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Chi mantiene le promesse elettorali? Risposta semplice…

il mio nome è nessuno

Risposta breve: Nessuno. Mai. In nessun posto.

Lo spiritoso mural recita:

Vota per: NESSUNO

Nessuno manterrà le promesse elettorali
Nessuno ascolterà le tue preoccupazioni
Nessuno aiuterà i poveri e i disoccupati
Nessuno si interessa!

Se Nessuno sarà eletto le cose andranno bene per tutti

NESSUNO DICE LA VERITA’

Ha ragione ahimé, noi, voi, essi.

E lo sappiamo.

Ed allora Perché continuiamo a votarli?

Semplice: Per paura, per speranza. Paura di un cambiamento che sentiamo minaccioso o pericoloso e speranza che questo cambiamento avvenga.

Il guaio è che, per avere abbastanza voti, bisogna promettere tutto ed il contrario di tutto. In una situazione in cui, SE fossimo onesti, si dovrebbe ammettere che il mondo è cambiato per sempre e che è ora di riformulare le attese per il nostro futuro e quello dei nostri figli, riportandole all’interno di quanto è possibile in un pianeta finito, con risorse in esaurimento, decisamente sovrappopolato e con una forte crisi di identità (eufemismo). Poiché quindi lo ‘Iatus’ tra quanto è possibile o consigliabile fare e quanto le persone (la ggente) si attendono aumenta, ogni singolo partito sta diventando sempre più populista. Ovvero si prepara ad esercitare un potere plebiscitario, una carta bianca firmata dagli elettori (la minoranza che voterà il raggruppamento politico che otterrà la maggioranza dei seggi).

In poche parole la democrazia scivola, per necessità di cose, verso la demagogia. E questa, come ricordava Tucidide quasi 2500 anni fa, verso l’oligarchia e la dittatura. Il processo, a mio avviso, avviene su scala mondiale.

Benché non sia detta l’ultima parola (la Storia ci insegna che le giravolte capitano) c’è da chiedersi se ci si possa ancora rendere complici di una commedia, votare persone che sanno bene, nella stragrande maggioranza dei casi, di mentire e che, nondimeno, preferiscono una menzogna di successo ad una verità scomoda. Noi di Crisis siamo, scusatemi, di pasta diversa. Ci rassegniamo ad un successo di nicchia (se e quando va bene) ma le verità scomode ve le scriviamo e scriveremo sempre tutte.

In effetti, a non essere in lista, qualche vantaggio c’è.

Figli di un Dio Motore

Come vado da tempo spiegando, l’organizzazione della mobilità urbana nelle città italiane risponde a logiche diverse da quelle che regolano le altre grandi capitali del mondo industrializzato. Partendo dall’esempio di recenti fatti romani illustrerò come lo sviluppo di forme di mobilità sostenibile venga non solo ignorato, bensì scientemente ostacolato dalle nostre istituzioni .

I mass media ci raccontano ormai da decenni  di città soffocate dal traffico e dall’inquinamento, con progressivo aumento di patologie: allergie, malattie delle vie respiratorie, tumori, complicazioni cardiovascolari legate alla vita sedentaria, malattie da stress e via elencando. A completare questo quadro drammatico c’è poi l’incidentalità, che sforna un computo di morti, feriti ed invalidi tipico di una guerra a bassa intensità. Ci si potrebbe aspettare che una situazione tanto grave attivi reazioni urgenti da parte delle varie entità di governo del paese, tuttavia questo non avviene. Per l’esattezza non è mai avvenuto.

Continuiamo a vivere in città regolate da un Codice della Strada emanato negli anni ’50 e, a giudicare dagli effetti, direttamente redatto dagli allora dirigenti della FIAT. Un’organizzazione delle strade già in partenza molto discutibile che, proiettata ad oltre mezzo secolo di distanza, ha letteralmente intasato gli spazi urbani di veicoli privati in transito a velocità eccessive.

Ridurre il carico di veicoli che circolano nelle città è ovviamente possibile. Gli interventi da porre in atto ricadono in due grandi tipologie: limitazioni degli accessi veicolari da un lato, facilitazione dell’utilizzo di modalità di trasporto alternative all’automobile dall’altro. L’imposizione di limitazioni agli automobilisti ottiene per solito una levata di scudi da parte della cittadinanza, ed è facilmente strumentalizzabile come ‘liberticida’ dai conservatori dello status quo (anche se quella che si intende limitare è la libertà di far male agli altri). Una strategia meno apertamente conflittuale comporta la messa in sicurezza degli utenti leggeri (ciclisti, pedoni ed utenti del trasporto pubblico) nell’idea di ridurre il carico veicolare sulle strade semplicemente favorendo modalità diverse di spostamento. Nelle principali capitali dei paesi occidentali si va operando ormai da anni un mix delle due opzioni.

L’intervento più semplice di sistemazione ciclabile prende il nome di ‘bike lane’ e consiste nella separazione dei flussi a mezzo di  semplice segnaletica orizzontale: una riga bianca disegnata a terra con pittogrammi di bici intervallati fra loro. Questa sistemazione non modifica l’ampiezza della sede stradale, ma consente di indicare la porzione di suolo utilizzata dai ciclisti ed ottenere che gli automobilisti se ne tengano a debita distanza. Ovviamente la convivenza di veicoli tanto diversi in assenza di una separazione fisica richiede che le velocità relative siano relativamente basse, e non è pertanto applicabile sulle tratte stradali ‘ad alto scorrimento’.
Gli antesignani di questa soluzione sono stati olandesi e danesi, questo è un esempio di ‘bike lane’ a Copenhagen.

Copenhagen
Qui invece siamo a Parigi, dove nel corso degli ultimi dieci anni le corsie ciclabili si sono moltiplicate rapidamente.

Parigi
Ed ecco Londra, dove pure, a partire dall’ingresso nel 21° secolo, le politiche di incentivazione della mobilità ciclistica e pedonale sono state diffuse e radicali.

London
Perfino a New York, capitale morale del continente che ha visto il più alto tasso di motorizzazione globale, le amministrazioni più recenti stanno operando un ridisegno della viabilità cittadina per favorire la scelta, ormai diffusa, di muoversi in bicicletta e a piedi.

New York
Al contrario a Roma, la città in cui vivo, l’amministrazione comunale ha scelto di fare orecchie da mercante, manifestando la più totale sordità alle richieste massicciamente avanzate dai cittadini ciclisti. Le ultime realizzazioni ciclabili, costose e dalla discutibile efficacia, risalgono alle giunte Veltroni. Dalla successiva consiliatura Alemanno alla caduca giunta Marino si è assistito ad un vero e proprio valzer di assessori, nella media totalmente disinteressati alla promozione dell’uso della bici ed alla salute dei cittadini, quando non apertamente contrari.

Gli attivisti romani hanno perciò preso spunto dal lavoro svolto in un’altra grande capitale nordamericana, Seattle. Si sono rimboccati le maniche ed hanno iniziato a tracciare segmenti di bike-lanes in tratti particolarmente a rischio della città. L’individuazione dei punti sui quali intervenire si è avvalsa in parte dell’esperienza diretta, in parte di un’analisi delle criticità urbane sviluppata dal sottoscritto.

La prima infrastruttura di questo tipo, apparsa all’interno del sottopasso di Santa Bibiana, è stata prontamente cancellata e, a breve distanza di tempo, ripristinata dai cicloattivisti. Ne sono seguite altre sotto la Stazione Tuscolana e su via Prenestina che, ignorate dall’amministrazione, sono state utilizzate a lungo dai ciclisti romani. Diverso destino per l’ultima nata, la “5th Avenue” (perché quinta in ordine di tempo e come rimando all’omonima via newyorchese, recentemente dotata di una apposita bike lane), realizzata pochi giorni fa su Ponte Principe Amedeo d’Aosta. Ecco come appariva l’opera appena completata.

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A differenza delle precedenti (se si esclude Santa Bibiana), quest’ultima realizzazione è durata pochissimo. Le ‘truppe cammellate’ della manutenzione stradale, capaci di lasciare buche aperte per mesi e di ridipingere le strisce pedonali solo nella porzione di strada lasciata libera dalle auto in sosta vietata, a distanza di sole quarantott’ore sono corse a cancellarla, con un’urgenza altamente sospetta.

Roma2
Questo è l’effetto finale della sistemazione dopo la cancellazione. Notare come il flusso di traffico ‘rispetti’ ugualmente il corridoio nonostante la cancellazione della linea bianca. Segno evidente che la scelta di destinare l’intera ampiezza della carreggiata al transito veicolare non è dettato da alcuna reale necessità, ma solo un portato della volontà di assegnare tutto lo spazio disponibile ad un’unica tipologia di veicoli.

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Seattle, a differenza di Roma, ha mostrato una maggior intelligenza nell’accogliere le istanze dei cicloattivisti cittadini. Le bike lanes realizzate ‘clandestinamente’ sono state lasciate in funzione in via sperimentale, per verificarne la validità, ed in seguito acquisite come sistemazioni definitive della viabilità cittadina. Questo è quanto ci si potrebbe aspettare da un’amministrazione illuminata.

