è apparso un ennesimo articolo sulla crisi economica italiana.   Ho scelto questo come spunto per una riflessione perché è stato pubblicato su “Econopoly”, una rubrica del Sole 24ore. Dunque su di un giornale che certamente non condivide i miei presupposti ecologici e fisici, ma che indubbiamente è molto competente sugli argomenti economici e finanziari.  Insomma, un giornale da cui mi separa un baratro a livello per-analitico, ma da cui c’è sempre da imparare.

In sintesi, l’autore dell’articolo, Alessandro Magnoli Bocchi, prospetta tre scenari possibili per il prossimo decennio:

“Scenario 1 (probabilità: 75 %) – Status quo e accettazione di fatto della leadership tedesca. In pratica, continuare sull’andazzo degli ultimi 10 anni.

Scenario 2 (15 %) – Riforma dell’Unione Europea e attuazione di riforme incisive in Italia.  Un mix di investimenti pubblici, semplificazioni burocratiche, riforme politiche, liberalizzazione economiche che dovrebbero “rilanciare la crescita”.

Scenario 3 (10 %) – Uscita dall’euro. Bancarotta, ristrutturazione del debito e poi chissà?

Purtroppo, mi trovo sostanzialmente d’accordo sul fatto che questi sono i tre scenari possibili, ma aggiungerei che i primi due condurrebbero con ogni probabilità al terzo.   Dunque, in tempi magari un poco più lunghi, la bancarotta sembrerebbe una specie di fato ineluttabile.   La causa principale di si foschi presagi sarebbe, secondo l’autore, il ritardo e l’inerzia nel portare avanti sostanziali riforme liberali al sistema.

Senza nulla voler togliere all’effettivamente asfissiante inefficienza di tanta parte del nostro sistema, siamo sicuri che non ci sia dell’altro?
Volendo dare una risposta che non sarà letta, vorrei far notare a dr. Magnoli Bocchi che la crisi economica, sia pure in modo molto diverso da caso a caso, sta gradualmente interessando tutti i paesi del mondo.   Perfino la Cina che, sotto molti aspetti, svolge oggi il ruolo di “faro ideale” per la nostra classe dirigente. Un po’ come in passato lo furono l’URSS per i comunisti e gli USA per i liberali.   A mio avviso ciò significa che, al di la delle situazioni contingenti ad ogni realtà nazionale e locale, sono all’opera fattori globali afferenti, purtroppo, alla tragica realtà dei “Limiti allo Sviluppo” nei suoi vari aspetti.

Ciònondimeno, è vero che l’economia tedesca si sta dimostrando più dinamica e resiliente di quelle degli altri paesi UE e, soprattutto di quella italiana.   Un dato di fatto che meriterebbe un approfondimento.   Fra i numerosi aspetti della questione, vorrei qui attirare l’attenzione su di un argomento mai preso in considerazione quando si parla di “competitività” internazionale e, viceversa, critico; oltre che irreparabile.

La sindrome del posacenere.

Un mio vecchio amico una volta mi disse: “Vedi l’urbanistica è come un posacenere.   Se tutte le cicche sono dentro un piattino di vetro, la stanza è pulita e funzionale.  Se le stesse cicche le spargo dappertutto, l’avrò resa uno schifo impraticabile.”

Chi si voglia prendere la briga di osservare su Google le foto satellitari delle periferie urbane, scoprirà una cosa sorprendente.   In alcuni paesi, ad esempio la Germania, le città sono state complessivamente costruite con un certo ordine e criterio.   Ad esempio separando la campagna, le aree industriali, quelle commerciali e quelle residenziali.   A titolo d’esempio, qui vediamo Friburgo (220.000 abitanti).

Friburgo (Germania) e dintorni
Friburgo (Germania) e dintorni

Esattamente l’opposto di quello che abbiamo fatto in Italia e, in misura ancora maggiore, in tanta parte della Spagna e della Grecia.   Per essere furbi, abbiamo fatto praticamente tutto dappertutto, creando suburbi vasti come intere provincie, dove si mescolano e si accavallano villette e capannoni, piazzali e condomini, magazzini e centri commerciali.   Mentre sul “retro della città” agonizzano i frammenti di quella che avrebbe potuto essere campagna; gradualmente invasi da baracche, depositi più o meno abusivi, piazzali e tutto l’armamentario del degrado sub-urbano.   Sempre a titolo di esempio, qui vediamo Prato (190.000 abitanti che consumano forse il quadruplo della superficie rispetto a Friburgo).

