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Tutto va bene, Madama la marchesa

La Cittadinanza, a reddito.

Come avrete visto, ho evitato, con cura e come la peste, di infilarmi nel BLABLABLA precedente e successivo alle elezioni di quasi due settimane fa. L’ho fatto a ragion veduta, perché nei bailamme sarebbe stato impossibile dire qualcosa di appena un poco sensato. Abbassato il polverone, in attesa di capire SE nascerà un pateracchio con il Pd, uno con la Lega o si deciderà per il seppoku alla scala di paese, ovvero per tornare alle elezioni, Una cosa che avvantaggia i partiti tradizionali e forse il M5S, e sfavorisce la Lega.

Nell’ambito dei punti del programma M5S sui quali, all’improvviso, sono tutti molto o parecchio d’accordo, si parla, non poco, del reddito di cittadinanza.

Se ne parla in termini di costo ( ci costa troppo/ci costa poco/recupereremo i soldi qui&li, la lotta all’evasione etc etc etc) e se ne parla in termini di giustizia sociale. Se ne parla per confronto, se ne parla per metodo, se ne parla per approccio ideologico…bla&bla.

Non se ne parla, secondo me, nel modo più importante. Ovvero come recupero di senso di cittadinanza, di comunità, come rinnovato patto sociale, come necessario primo passo nella direzione, praticamente obbligata, di uno scollegamento tra reddito (di base, almeno) e produttività. Ripeto, per i duri di comprendonio/distratti: scollegamento tra reddito e produttività.

Una cosa ovviamente aborrita dagli economisti anzi: da TUTTE le scuole di economia non Socialiste , perché implica il collasso di alcuni fondamentali postulati tra i quali il prevalente è che il lavoro è una merce, con un suo valore di mercato, come le altre e che alterare il valore di questa merce crea disastri.  esemplifiachiamo le due posizioni tipiche: dare un reddito permanente alza l’asticella per i redditi da lavoro, perché ovviamente è più comodo accontentarsi che cercare lavoro. Stracciamento delle vesti da parte dei confindustriali.

Eh, no: il reddito fisso spinge a cercare ed accettare anche lavori sottopagati, perché il reddito fisso sussidia le paghe da fame, vedasi minijob tedeschi. Stracciamento delle vesti degli economisti di sinistra. ( è tutto un coNplotto della ca$$ta).

Benché queste idee siano state fortemente opinabili da sempre ( il buon Keynes a cui devono proprio fischiare tanto le orecchie in questi giorni lo sosteneva già oltre ottanta anni fa) lo sono certamente oggi, al raggiungimento dei limiti naturali del pianeta ed all’approssimarsi della crisi del debito, sovrano e sistemico.

Il lavoro è una merce abbondante e lo è sempre di più ed in tutto il mondo, perché l’aumento della produttività copre l’aumento della domanda ( quando c’e’, visto che in Europa e negli Stati Uniti, questo aumento è completamente finanziato dal debito, pubblico e privato).

D’altronde ogni singolo giorno circa altri 200.000 esseri umani si preparano ad entrare nel mondo del lavoro, QUINDI, benché la crescita esplosiva del PIL cinese indiano e delle altre “tigri” asiatiche abbia permesso anche una crescita dei salari, in sostanza il lavoro è sempre più sottopagato, precarizzato, marginalizzato etc etc.

Aver tolto i limiti alle ore lavorate, agli orari, agli stipendi minimi non ha, in effetti reso il nostro paese più competitivo, per il banal fatto, sempre qui sostenuto, che si è reso conveniente non investire in produttività , essendo appunto il lavoro una merce abbondante ed a buon mercato. Il risultato è che le aziende italiane sono poco produttive, poco competitive ( siamo tra i paesi che investono meno in innovazione) poco innovative e sono state svendute o smembrate, riducendo ancora la loro forza. Di fronte a scenari in cui la competitività delle aziende di famiglia era sempre minore e non perché il lavoro fosse una zavorra così impossibile ma perché l’innovazione e l’investimento in quella direzione si erano o fermati i fortemente rallentati, ha fatto tirare i remi in barca agli imprenditori.