Seattle
Il comportamento di quella romana, al contrario, manifesta unicamente la stolida volontà di continuare ad affermare un potere assoluto, esercitato a difesa di sistemazioni stradali ormai palesemente disfunzionali ed antistoriche, baluardo di una modalità di trasporto inefficiente, energivora e per più di un motivo ormai insostenibile e da ridimensionare. Cosa che tutte le altre grandi città del pianeta hanno compreso da tempo.

La sorte dei cicloattivisti romani continua a rimandarmi alla mente la scena della donna ingegnere ebrea nel film Schindler’s List, che corre dal comandante del campo per segnalare un rischio di instabilità strutturale nelle nuove costruzioni, e viene per questo giustiziata sul posto. Una volta avvenuta l’esecuzione, lo stesso comandante ordina che la struttura venga modificata come da lei indicato.

Schindler's list
Che le modalità d’uso delle città siano destinate a cambiare in chiave di riduzione del traffico motorizzato è evidente a chiunque segua da un po’ le trasformazioni urbane in corso nelle grandi metropoli. Quello che le città italiane otterranno con questo ostruzionismo nel preservare utilizzi obsoleti dello spazio pubblico è altrettanto evidente: magri vantaggi per pochi soggetti economicamente forti ed un danno enorme in termini finanziari e di salute per l’intera popolazione. Personalmente avrei tanto desiderato un destino diverso per questo disgraziato paese.

Le conseguenze della corruzione

Quando leggiamo le statistiche della corruzione, che ci vedono ultimi in Europa e al 67° posto assoluto tra i paesi del mondo, la maggior parte di noi pensa semplicemente al politico truffaldino che intasca la fatidica mazzetta, personaggio iconico che la fantasia popolare percepisce ormai circonfuso da un’aura di simpatica ribalderia.

basta-con-la-giustizia
In realtà le ricadute negative della corruzione sono ben più numerose, estese e gravi di quanto ci si renda normalmente conto. Christopher Groskopf ha recentemente pubblicato un post intitolato: “i cattivi guidatori sono un buon indicatore di un governo corrotto”, che a sua volta rimanda ad un precedente articolo di James O’Malley dal taglio più tecnico: “Le strade di Bucarest: come il comportamento stradale è correlato alla fiducia nel governo”. La tesi esposta in questi due lavori è che l’onda lunga della corruzione dilagante arrivi a produrre effetti nefasti in ambiti molto estesi e solo apparentemente non correlati.

In un sistema a corruzione endemica lo scambio di mazzette è solo la punta dell’iceberg. Una classe politica diffusamente delinquenziale deve attivamente alimentare un contesto sociale disfunzionale se vuole che il fenomeno corruttivo operi in maniera efficace. Il terreno fertile per la corruzione è caratterizzato da istituzioni inefficienti, norme procedurali farraginose ed incoerenti che offrano ampio margine alla discrezionalità, corpi di pubblica sicurezza sotto organico e con risorse limitate, clientelismo diffuso, percorsi processuali lunghi ed incerti (con tempi di prescrizione irragionevolmente brevi) e, quel che è peggio, da un’opinione pubblica ignorante, distratta e politicamente poco reattiva.

Cominciamo dall’inefficienza della macchina pubblica. Drenare risorse da un sistema funzionale non è semplice, dal momento che in un simile contesto le imprese lavorano e vengono pagate, le opere realizzate e la popolazione è soddisfatta. Innescare un meccanismo di favoreggiamento all’interno di un tale processo richiede di farsi parte attiva nell’estorsione e rischiare di incontrare, dall’altra parte, cittadini ligi alle regole e pronti a denunciare. Al contrario, con una macchina pubblica elefantiaca ed immobile si creano le condizioni ottimali perché qualsiasi intervento ‘facilitatore’ diventi indispensabile, e conseguentemente ‘retribuito’. Il punto, se ancora non è chiaro, non è tanto la singola mazzetta o la quantità di denaro sottratto, quanto la distruzione dell’efficienza della macchina pubblica indispensabile per dar vita ad un efficace sistema tangentizio.

Distruzione che ha, essa stessa, molte facce. Sul piano legislativo le leggi devono essere confuse e di difficoltosa applicazione, in modo da lasciare il massimo spazio da un lato all’inefficienza, dall’altro alla discrezionalità. In seconda battuta va coltivata una classe di burocrati e tecnici conniventi, che non pretenda, e men che meno ottenga, di rimettere in discussione i protocolli attuativi disfunzionali rendendoli efficaci. Una classe politica corrotta non promuoverà i funzionari in base al merito o alla competenza, bensì in base alla disponibilità ad assecondarne le scelte.

Una volta messo a regime il sistema estorsivo occorre, parallelamente, depotenziare l’azione delle forze dell’ordine per ostacolare l’individuazione e la persecuzione dei comportamenti illegali. Ciò si realizza da un lato agevolando le carriere di funzionari conniventi col detto sistema, dall’altro riducendo progressivamente le capacità operative ed investigative. Se questo vi fa tornare in mente le polemiche sulle volanti della Polizia ferme perché prive di carburante, o sulla sproporzione tra dipendenti negli uffici e personale realmente operativo, la cosa non può sorprendere.

Il clientelismo, o voto di scambio, è solo un’ennesima testa dell’idra. Politici corrotti presidiano la macchina pubblica assumendo amici e parenti che, riconoscenti, garantiscono ossequio alle direttive ed un serbatoio di voti certi alle successive elezioni. Questo sistema consente di saccheggiare direttamente le imprese pubbliche con false fatturazioni senza nemmeno passare per la rischiosa richiesta di tangenti. Un esempio particolarmente plateale è lo scandalo dell’emissione di biglietti falsi in ATAC, l’azienda di trasporto pubblico romano, venduti ai cittadini a pari prezzo di quelli legali mentre il ricavato finiva, anziché all’azienda in deficit, nelle tasche dei dipendenti e dei politici che avevano messo in piedi la truffa.

Un simile sistema basato su irregolarità, inefficienze ed arbitrio finisce col trasformare l’organizzazione della macchina pubblica nell’equivalente di una guerra tra bande criminali, dove ogni funzionario, dipartimento o gruppo di potere, risponde alle pressioni di realtà analoghe, ivi inclusi i poteri economici esterni all’amministrazione. I dipartimenti, invece di collaborare, si ostacolano l’un l’altro, ognuno cercando di sfruttare al massimo le proprie leve di potere. Essendo infiltrata a qualsiasi livello, al pari della Mafia in Sicilia, la corruzione diventa immenzionabile. O, per meglio dire, la corruzione non esiste.

Questo non richiede che tutti i politici, o tutti i funzionari, siano indiscriminatamente criminali. La politica è l’arte della manipolazione, e i manipolatori più abili occupano generalmente le posizioni apicali. Nei livelli intermedi troviamo spesso persone oneste e capaci, che provano a migliorare le cose, intrappolati come tutti gli altri nella tela del ragno. Queste persone garantiscono al sistema criminale un’immagine di presentabilità nei confronti dell’elettorato, ma al contempo ogni iniziativa che propongono viene sabotata da parte della macchina amministrativa, o direttamente dai vertici del partito, vanificandone gli sforzi.

Analogamente l’attivismo dei cittadini viene sistematicamente ostacolato, in particolar modo quando cerca di promuovere valori positivi, salvo occasionalmente strumentalizzarne l’operato nel momento in cui si è in cerca di consenso elettorale. All’interno della macchina istituzionale, i pochi risultati positivi prodotti da un comparto eventualmente meno corrotto vengono sistematicamente boicottati e demoliti dagli altri, spesso per pura necessità di affermazione di potere.

In questo quadro complessivo emerge una evidente risonanza tra poteri economici speculativi e corruzione politica, entità diverse che operano scientemente ai danni sia dei cittadini che di una macchina pubblica efficiente, perennemente sospesi sul sottile crinale rappresentato dal dover realizzare l’opposto di quanto promesso senza che l’opinione pubblica se ne accorga, e camuffando le volontà speculative nella narrazione di problemi, ritardi ed inefficienze burocratiche.

Ma l’ultimo e probabilmente più disastroso effetto consiste nella lenta e progressiva distruzione dell’intelligenza e della capacità di attenzione dell’opinione pubblica, all’interno di un meccanismo che si autoalimenta. Meno la ‘governance’ funziona, più il cittadino si trova a dimenarsi all’interno di un sistema caotico ed incapace di fornire risposte efficaci alle sue necessità, e più attenzione dovrà dirottare sulle proprie esigenze minime di sopravvivenza. Guidare in un traffico sregolato che divora energie ed ore di vita, rimbalzare da un ufficio all’altro, da una complicazione alla successiva, nell’incertezza di tutto, produce un consumo di risorse intellettive tale da rendere lontana, confusa e sfumata la percezione della devastazione sistemica complessiva.