Prato e dintorni.
Prato e dintorni.

Certo, costruire in questo modo ha permesso ai privati di abbattere i costi di costruzione e di urbanizzazione, tanto delle casette, quanto dei capannoni e dei piazzali industriali.   Ma ora, esaurito questo effimero vantaggio, ci troviamo con una situazione ingestibile ed irreparabile.   Molto semplicemente, avere costruito così le nostre città ha delle conseguenze che si possono riassumere così:

  • Maggiori costi e minore efficienza di tutti i servizi di rete (elettricità, acqua, gas, fognature, trasporti pubblici, ecc.) al punto che spesso non sono neppure realizzabili (tipicamente le fognature e la depurazione).
  • Maggiori costi di gestione della rete idrica e maggiore rischio idrogeologico.
  • Maggiori costi e tempi di trasporto.  Sulle medesime strade si incolonnano tir, automobili, apette e ciclisti, assieme ad autobus e pedoni.   Il pericolo è costante, l’efficienza minima.
  • Maggiori costi di intervento per qualunque opera di manutenzione, integrazione o ammodernamento, sia delle reti, che di impianti, case, ecc.   Al punto che spesso si rinuncia a farli (tipicamente: aree verdi urbane, piste ciclabili, parcheggi scambiatori, ecc.).
  • Necessità di uso dell’auto privata e del camion, con le conseguenze del caso.
  • A parità di altri fattori, maggiori tassi di tutti i tipi di inquinamento e conseguenti costi diretti ed indiretti.
  • Elevato disturbo ed intralcio reciproco fra le diverse attività che si accatastano a casaccio nello stesso posto.
  • Degrado paesaggistico ed impraticabilità turistica di zone che, magari, contengono oggetti di del pregio storico od artistico delle ville lucchesi o di quelle venete.
  • Massima distruzione di suolo, soprattutto agricolo e perlopiù di eccellente qualità.   In questo modo infatti, non solo le aree artificializzate vengono rese irreversibilmente sterili, ma anche ben più vaste superfici che diventano inutilizzabili a causa della frammentazione e della difficoltà di accesso.
  • Isolamento delle residue aree agricole e naturali che perdono così buona parte della loro biodiversità e resilienza.

Nel complesso, non sarei in grado di quantificare il danno, ma in un contesto in cui i margini di guadagno sono sempre più sottili e la competizione sempre più esacerbata, credo che questo genere di costi, moltiplicati per un intero paese, abbiamo un peso rilevante.  Perché dunque nessuno ne parla?

Credo sia per due ragioni principali: La prima è che oramai non c’è più niente da fare.  Non possiamo immaginare di demolire e rifare i due terzi dell’edificato nazionale.

La seconda è che la responsabilità ricade sull’intera popolazione.  Dal privato cittadino che ha voluto farsi la villetta dove aveva ereditato un pezzetto di terra; all’industriale che per i suoi capannoni ha comprato terreno agricolo per poi farsi cambiare la destinazione d’uso.   Fino al tizio che trova comodo accumulare i suoi rifiuti in un cantuccio dietro la città, invece di conferirli secondo norma.   Passando per il palazzinaro che spara le sue villette a schiera dove il terreno costa meno, ciò dove è più lontano dai servizi essenziali.

Insomma, fino agli anni ’60 il “laissez faire, laissez passer” ha funzionato.  Abbiamo fatto le stesse cose dei tedeschi e dei francesi, con costi minori.  Si sa che gli italiani sono furbi!   Ma col passare del tempo, abbiamo dovuto cominciare a fare i conti con l’oste e scoprire che chi aveva speso di più per costruire meglio si trovava poi ad avere dei costi di gestione ridotti ed una maggiore produttività.

Oh perbacco! Ma non è che per caso sul Sole 24ore si parla spesso di inefficienza e scarsa produttività?