Del resto era più remunerativo investire nel settore finanziario e/o immobiliare che in quello produttivo.In pratica si è smantellato sia lo stato sociale che il sistema industriale, senza particolari benefici, se non per una ristrettissima percentuale della popolazione che ha preferito mettere a reddito finanziario i capitali così raccolti, piuttosto che reinvestire.

E’ anche vero che, in alcuni paesi, il reddito di cittadinanza ha creato ulteriori mostri, noti come “minijobs” che hanno generato ancora più precariato, ancora più svalutazione del lavoro, purtuttavia gli errori fatti da altri possono essere utili per evitare di ripeterli.

Qui preme ricordare un paio di cose, spiegate dal summenzinato Keynes oltre 80 anni fa:

  1. Chi è indigente, tende, come è noto, a non avere risparmi. Spende tutto o quasi il denaro che guadagna o che gli viene elargito.
  2.  questo denaro viene quindi immediatamente messo in circolo, non prima di una cospicua sfoltita fiscale ( il 22% di iva e il 27% di irpef di chi vende le merci acquistate). A sua volta questo denaro serve per pagare stipendi e spese correnti, mentre una parte non grande viene messo a reddito sotto forma di investimenti finanziari immobiliari o strutturali. Il gioco quindi ricomincia, perchè anche i soldi guadagnati da dipendneti, datori di lavori etc etc verranno spesi e si recupereà l’IVA e le imposte e, alla fine, lo Stato riceve sostanzialmente un aumento netto delle imposte, grazie al PIL che cresce. Con questo coprirà i costi del reddito di cittadinanza.  E’ il famoso moltiplicatore del reddito che non è solo una fissazione Keynesiana ma che è stato recentemente funzionare, anche e sopratutto in modo inverso: tassando a sangue un paese si ha un CROLLO e non una crescita degli introiti fiscali, per esattamente gli stessi motivi. Quindi:
  3. La domanda. chi paga? E’mal posta, perché si paga da solo, con le maggiori entrate derivanti da una economia nazionale a cui finiscono buona parte dei contributi così stanziati. Ovviamente sarebbe opportuno che l(ex) indigente di cui sopra NON vada a fare la spesa presso la grande distribuzione, che , avendo sedi fiscali in altri paesi, NON ridistribuisce il reddito o ne distribuisce solo una parte, sostanzialmente l’IVA. Questo non può essere impedito per legge ma si potrebbe, ad esempio, svolgere una campagna serrata a favore della filiera corta, della distribuzione porta a porta, dei gruppi di acquisto, insomma di tutte quelle pratiche che permettano di lasciare sul territorio la maggior parte possibile di quei contributi.
  4. Se la vedete così quindi, quel che viene fatto non è garantire un reddito di cittadinanza. E’ mettere a REDDITO cittadini che attualmente sono solo un costo, per il sistema. Si deprimono, si ammalano, pesano sul sistema sanitario. Pesano sulla rete familiare, riducendo il tenore di vita anche dei loro cari, che consumano meno ( le attese per il futuro sono una componente fondamentale di ogni decisione economica) etc etc etc. Questi cittadini, liberati dall’obbligo del lavoro sono contemporaneamente a disposizione per coprire esigenze di breve termine ma impellenti per gli enti locali che, tipicamente, non hanno disponibilità di cassa ne tempi ne modo di assumere personale. Tra parentesi una volta raggiunto il successo grazie a questo primo step, il redditto di cittadinanza andrebbe esteso a TUTTE le categorie di cittadini, salvo quelle chiaramente non indigenti. Per evitare, giustappunto, il sudetto fenomeno dei minijobs.
  5. Direte voi: creeremo parassiti che non lavoreranno bla bla bla. Può essere ma proprio l’esperienza degli altri, ci dimostra che in realtà non è così. SI crea un plafond per gli stipendi, perché sotto una certa soglia non c’e’ incentivo a lavorare e QUINDI si stimola ad aumentare la produttività delle imprese.     E’ anche bene chiarire che in realtà quello del costo del lavoro è un argomento gonfiato ad arte da un sistema , quello delle imprese che vuole scaricare su altri le proprie responsabilità per la scarsa competitività. Il costo del lavoro è attualmente una componete infima del costo di un QUALUNQUE prodotto industriale si va, in breve dal 5 al 15% del prezzo di mercato del prodotto finito. Capite bene che quindi anche avere degli schiavi, pagati solo con vitto ed alloggio, non restituirebbe che un attimo di respiro alle aziende nazionali.
  6. Proprio in questo senso, un reddito di base metterebbe un freno alla cd “fuga dei cervelli” ovvero ai tantissimi brillanti laureati italiani, cittadini in cui la Comunità nazionale ha investito tempo e risorse preziosi che sono obbligati ad emigrare per trovare un minimo di reddito dopo laurea e specializzazione. Se a questo reddito si sommasse, infatti le modeste borse post doc che ancora vengono erogate, sarebbe possibile garantire una alternativa dignitosa alla fuga all’estero.
  7. Ecco quindi spiegato il titolo del post: Il reddito di cittadinanza mette a reddito la cittadinanza, crea utilità per il sistema paese laddove ci sarebbe solo dispersione di risorse (materiali ed umane. Gli essere umani, quando si parla di lavoro sono chiamati così: risorse, ed in fondo è giusto, costituiscono davvero una risorsa per il sistema produttivo)