Completa tale disastroso scenario l’asservimento dei mass media. Giornali e televisioni diffondono un’informazione grossolana e manipolata, priva di memoria storica e lontana anni luce dalla pratica anglosassone del ‘fact-checking’, sovente ridotta al puro ruolo di grancassa delle esternazioni del politico di turno, diffusa in maniera totalmente acritica. Trasferiti al livello nazionale questi meccanismi perversi generano un progressivo smantellamento del sistema scolastico, con peggioramento della qualità dell’istruzione, blocco del cosiddetto ‘ascensore sociale’ e fuga dei cervelli all’estero.

Ben lungi dal rappresentare una serie occasionale di singoli casi in cui il politico di turno ottiene la tradizionale ‘mazzetta’, il fenomeno corruttivo affligge l’intera organizzazione pubblica e statale in forme diverse, e si riflette in una varietà e vastità di ambiti tra loro apparentemente non correlati.  In questo scenario il termine ‘corruzione’ assurge al suo significato originario: la decomposizione di un organismo un tempo vivo (lo stato) le cui carni putrefatte esalano gas dagli odori nauseabondi mentre vengono divorate da vermi famelici.

Ciclo di retroazione della corruzioneP.s.: so già che molti staranno elaborando quest’analisi come una ennesima riproposizione di una qualche ‘teoria del complotto’. Purtroppo l’avvento di un’organizzazione sociale basata sulla corruzione diffusa non ha necessità di alcuna pianificazione (anche se il Piano di Rinascita Nazionale di Licio Gelli ci assomigliava molto), ma solo di una concordanza di intenti da parte di un numero sufficiente di soggetti criminali, oltre ad alcune condizioni di contorno. L’affermarsi della corruzione può essere descritta nei termini di un Comportamento Emergente della società italiana nel suo complesso. Questo concetto mi riservo di illustrarlo meglio in un prossimo post.

(gli argomenti illustrati in questo post sono stati ulteriormente integrati da Jacopo Simonetta)

Euroscettici

euroscetticiGli euroscettici vanno di moda, ma chi sono?    Secondo la vulgata sarebbero un variegato assemblaggio di movimenti sia di destra che di sinistra, nemici su tutto tranne che sul fatto che bisogna ridurre il potere degli organismi comunitari.   Anzi, per parecchi di loro sarebbe meglio abolirli proprio.
Ma sono davvero loro gli euroscettici?

Per discutere l’argomento, conviene cominciare con un ripassino-lampo di storia patria:

 

Un po’ di storia

All’inizio del XX secolo le potenze europee avevano, complessivamente, il mondo in pugno.   Una solida alleanza fra Inghilterra, Francia e Germania avrebbe avuto la forza di tenere incantonati Stati Uniti, Russia e Giappone, nonché di risolvere tutti i problemi interni di povertà continuando a sfruttare spudoratamente il resto del mondo.
Certo, non era etico, ma non fu per uno scrupolo morale, bensì per un desiderio folle di predominio che gli europei decisero di suicidarsi scatenando la più terribile guerra mai vista fino ad allora.

Anche i vincitori ne uscirono molto peggio di come ci erano entrati ed il fiume di sangue fu così impressionante che ne  scaturì il progetto della “Paneuropa”.   Un progetto che ebbe un notevole successo iniziale, ma che fu presto soffocato dall’arrivo in Europa della Grande Depressione degli anni’30, nata in USA.   Il precipitare della situazione economica riportò al governo partiti nazionalisti che tentarono di arginare i danni dei propri paesi a scapito dei vicini.   Particolarmente feroci furono i francesi a danno dei tedeschi, cosa che aiutò non poco la carriera politica di Adolf Hitler.

Fu così che gli europei si gettarono in un secondo ed ancor più devastante suicidio collettivo; il più grandioso dell’intera storia.   Come andò lo sappiamo e, scavalcando forse 50 milioni di morti, giungiamo al 1945, con noi ridotti ad un cumulo di macerie, mentre USA ed URSS si spartivano il mondo e quel che restava di noi.

Fu in questo desolante paesaggio che Robert Schuman ebbe l’idea geniale di sostituire lo sfruttamento dei vinti con la collaborazione economica.   Un processo che nelle sue intenzioni doveva gradualmente sanare le ferite reciproche e creare quel clima di fiducia e fratellanza che era indispensabile per giungere alla creazione di quegli Stati Uniti d’Europa, tante volte vagheggiati e mai realizzati.

Funzionò e così giungemmo al 1989: collasso dell’Impero Sovietico.   Occasione per gli europei per un nuovo suicidio.
Con la Russia a pezzi e l’America troppo ebbra di vittoria per preoccuparsi di noi, abbiamo avuto una finestra di buoni 10 anni per fare due cose:
– Guidare l’economia in uno stato il più possibile stazionario;
– Creare una EU politicamente molto coesa ed integrata da subito, diluendo invece l’integrazione economica nei decenni a venire.
In altre parole, politica e difesa comuni; economie tendenti all’unificazione, ma con i tempi e le protezioni di cui ognuno aveva bisogno.

Ancor più importante: basare l’integrazione dei paesi dell’est sulla necessità di fare fronte comune alle immense difficoltà che non avrebbero tardato ad arrivare, anziché sulla prosopopea dell’arricchito che “educa al benessere” il suo vicino di casa povero.

Esattamente il contrario di quanto fecero i partiti al potere allora (ed ora).

euro-crisisLo stesso progetto della moneta unica, nacque come grimaldello per costringere le oligarchie nazionali a cedere effettiva sovranità ad un livello federale.    L’idea era, infatti, che poiché una moneta unica non potrà mai funzionare senza un governo unico, l’adesione all’Euro avrebbe poi costretto i vari “ras” ad accettare almeno un embrione di federazione.
Sbagliato.    Non ci hanno pensato due volte a mandare ai pesci il più importante esperimento politico del secolo per non rinunciare ad una fetta del loro potere.    Signora Merkel in testa al corteo.

Quel che non capisco è perché proprio lei ora si lamenti del fatto che il corteo cui ha dato l’avvio sta avendo tanto successo.

Comunque, non ci bastò: perseguendo un sogno neocoloniale assolutamente folle, assieme agli USA abbiamo promosso e spinto la globalizzazione economica planetaria.

Il sogno era affascinante: un Europa faro di civiltà che gestisce buona parte dell’economia mondiale (a proprio vantaggio), mentre le fabbriche, l’inquinamento, il proletariato urbano e tutte le altre cose sgradevoli connesse con lo sviluppo se le prendevano gli altri che, per di più, ce ne sarebbero stati grati.
E’ andata un po’ diversamente ed ora che la realtà bussa alle porte dei nostri sogni possiamo scegliere fra molte opzioni, ma ancora una volta riemergono gli spettri di un nazionalismo che, evidentemente, non ci è ancora costato abbastanza.    Sembra che stiamo nuovamente scegliendo di scannarci fra di noi, anche se sul piano economico e commerciale, anziché su quello militare, probabilmente perché non abbiamo più forze armate in grado di combattere se non come supporto a quelle USA.

 

Chi sono gli euroscettici?

Fenomeni complessi come questo hanno sempre cause altrettanto complesse, ma una di queste è facile da identificare: i partiti che controllano i governi nazionali controllano anche il Consiglio Europeo che è il vero organo decisionale comunitario.   E da 30 anni questi partiti sono impegnati in un gioco di prestigio: far funzionare un’economia integrata, ma senza integrare le politiche; anzi, spesso tirando a farsi l’un l’altro le scarpe.
Non funziona e non può funzionare, ma questa semplice constatazione non riesce a scalfire i processi decisionali interni agli stati che poi, tramite il Consiglio, si riverberano a livello comunitario.

Il paradosso sta tutto qui: gli stessi partiti che nel Parlamento europeo spingono per una sempre maggiore integrazione, nelle rispettive capitali locali e nel Consiglio Europeo remano invece contro, chi più chi meno.
Del resto è sempre così: le comunità sono più forti dei singoli e danno quindi dei vantaggi, ma per farle funzionare occorre che ognuno sia disponibile a far passare l’interesse collettivo avanti a quello individuale.   E questo non sembra che nessun governo abbia voglia di farlo.

Dunque, se proprio coloro che da sempre stanno seduti nelle “stanze dei bottoni” hanno estrema cura che certe cose non funzionino, è ovvio che non funzioneranno.    Ed è altrettanto ovvio che questo provocherà problemi, scontento e la precisa sensazione di essere presi in giro.   Sentimenti più che giustificati su cui estrema destra e sinistra hanno facile presa.

Io visualizzo la situazione in questi termini: siamo in mezzo ad un mare in tempesta e l’occhio del ciclone si avvicina.   La nostra barca è apparentemente robusta, ma chi la ha governata finora ha smontato gran parte delle strutture portanti per farci delle sovrastrutture inutili e pesanti che fanno beccheggiare pericolosamente lo scafo, mentre imbarchiamo acqua da diverse falle.   Gli ufficiali si picchiano intorno al timone, mentre i membri dell’equipaggio vagano con grosse canne in bocca e bottiglie di whisky mezze vuote in mano.   A questo punto un certo numero di passeggeri si ribella ed ha un’idea: affondiamo la barca ed andiamocene ognuno per conto suo, vedrete come sarà bello nuotare!

In conclusione, chi sono gli euroscettici?

Quelli che per 30 anni si sono rifiutati di fare davvero l’Europa, o quelli che in questi giorni si stanno costruendo delle carriere politiche sugli errori commessi da altri?

Comunque, almeno una cosa nessun euroscettico potrà negare: tutti i popoli d’Europa sono accomunati da almeno due cose: la smisurata superbia ed una spiccata tendenza al masochismo.

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Estrema destra ancora vittoriosa! Domande?

MerkelDomenica scorsa il partito austriaco di estrema destra è diventato il primo del Paese.   Socialisti e democristiani, tradizionali partiti di riferimento, sono praticamente scomparsi.   Ci sono domande?    Penso parecchie.
La cavalcata dell’ estrema destra non solo europea, ma anche americana, cominciò in sordina negli anni ’90.   Considerato allora un fenomeno marginale, oggi sta riempiendo le agende delle think tank e degli analisti; turbando i sonni di un sacco di gente.   Non tenterò qui un riassunto di una tale mole di analisi su di un soggetto così complesso.    Semplicemente vorrei proporre qualche considerazione personale che spero possa contribuire, sia pure minimamente, ad arginare il fenomeno.

destra franceseLa prima è questa: di turno elettorale in turno elettorale l’ estrema destra avanza.  Possibile che tanta gente che votava socialista o democristiano (intesi in senso europeo, molto lato) si stia svegliando nazista o fascista?   Personalmente penso che sia poco probabile.   L’ estrema destra ha sempre avuto una sua nicchia, ma marginale era e penso che marginale rimanga.   La massa di voti che raccoglie ha tutta l’aria di essere un voto di protesta e/o di paura.   Niente di particolarmente nuovo, dunque, ma che rischia di generare degli effetti a medio termine perversi.

destra austriacaSospinti dal voto di protesta, i leader dell’ estrema destra andranno probabilmente al potere, dove potrebbero fare dei danni irreparabili.   Specialmente se i governi moderati in carica continueranno a preparare loro in terreno.
Dunque la prima cosa da fare sarebbe capire quali sono i principali argomenti che suscitano nella cittadinanza questo tipo di rischiosa protesta.   Per farsene un’idea, il modo più semplice è osservare quali sono i pochi punti che accomunano la maggior parte dei partiti e dei movimenti di maggior successo, peraltro assai eterogenei.   Direi che i principali sono i seguenti: la recessione con annessi e connessi, la corruzione, l’immigrazione, la sicurezza, il nazionalismo.   Non necessariamente in quest’ordine.

Dunque vediamoli brevemente uno alla volta per vedere se sono possibile delle parate, almeno parziali.

Recessione.

recessioneQuesta è la “madre di tutte le grane”.   Abbiamo costruito il nostro sistema politico basandoci sul presupposto che la crescita economica sarebbe durata per sempre e che, gradualmente, avrebbe coinvolto tutti.   50 anni fa già si sapeva benissimo che si tratta di una favola, ma nessun politico importante ha avuto il coraggio di spiegarlo ai suoi elettori.   E nessun corpo elettorale era ed è disposto a sentirselo dire.   Ne consegue questo sempre più frenetico arrampicarsi sugli specchi che inganna sempre meno gente, offrendo buon gioco a chi propone ricette tanto semplici quanto improbabili (ad es. usciamo dall’Euro).   Paradossalmente, proprio perché semplici ed improbabili, simili proposte fanno presa su chi, giustamente, sente di essere stato pesantemente preso per il culo.   Di qui l’inevitabile altalena di politici che ascendono promettendo di avere la ricetta giusta, per poi immancabilmente deludere.

Qui la parata sarebbe particolarmente difficile perché bisognerebbe spiegare come e perché la crescita non tornerà mai più e che questo, fra tutti i mali possibili, è il minore.   Molto difficile che possa funzionare.   Credo che sia persa, anche se mi piacerebbe vedere qualcuno che ci prova.

Corruzione.

corruzioneUna certa percentuale di parassiti ci sono sempre stati, ma quando diventano tanti e sfrontati scatta la modalità “Sono tutti ladri” che è esattamente quello di cui ha bisogno chi si propone come “quello che farà pulizia”.   Sappiamo già che non è vero ma ci piace illuderci.

Qui la parata sarebbe teoricamente facile: piantarla con gli interessi privati in politica.   Ma visto che in parecchi non lo fanno, forse è meno facile di quel che sembra da fuori.   Forse, una parziale spiegazione è che per salire di molto sulla la scala gerarchica è necessario disporre di un sacco di soldi, propri o di sostenitori.   E per avere i soldi ti devi legare ad un mondo economico in cui il limite fra l’economia “pulita” e quella “canaglia” sfuma di giorno in giorno.   Una volta che sei arrivato in alto, non solo non puoi abbandonare gli “amici degli amici”, ma oramai sei diventato uno di loro.

Immigrazione

immigrazioneQuesto è forse il punto in cui la classe dirigente sta fallendo nel modo più spettacolare.   Un sacco di poteri forti e deboli hanno un sacco di interessi legittimi e non in quest’affare ed ognuno tira il governo dalla sua parte, col risultato che assolutamente niente di quello che è stato fatto dai primi anni ’90 ad oggi ha il benché minimo senso logico.   I risultati non possono che peggiorare man mano che il fenomeno cresce all’interno di sistemi sociali progressivamente fragilizzati dalla crisi economica.

In generale io rifiuto la logica binaria, ma in questo caso credo che potrebbe esserci di aiuto.   Credo che ognuno, nel silenzio della sua cameretta, dovrebbe porsi questa domanda: L’Italia (o l’Europa) è sovrappopolata?   Si o no?   Barrare la casella.   Se si sceglie “Si”, allora è vitale stabilire un efficace controllo delle frontiere esterne e decidere chi facciamo passare e chi no.   Fra “tutti” e ”nessuno” ci sono parecchie opzioni possibili, ma nessuna con tutti sono contenti e nessuno si fa male.   Qualunque scelta facciamo ci saranno dolore e morte.   Se si sceglie “No”, allora l’unica cosa sensata da fare è un servizio regolare di traghetti che prendono la gente e la porti qui.   Ma anche in questo caso ci saranno dolore e morte.
Questo perché, purtroppo, la risposta corretta è “Si, parecchio” e continuare a negare che abbiamo un drammatico problema di quantità di gente serve solo ad aprire la strada chi sostiene che il problema è la qualità.
Il mio parere di ecologo professionista e storico dilettante è che società multietniche e multiculturali sono difficili, ma gestibili (con qualche incidente) ed è vero che la diversità è ricchezza.   Ma e’ anche vero che la nostra economia ed i nostri ecosistemi stanno collassando e che ogni persona in più, anche se rimane nel novero dei poveri, non fa che accrescere un’impronta ecologica già esorbitante.   E non è neanche vero che si potrebbe compensare riducendo lo standard di vita degli autoctoni.   Cosa che, fra l’altro, sta già accadendo (v. recessione) e non sono in molti a rallegrarsene.
Ridurre i propri consumi è infatti esattamente quello che è necessario fare per distruggere il più rapidamente possibile quello che resta della nostra economia industriale.   Una scelta che si può anche fare, ma che andrebbe fatta coscienti delle conseguenze.
Certo, dal momento che gli immigrati sono il 10% della popolazione europea, sono anche il 10% del problema dal punto di vista demografico ed ambientale, ma crescono al ritmo di circa due milioni l’anno e in dinamica dei sistemi le tendenze sono fondamentali.

Sicurezza

terrorismoCi sono due minacce che spaventano: la criminalità ed il terrorismo.

Quanto alla prima, è importante notare che il rapinatore od anche il topo d’appartamento sono assai più temuti del mafioso, autoctono o di importazione che sia.   E la criminalità spicciola è in buona misura una funzione sia della densità di popolazione che della povertà.   Aumentando la quantità di gente e la percentuale di poveri non può che aumentare, quale che sia l’origine dei poveri.

Quanto alla seconda, la probabilità di essere ammazzato da un pazzoide (islamista o meno) è enormemente più bassa di quella di prendersi un cancro, un infarto o di finire sotto una macchina, perfino a Baghdad.   Tuttavia i terroristi sono effettivamente riusciti a terrorizzarci, col risultato che, dal 2001 ad oggi, gli apparati di spionaggio e repressione si sono moltiplicati e raffinati considerevolmente.   Altri passi in questo senso saranno fatti al seguito di ogni futuro attentato, finché saremo completamente prigionieri di noi stessi.   Il confine fra “protezione” e “sopraffazione” tende a sfumare con l’aumento di intensità della protezione.   E cosa di meglio per un partito che aspirasse ad instaurare un governo autoritario che trovarsi l’intera macchina della “psicopolizia” già avviata e rodata?

Qui la parata comporterebbe una strategia di comunicazione complessa, tesa a dare una visione più realistica  dei rischi reali.   Ma questo non consentirebbe facili speculazioni elettorali neanche ai governi in carica.

Nazionalismo.

nazionalismoNella storia del mondo sono state sperimentate migliaia di forme di stato.   La nazione, intesa come sincretismo di un territorio contiguo, una popolazione omogenea ed un governo è un’invenzione del XIX secolo europeo.   Ed è stato il più fallimentare degli esperimenti politici della storia umana.   Due volte i paesi principali europei hanno avuto governi nazionalisti e ne sono scaturite le due guerre più devastanti della storia del mondo.   Alla fine, l’Europa che 50 anni prima dominava incontrastata il mondo, era ridotta ad un pugno di colonie chi della Russia e che degli Stati Uniti.   Evviva!  Riproviamoci!

Qui la parata richiederebbe innazitutto di insegnare la storia nelle scuole.   Poi ci vorrebbe una radicale ristrutturazione delle tremendamente ridondanti istituzioni europee.   L’autorità centrale dovrebbe essere da un lato ristretta a pochi temi vitali (ad es. ambiente, difesa, politica estera, macroeconomia).   Dall’altro, dovrebbe essere svincolata dal controllo dei governi nazionali.   Ma si da il caso che, di tutte le istituzioni europee, la meno soggetta al controllo nazionale è il parlamento, cioè quella che conta di gran lunga meno.   Viceversa, chi davvero decide è il Consiglio dell’Unione Europea che è composto dai rappresentanti dei governi nazionali (ministri o capi di governo, secondo gli argomenti).  Ed al suo interno, l’Eurogruppo, che non è neanche un’istituzione, ma semplicemente il club dei governi che hanno adottato l’Euro.

Conclusioni

Insomma, io credo che fermare la cavalcata dell’ estrema destra si potrebbe, ma non sarebbe facile e, soprattutto, richiederebbe un buon bagno di realtà tanto per i governanti che per gli elettori.   Non mi sembra che ne abbiano molta voglia né gli uni, né gli altri.

 

La gente, le persone e noi

La_genteL’avrete notato. Un politico italiano tipico, parla di gente. Non di persone. E’ la gente che vuole questo e quello, anzi lo esige. Lui parla alla gente. Per la gente, della gente e sta, ci mancherebbe, dalla parte della gente. Eventualmente la ggente con due gg.

Ugualmente i giornali usano lo stesso termine per le loro campagne.

In pratica la gente è un alibi clamoroso: serve per dare ad intendere che quel che chiediamo ed intendiamo e vogliamo, a qualunque titolo, è supportato da una moltitudine insieme numerosa e significativa. O, al contrario, per trasformare le persone in un blob, qualcosa di scoraggiante e inerte da convincere, smuovere, convertire, plasmare.

“La gente” infatti, da’ istintivamente l’idea di una massa maggioritaria, confusa, comunque in qualche modo circoscrivibile,  ma non definita ne pesata, né compresa ne comprensibile.

La gente, caro lettore, è la scusa che tutti usano, anzi tutti usiamo, per giustificare quel che NOI pensiamo, per cercare appoggio e conferma; oppure, al contrario, conferma di un bersaglio contro cui genericamente, inveire.

Invece “la gente”, caro lettore, caro Matteo, cari tutti, siamo noi. sono persone che studiano, pensano faticano si innamorano lavorano, non lavorano, si ammalano, invecchiano sperano , deludono tradiscono, ci credono, dubitano infamano, si illudono, sognano, muioiono, crescono, nascono, si divertono, piangono, ridono, capiscono, ignorano….

Non abbiamo bisogno della “gente” caro lettore, per esprimere le nostre opinioni. Non abbiamo bisogno di alibi, di scuse, di appoggi. Non abbiamo bisogno ( veramente si, ma non di questo genere) di conferme, di solidarietà, di un moloch indefinito contro o per cui lottare.

No, noi abbiamo bisogno, TUTTI abbiamo bisogno, di ricordarci che la gente sono persone. Come noi ma diverse. Come noi stessi siamo diversi da quel che eravamo e da quel che saremo. Smettiamo di usare questo brutto termine, generico superficiale, paraculo ed usiamo il termine persone. La gente non ha diritti ne doveri. La gente è PLASMABILE, come la trilaterale ha auspicato, riguardo all’Italia giusto pochi giorni fa. Le persone pensano, la gente, no. La gente si fa condurre, ciecamente, dal,pastore, buono o cattivò che sia. Le persone possono essere ingannate, instradate e convinte che , in fondo, la gente sono gli altri. Gli amorfi, i plasmabili sono quelli, la ggente, non loro figuriamoci. Per essere esatti, si ingannano da sole, le persone, mentre si fanno convincere a comprare l’ennesimo oggetto “esclusivo”, a fare l’ennesima vacanza “esclusiva”, insomma: a separare il loro indispensabile e irripetibile io da quella massa informe, la ggente.

Alla fine, per una persona sottoposta per tutta la vita al tam tam,  “la gente” sono tutti quelli che non conosce, massa amorfa e potenzialmente infida, una tacca sotto le persone.

I migranti.? Quando va bene, “povera gente”.

Poi ti capita di sentire un medico volontario che ti racconta di come gli occhi gli si siano aperti per davvero quando ha scoperto che un membro di quella,povera gente, che stava curando, insieme al figlio, era un collega. Un dottore scappato dall’inferno di Aleppo. In quel momento, per lui, la gente e’tornata ad essere fatta di persone.
Dovremmo ricordarcelo per davvero: La gente siamo noi, sempre e quindi quando senti dire “la gente”, non ti chiedere per chi suona la campana e per chi vola l’uccello padulo. Suonano e volano per te.

Catastrofe egiziana e cazzeggiare europeo

La visita di Hollande in Egitto.

Hollande e al sisiAlcuni giorni fa il presidente francese, François Hollande, si è recato in visita ufficiale in Egitto e, per l’occasione, sono stati firmati una serie di contratti.   La notizia ha sollevato un certo scandalo fasullo in Italia.   “Cattivi francesi che fanno affari profittando che l’Italia ha delle grane con l’Egitto per via di Regeni”.   Pietosa messinscena, dal momento che noi italiani non abbiamo esitato un attimo a consegnare due dei nostri soldati all’India.   Che neanche li processa e quindi li tiene (lo tiene, perché uno poi se l’è potuta svignare) in ostaggio a tempo indeterminato.   E questo per salvare un contratto da 12 elicotteri che poi (giustamente) è saltato lo stesso.

Dunque, sgombriamo il campo dalla nostra ipocrisia e concentriamoci su quella altrui, tanto per imparare qualcosa.

Durante i discorsi ufficiali, Hollande non ha resistito alla tentazione di fare il maestrino, ricordando al dittatore egiziano che “Il rispetto dei diritti umani è un punto di forza e non di debolezza”.    Al Sisi, gli ha risposto per le rime, dicendo che, evidentemente, gli europei non si rendono neanche conto di cosa succederebbe se esplodesse l’Egitto.

Al di là della schermaglia diplomatica, cosa ci insegna questo fatterello?

Hollande ha detto una cosa perfettamente vera.   Tanto più che per accollarsi le spese e gli obblighi di uno stato la gente ha diritto di avere qualcosa in cambio.   E, tanto per cominciare, da sempre questo qualcosa è l’essere difesi, nei limiti del possibile.
Ma Hollande non è quel presidente che tiene il suo paese in stato di emergenza da mesi e a tempo ancora indeterminato?   Che voleva far passare una riforma costituzionale che gli avrebbe attribuito poteri quasi dittatoriali e che sta mettendo in galera molti più ambientalisti e sindacalisti che Jihadisti?   Quando si dice da che pulpito la predica!

D’altro canto è vero che quella di Al Sisi è una dittatura militare a tutti gli effetti e che quel che è accaduto a Regeni è probabilmente abbastanza frequente che accada agli egiziani.   Anzi, più goffi si fanno i depistaggi degli egiziani, più aumenta il legittimo sospetto che dietro questo crimine ci sia implicato qualche personaggio importante del regime.

D’altronde ricordiamoci che l’alternativa alla dittatura militare è una dittatura islamista non più tenera di quella attuale e, per di più, ben disposta verso forme di “pulizia religiosa” anziché etnica.   Ne abbiamo visto l’assaggio durante la breve presidenza Morsi.

Ma c’è anche la possibilità di una ben peggiore catastrofe egiziana, che è quella a cui ha fatto esplicito riferimento il generale: la disintegrazione dello stato e la guerra civile.   Ed in questo Al Sisi ha detto una sacrosanta verità.
Se accadesse una cosa del genere, l’intero medio oriente salterebbe in aria come un petardo e la massa dei fuggiaschi verso l’Europa non sarebbe più di milioni di persone all’anno (come oggi) bensì di decine di milioni.   Ci troveremmo costretti a decidere molto in fretta se sparare a vista sui barconi e lungo le frontiere, o se essere letteralmente sommersi da una massa di disperati in fuga.

Dunque quello che ha detto Al Sisi è sostanzialmente questo: “Guarda amico che tu hai bisogno di me.   Se io mollo scoppia un casino che né tu, né nessuno dei tuoi amichetti sarebbe neanche lontanamente in grado di fronteggiare.”   Ed ha perfettamente ragione.

Questo ci insegna una prima cosa importante: chi non è capace di gestire i fatti propri li rimette ad altri, ma così affida ad altri la propria sicurezza, finanche la propria esistenza.   Nella fattispecie, si mette nelle mani di personaggi del tipo di Al Sisi e di Erdogan (o Gheddafi, di recente memoria).   Personaggi che non solo sono dei dittatori o degli aspiranti tali, ma che neppure esitano ad alzare il prezzo; non solo in euro, ma anche in sostegno politico e militare.

La catastrofe egiziana.

Quanto potrà durare questa situazione?   Probabilmente non molto.

catastrofe egiziana demografiaLa popolazione egiziana è passata da in 50 anni da 28 a oltre 90 milioni di persone, e continua a crescere ad un tasso superiore al 2%.   Il che significa raddoppio (180 milioni) nel giro di 30 anni.    Nel 2011, quando sono scoppiate le “primavere” erano 82 milioni, nel 2015 (quattro anni dopo) erano già 92!

Il 75% della popolazione ha meno di 25 anni, il che significa che, anche se la natalità crollasse bruscamente, la popolazione continuerebbe a crescere per almeno altri 50 anni (salvo catastrofi).   Inoltre, l’egiziano medio, malgrado sia poverissimo e spesso disoccupato, ha un’impronta ecologica che supera del 200% la disponibilità del paese.   Significa che per vivere come oggi, gli ci vorrebbero 4 paesi invece di uno.   E l’impronta ecologica è un indice notoriamente molto ottimista.

L’estrazione di petrolio ha “piccato” una quindicina di anni fa ed è in calo molto rapido, quindi le importazioni dovranno comunque aumentare molto rapidamente.   Il clima sta peggiorando e la produzione agricola cala, sostituita dalle importazioni, soprattutto dall’Ucraina, paese che qualche problema ce lo ha anche lui.

Il mare si sta mangiando il delta del Nilo, la cui portata sta diminuendo sia per ragioni climatiche, sia per il disboscamento a monte.   Ma soprattutto per le derivazioni d’acqua per irrigazione in Sudan, Sudan del sud ed Etiopia, tanto che già vi sono varie minacce di guerra pendenti.  Una per ogni diga in progetto.

Dunque la catastrofe si sarà con assoluta certezza.   Non possiamo sapere quando, ma sappiamo che fra non molto ci saranno decine di milioni di persone in fuga, con ottime ragioni per farlo.   Cosa pensiamo di fare?
Sostenere il governo, quale che sia e qualunque cosa faccia anche ai nostri cittadini, è un metodo per rimandare il disastro e guadagnare tempo.   Ma la catastrofe egiziana non potrà essere evitata, qualunque cosa facciamo.

Abbiamo una strategia qualunque o pensiamo di continuare a trastullarci fra ignavia ed ipocrisia?

Deriva messicana

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A distanza di mesi il film Sicario (ne parlavo qui) continua a turbare i miei sonni. Il modello di organizzazione urbana, di società, che la pellicola rappresenta mettendo in scena Ciudàd Juàrez, una città messicana al confine con gli Stati Uniti, è semplicemente agghiacciante. Nel film la criminalità è totalmente fuori controllo, i cartelli della droga che riforniscono il mercato statunitense sono ricchissimi, potentissimi e spietati: cadaveri mutilati dei loro oppositori penzolano in pieno giorno dai cavalcavia della città.

Immaginare una collettività totalmente in mano a bande criminali è tuttavia utile per ragionare alcune delle problematiche del nostro paese. Il punto è che veniamo cresciuti nella rassicurante narrazione di vivere in uno stato governato da una democrazia rappresentativa, dove i cittadini scelgono liberamente i propri rappresentanti, e questi ultimi, una volta eletti, operano per realizzare il bene della collettività. Ma è davvero così?

Se guardiamo all’Europa osserviamo diverse realizzazioni di questo modello ideale, ed il fatto di far parte dell’Europa è per i cittadini italiani rassicurante. Ma sappiamo anche che popoli diversi sviluppano culture diverse, tradizioni diverse, modalità di relazionamento interpersonale diverse. Sappiamo che i popoli nordici sono più freddi e pragmatici, più rigidi, più inflessibili di quelli del bacino del Mediterraneo.

Sappiamo anche che l’Italia meridionale è stata culla del fenomeno delle mafie, dei clan criminali che gestiscono il traffico di droga e di uomini (e donne) dal Nordafrica verso l’Italia e l’Europa. Clan criminali coi quali, ben lungi da una guerra all’ultimo sangue, lo stato italiano ha sviluppato negli anni una sorta di ‘patto di non belligeranza’, dal momento che i traffici illegali rappresentano pur sempre una fetta importante del PIL nazionale. Una ricchezza non altrettanto facile da produrre (e distribuire) per vie legali.

Questo è un primo punto di incongruenza tra narrazione e realtà. Uno dei tanti, per la verità, primo di una serie di incongruenze talmente sistemiche da lasciar ipotizzare un diverso modello organizzativo. Un modello, mi viene da pensare, inaccettabile per buona parte della popolazione, permeata da un’etica di stampo cristiano, fatta di Comandamenti ed osservanza, di peccati e punizioni, applicate in passato con estremo rigore. La tesi che i modelli comportamentali collettivamente accettati dipendano dal livello di ricchezza diffusa è stata sviluppata in un precedente post.

“Volendo ridurre e semplificare di molto l’analisi e ragionando su larga scala, è come se alla ricchezza di singoli e nazioni andasse di pari passo l’imbarbarimento della morale e delle relazioni sociali (prevalenza della predazione), mentre in tempi di ristrettezze e povertà risultassero più efficaci e funzionali i modelli relazionali basati sulla solidarietà (filosofia cristiana).”

La Ciudàd Juàrez del film ci racconta una realtà alternativa. Una realtà dove il potere economico criminale condiziona l’intera vita della collettività. Dove flussi di denaro colossali si riversano nelle tasche di individui senza scrupoli, tanto da dar vita ad eserciti personali, spietati, armati fino ai denti, custodi di una legge del terrore imposta all’intera popolazione. Un modello terribile. E che pure, date le necessarie condizioni di contorno, si sviluppa e prende vita autonomamente.

Parlo di modelli perché la mente umana tende a razionalizzare la realtà, derivandone sistemi basati su meccanismi di causa-effetto. Più il modello interpretativo utilizzato è esatto, meglio è in grado di prevedere, e descrivere, quanto poi accade nei fatti. Se il modello interpretativo tradizionale fallisce è possibile che un modello alternativo si dimostri più aderente alla realtà.

Prendiamo l’esempio della mobilità urbana. Una governance cittadina realmente preoccupata della salute e del benessere della popolazione varerebbe piani di riduzione del traffico privato, pedonalizzazione delle aree residenziali, incremento dell’efficienza e dell’utilizzo del trasporto pubblico. Interventi che produrrebbero ricadute positive non solo sul piano umano, ma anche economico, con l’abbattimento della spesa sanitaria e dei costi delle infrastrutture viarie.

Tutto questo avviene da anni nel resto dell’Europa, ma non avviene in Italia. E non sto descrivendo processi estemporanei, bensì percorsi che in alcuni paesi (Olanda, Danimarca, Austria) sono iniziati negli anni ’70, mentre gli ultimi a muoversi (Spagna, Francia ed Inghilterra) hanno iniziato già da oltre un decennio conseguendo risultati sbalorditivi. La forbice tra le due diverse modalità d’intervento è indice del fatto che le dinamiche politico-sociali, nel nostro paese, siano  drasticamente differenti rispetto alle altre realtà europee.

Proviamo quindi a ragionare di un modello affatto dissimile rispetto a quello narrato, un modello in cui la cittadinanza non ha alcun reale potere di controllo sulla ‘cosa pubblica’ perché questo controllo gli è stato, negli anni, subdolamente sottratto. Possiamo descrivere tale modello come una piramide. In cima ci sono i poteri economici, industriali e finanziari, indistintamente legali e criminali, non di rado con caratteristiche sovranazionali. Sono queste le entità che, attraverso la gestione di ingenti quantità di denaro, orientano il corso degli eventi. In quella che possiamo descrivere come una catena alimentare rappresentano i ‘predatori apicali’.

Subito al di sotto c’è il livello politico, composto da manovalanza rapidamente intercambiabile. Il livello politico svolge diverse funzioni, principalmente di ‘mascheramento’. In questo schema la politica ha il compito di far approvare al corpus elettorale le decisioni prese nelle sedi economiche. Per fare ciò utilizza gli spazi mediatici informativi e culturali promuovendo, spesso in forme camuffate, gli interessi del vertice della piramide. Funge inoltre da collegamento con il successivo livello burocratico-amministrativo.

Il livello burocratico-amministrativo si occupa di mettere in opera le direttive trasmesse attraverso il livello politico, e curarne la realizzazione. A differenza dell’ambito politico, ha tempi di avvicendamento lunghissimi, non di rado pluridecennali.  Essendo un contesto a lentissimo ricambio svolge una funzione ‘conservativa’ rispetto ai cambiamenti di orientamento estemporanei nell’opinione pubblica, che possono riflettersi nell’avvicendamento delle compagini politiche. La selezione delle figure strutturalmente più funzionali agli assetti consolidati di potere avviene per mezzo di carriere e nomine politiche non immediatamente modificabili.

L’ultimo livello della piramide, il più basso, è rappresentato dalla popolazione. La popolazione esercita il diritto di voto, ma esclusivamente all’interno di un sistema elettorale controllato dai partiti, i quali sono, a loro volta, saldamente controllati dai poteri economici in una relazione mutuale: i partiti gestiscono i flussi (enormi) di denaro pubblico, e li orientano verso i referenti economici che garantiscono loro i massimi rientri.

Questo modello spiega,  (molto meglio della vulgata sulla ‘rincorsa del centro’) l’assoluta continuità nelle politiche pubbliche nonostante il periodico ricambio con le opposizioni: la compagine politica che si siede sugli scranni del governo, in sostituzione della precedente, non ha alcun interesse a modificare gli equilibri preesistenti, il cosiddetto status quo, ma solo ad approfittarne. Anche l’abitudine di creare ammanchi di bilancio, da lasciare in eredità all’amministrazione successiva di diverso colore, assume in questo quadro caratteristiche sistemiche e non occasionali.

Qualora, poi, una personalità o una forza politica ‘nuova’ provi a dare uno scossone al tavolo (evento che si presenta quasi unicamente in ambiti locali), entra subito in azione il livello burocratico-amministrativo, rallentando ed impedendo ogni forma di intervento finché non si trova il modo di depotenziare, abbattere o del tutto omologare la spinta innovativa. Esempi di questa natura si sono visti con le prime amministrazioni comunali M5S, oltreché con la vicenda del sindaco Ignazio Marino a Roma, defenestrato a seguito di una campagna denigratoria totalmente pretestuosa a base di multe per divieto di sosta e scontrini per cene di lavoro.

Il comparto informativo (editoria e televisione) agisce ormai come un ‘braccio armato’ dei poteri economici, che non di rado li possiedono, e dei partiti politici ad essi collegati, totalmente dipendente, sotto il profilo dei bilanci, dalle inserzioni pubblicitarie e dal finanziamento statale. La funzione dei media, in una società a capitalismo avanzato, consiste infatti nel veicolare forme assortite di pubblicità e nell’essere veicolo di propaganda palese ed occulta (dalla quale trae il ritorno economico), non già nell’informare ed istruire la popolazione.

È pertanto evidente come un simile sistema tenda a non discriminare troppo tra poteri economici legali ed illegali, tra multinazionali buone e cattive, tra finanza e mafia. ‘Pecunia non olet’, il denaro non puzza, dicevano gli antichi romani, e gli attuali fanno loro eco. Tutto sta nel mantenere le apparenze, nel non farsi scoprire. Le economie criminali sono divenute nel tempo elemento integrante del sistema-paese e partecipano attivamente al suo declino, allentando le inibizioni etico-morali e producendo diseconomie diffuse.

In tutto questo, è ovvio, il ventaglio di possibili reazioni individuali all’interno della classe politica ed amministrativa è estremamente vario. Si va dalle persone oneste, convinte che il sistema possa essere cambiato solo operando dall’interno, ai veri e propri delinquenti, corresponsabili (sia pure, spesso, in maniera indiretta, come nel caso dell’incidentalità stradale) di molti dei misfatti riportati dalla cronaca nera. Il prevalere degli interessi privati su quelli pubblici genera mostri che prendono il nome di ‘disagio esistenziale’, ‘dipendenze’, ‘conflittualità sociale’, ‘rabbia repressa’, ‘solitudine’, ‘abbandono’, ognuno col suo portato di tragedie.

Dato un modello del genere non stupisce più che l’Italia sia tra gli ultimi paesi in Europa per quanto riguarda il grado di corruzione diffusa, l’indipendenza della stampa, le retribuzioni da lavoro dipendente, l’economia sommersa ed illegale, il prelievo fiscale (e la relativa evasione), l’incidentalità stradale, il malfunzionamento dei trasporti (pubblici e privati), l’analfabetismo funzionale, la criminalità organizzata ed, in sostanza, un po’ tutti gli indicatori legati al concetto di civiltà.

Perché, se pure geograficamente siamo in Europa, culturalmente siamo molto più prossimi alle popolazioni del Centroamerica, alla Ciudàd Juàrez governata dai trafficanti di droga: storditi dalla propaganda, incapaci di comprendere i meccanismi occulti che muovono il paese, con armi democratiche spuntate ed inefficaci. Vittime inermi, se non occasionalmente complici, di una guerra tra bande che si volge sopra le nostre teste. In una lenta ed inesorabile ‘deriva messicana’ che coinvolge ormai l’intero paese.

Rivoluzione pigra: keep calm e gufa

Post già pubblicato col titolo: “Davvero vuoi la rivoluzione ? Elogio del Luddismo pigro” su Effetto risorse il 11 marzo 2016

Una delle tante leggende metropolitane che circolano è che ci voglia una rivoluzione per rovesciare un sistema corrotto ed inefficiente.

Sbagliato.

In molto grossolana approssimazione le rivoluzioni storiche si possono dividere in due grandi categorie: quelle che hanno vinto e quelle che hanno perso.

Cominciamo dalle seconde.   Cosa hanno in comune sommosse avvenute in luoghi e tempi lontanissimi?   Due cose: la prima è che la gente si ribella quando non ne può più.    La seconda è che, alla fine,  la gente esausta accetta condizioni molto peggiori di quelle da cui era partita.

Le rivoluzioni che vincono, si dividono ancora in due categorie: quelle che ottengono qualcosa e quelle che stravolgono il sistema.   Le rivolte che portano a riforme, di fatto sono una dinamica interna al sistema stesso che, in questo modo, corregge alcuni errori e riesce a tirare avanti ancora.
Lo abbiamo visto, per esempio, con la lotta per il voto alle donne.

Le rivolte che stravolgono il sistema quasi sempre ne insediano un altro peggiore.    Ne hanno fatto l’esperimento i francesi che hanno ghigliottinato Luigi XVI per trovarsi nelle mani prima di un manipolo di terroristi ben peggiori dall’attuale ISIL; e poi per 20 anni in quelle di un dittatore megalomane.
Lo hanno sperimentato i russi che si sono sbarazzati del regime zarista per cuccarsi Stalin.    E si potrebbe andare avanti.

Gli esempi di rivoluzioni che hanno instaurato sistemi completamente diversi dal precedente e (almeno temporaneamente) migliori sono stati veramente pochi.   Per esempio la “Rivoluzione Meiji”, condotta dall’Imperatore in persona; roba da giapponesi.   Oppure la “non guerra di indipendenza indiana” che ha ottenuto l’indipendenza dall’Inghilterra proprio perché non è stata combattuta.

Dunque vogliamo rovesciare o vogliamo salvare il sistema?   Ognuno ci pensi bene perché cercare di correggerne le macroscopiche nefandezze non fa altro che aumentarne l’efficienza e , quindi, la durata.

Lo abbiamo ben visto noi stessi.    Uno dei fattori che ha favorito il capitalismo nel suo storico scontro col comunismo sono state le opposizioni ambientaliste e socialiste in occidente.   Sono loro, infatti, che hanno spuntato migliori condizioni per i lavoratori ed un minimo di tutela per l’ambiente, fattori risultati strategici per migliorare le generali condizioni di vita, dunque aumentare i consumi e consentire la crescita economica che c’è stata.

Dall’altro lato della cortina di ferro, il governo perseguiva sostanzialmente gli stessi scopi di sviluppo e di potenza dei governi occidentali, ma chi dava fastidio vinceva un viaggio premio di sola andata.    Il risultato è che il sistema, privo di una sostanziale opposizione, si è avvitato su sé stesso, finendo schiacciato sotto la propria inefficienza.

Stesso film, su scala ancor più vasta, è andato in onda dopo il parziale collasso sovietico.   Annichilite o marginalizzate le opposizioni (perlopiù con le buone, per carità), il sistema capitalista si è sviluppato liberamente, portando alle estreme conseguenze i propri presupposti.   E si è avvitato sempre più su se stesso.

Detto in termini tecnici: l’autodistruzione è il destino di qualunque sistema lasciato in balia delle proprie retrazioni positive.   In altri termini, sono i fattori limitanti che garantiscono la durata dei sistemi, proprio perché ne ostacolano la crescita.

Detto in parole povere, una società dove quelli che contano la pensano tutti alla stessa maniera non può che finire male.

E dunque che fare?    La rivoluzione !

Cosa succederebbe se perdessimo?   Che un sacco di gente avrebbe una dose supplementare di sofferenza non necessaria, in aggiunta a quella inevitabile che già non sarà poca.

E che succederebbe se vincessimo?   Che passerebbero delle riforme come il razionamento dell’energia e dell’acqua, la ridistribuzione dei redditi eccetera.   Tutti correttivi in grado di far durare il sistema per altri 50 anni.

Dunque, se davvero vuoi spaccare tutto, aderisci al “Luddismo Pigro”.   Il principio basilare è semplice: chi va in giro a spaccare robe prima o poi troverà qualcuno che spacca lui.   Se invece lasci che tutto fili esattamente come ora, il sistema non mancherà di disintegrarsi da solo il più rapidamente possibile.

E’ a quel punto che inizierà il gioco vero, che non sarà più puntellare una versione più o meno corretta del progressismo, ma costruire da zero qualcosa di completamente diverso.    Sarà un gioco molto duro, ma anche molto interessante che si farà col poco che sarà rimasto.   E che cosa è veramente indispensabile?

Biodiversità, fertilità, acqua e cultura; le civiltà si costruiscono con questo.

Dunque, invece di spaccare vetrine e bruciare macchine, bisogna cercare di guadagnare tempo e salvare il più possibile di queste quattro cose dalla mega-macchina tritatutto.

Ad esempio, riuscire posticipare la costruzione di una nuova strada sull’ultima striscia di bosco del tuo comune può essere utile.   Magari fra tre o quattro anni non ci saranno più i soldi per farlo.   Oppure restaurare un oggetto artistico od un monumento.    Prima o poi andranno comunque distrutti, ma più a lungo durano e più potranno ispirare gli artisti del futuro.

Biodiversità, fertilità, acqua e cultura sono le sole quattro eredità che contano.   

Invece di fare casino, cerchiamo di lasciarne il più possibile dietro di noi.

La Fattoria degli animali, il Giustizialismo e la giustizia ai tempi della Crisi

img_8293Se pensate che il “giustizialismo” sia diventato una specie di “redutio ad Hitlerum“, una accusa buona per tutte le stagioni, qualcosa di vagamente infamante da spalmare su chi, sotto qualunque bandiera, in qualunque forma, momento, circostanza, si batte per un minimo di decenza pubblica e privata dei nostri politici o, più semplicemente della vita sociale, avete perfettamente ragione.

E’ usato proprio COSI’: come un epiteto che, di per se, senza ulteriori spiegazioni, connota la posizione di qualcuno come estremista, illiberale, esasperata, forcaiola. Basta una googlatina per convincersi.

A noi gufi&rosiconi e crisaioli incalliti invece sembra, molto semplicemente, un’arma di distrazione di massa. Quando qualche inchiesta o guaio clamoroso ( ad esempio il recente crack bancario di banca etruria&co)  scoperchia il verminaio, sempre vagamente correlato alla sostanziale frenesia di un basso impero che si ostina a a mantenere usi e atteggiamenti di epoche più floride, ecco che immancabilmente arriva l’accusa di giustizialismo a questo o quel magistrato, dopodiché si apre ampio e confuso dibattito che ovviamente fa perdere di vista la sostanza della storia.

Ovvero che, con palmare evidenza, in Italia a forza di andare a caccia e stanare giustizialismi e giustizialisti ci si è seriamente dimenticati della Giustizia, di base  di forma e di sostanza.

Quella per la quale la Legge è uguale per tutti, visto che le patrie galere sono piene di pesci piccoli, spacciatori e ladruncoli, mentre i detenuti per reati da colletti bianchi ( tra i quali, si annovera, misteriosamente anche la corruzione la concussione ed altre varie malversazioni pubbliche e private) sono poche centinaia. Da questo punto di vista la questione è, oltre che di forma, di sostanza: nei tribunali italiani la scritta “La legge è uguale per tutti” è  stata sostituita, ormai da diversi anni, dalla vagamente inquietante: “La giustizia è amministrata in nome del popolo”, questa si di sapore “giustizialista” oltre che di per se arbitraria. Se vi ricorda la fine del libro “La fattoria degli animali” di Orwell, “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri” fate bene.

Infatti, nei palazzi del potere la forma è sostanza. Togliere la scritta “La legge è uguale per tutti” è qualcosa che non si fa senza un motivo. Ad esempio: stabilito che la Legge ( ai senso dell’articolo 101 della Costituzione, peraltro) è amministrata nel nome del popolo,  si può anche stabilire che il popolo, o per meglio dire i suoi rappresentanti eletti ( eletti? eletti?! ELETTI?!!?! AHA!!), decidano di approvare leggi che rendano il compito dei magistrati difficile, inutile, faraginoso, frustrante, in poche parole LENTO, allo scopo di renderla un poco MENO uguale per tutti.

Perché, si sottintende, i nostri rappresentanti politici ( ops, volevo dire i cittadini, quelli benenestanti, che possono pagare parcelle adeguate, ovviamente) sono un poco meno uguali degli altri  e poverini, devono essere difesi dai giustizialisti che vorrebbero allontanarli dalla vita pubblica, in attesa che chiariscano le loro responsabilità davanti ad un giudice. I tempi lo sappiamo sono lunghi, i ricorsi numerosissimi, i filtri altrettanto. Non è sempre stato così, le cose sono precipitate negli ultimi anni, ovviamente per colpa … dei giustizialisti.

In verità quello italiano, per chi se lo può permettere, è il sistema più garantista del mondo. La prima garanzia, purtroppo, essendo quella di sostanziale impunità per coloro che sono in grado di affrontare le spese di tre gradi di giudizio. Le soluzioni sarebbero semplici e intellettuali, studiosi, costituzionalisti, magistrati  ( tutti immediatamente tacciati di essere di volta in volta giustizialisti o, ultimamente, gufi e rosiconi) le hanno enunciate tante volte che do per scontato che i 4 lettori di questo blog le conoscano: ne citerò solo un paio: la prima importante e di elementare attuazione ( e già presente nel nostro codice penale prima delle suddette modifiche) essendo la sospensione dei tempi di prescrizione in caso di ricorso in appello; il che, ovviamente, farebbe cadere immediatamente un bel numero di ricorsi pretestuosi, di fronte alla possibilità alternativa di patteggiare la pena.  La seconda, invocata a parole  da tutti e disapplicata costantemente nella prassi, anche recente, è l’applicazione di un codice deontologico largamente condiviso che comprenda la sospensione delle candidature e dalle cariche per i politici che ricevono un avviso di garanzia, almeno per fatti di corruzione o malversazione. Questo perchè, al di la di tutto, un politico sul cui capo pende una possibile condanna è ovviamente una persona distratta, psicologicamente debole, malleabile, non autorevole.

A parole sono tutti d’accordo, ovviamente ma… guai  ad esagerare, ovvero guai a coloro che pretendono che alle parole seguano i fatti!

Ovvero che ” fanaticamente” insistono perché in ultima analisi, i crimini vengano perseguiti senza costruire sbarramenti di parole, fumisterie politiche varie e provvedimenti ad hoc e sopratutto si arrivi in tempi celeri alla condanna e/o proscioglimento degli indagati ( una delle due cose e non solo e sempre la seconda).

Questo è giustizialismo!! come ha ricordato pochi giorni fa il mio ex sindaco.  Sempre giustizialismo è, nel nostro paese, il giornalista d’inchiesta che non si rassegna alla vulgata ufficiale ma persegue attivamente la verità e sbugiarda le mille e mille ipocrisie e/o menzogne e distinguo che sempre si alzano ad ogni inchiesta un minimo scottante ( e lo scandalo ovviamente non sono MAI i contenuti delle intercettazioni ma il fatto che i giornalisti, facendo il loro dovere, li rendano pubblici, GIUSTIZIALISTI!!!)

Il buffo è che giustizialismo, crasi di Giustizia e socialismo, storicamente era il motto del movimento peronista argentino. Al netto delle parole d’ordine populiste e demagogie varie, ci si proponeva proprio di ridurre le diseguaglianze sociali di fronte alla legge e nella società. Insomma di dare o ridare pari opportunità e pari diritti sostanziali a tutti i cittadini di fronte alla legge e nella società.

Credo che, ai tempi della mamma di tutte le Crisis, salvo per chi fa parte del famoso 1% e se ne sente automaticamente minacciato ( e con un minimo di saggezza e lungimiranza anche per questi pochi fortunati) si dovrebbe prendere in seria considerazione questa dimenticata origine, riflettere su quali sono le richieste dei cosiddetti giustizialisti e convenire che, se non vogliamo tornare al guidrigildo ed alle ordalie o a qualche moderna riedizione neo medioevale cyber-punk, via via che la distanza tra oligarchia e “popolo” aumenta, faremmo davvero bene a chiederci cosa significa DAVVERO oggi essere tacciabili di giustizialismo. Magari decidere, dopo tutto, di essere proprio quello: giustizialisti, se esserlo significa lottare, propugnare o almeno sperare che, alla buona ora, la legge sia uguale DAVVERO per tutti.

E possibilmente contribuisca a ridurre e non ad aumentare la distanza tra cittadini e governanti, tra persone comuni ed elite oligarchica.