Ma questo è il meno. A me pare importante che, per la prima volta, grazie al reddito di cittadinanza, che disaccoppia lavoro e retribuzione, si possa parlare di una transizione necessaria dove l’attuale sistema economico sarà soltanto un ricordo. Dove il successo o l’insuccesso personale e di sistema non verrà misurato solo con la quantità di denaro accumulata. Dove, quindi il reddito non dipenderà dal lavoro.

Una utopia, certo.  ma una utopia necessaria, perché il Pil mondiale, per raggiungimento dei limiti planetari, non può più crescere infinitamente, i redditi attuali mondiali non sono in grado di pagare il crescente peso del debito e quindi, va disaccoppiata l’economia dal denaro, per evitare che l’inevitabile collasso finanziario si trascini dietro anche il resto dell’economia reale.

Se ci pensate bene la vera utopia, purtroppo nefasta, è quella prevalente, che crede che si possa continuare con questo sistema e questi paradigmi, indefinitamente, limitandoci ad una aggiustatina ai metodi di produzione dell’energia….

Possiamo imparare qualcosa dal referendum?

In un precedente post avevo preso una posizione del tipo “voto no, ma senza entusiasmo” in quanto convengo che la costituzione attuale non sia più adeguata ai tempi, ma la riforma mi pareva peggiorativa.   Il referendum è stato votato e ora tutti si ingegnano ad analizzarne il risultato.   Su di un blog come questo non possiamo esimerci dal fare la nostra piccola parte in questa discussione cercando, come al solito, di dare un punto di vista un tantino diverso da quelli più di moda.  Non migliore, semplicemente un pochino diverso.

Perciò qui non vorrei discutere nel merito della riforma che,  giusta o sbagliata che fosse, non si farà.   Vorrei invece dare un’occhiata agli errori che Renzi ha commesso nella campagna elettorale “peggiore di sempre” e quali lezioni politiche se ne possono eventualmente ricavare.

Sbaglio 1.   La sua riforma era tecnicamente pasticciata.   Al di la del merito, gli articoli erano scritti in modo da lasciare ampio margine di manovra ai giuristi ed ai costituzionalisti che la avversavano.  Era ovvio che la grande maggioranza dei magistrati e dei costituzionalisti avrebbero preso una posizione conservatrice, è il loro ruolo, e Renzi avrebbe fatto meglio a mandare in giro gente meglio preparata.   Al di là di questo, qui la lezione è che manipolare un sistema estremamente complesso come un moderno sistema normativo ed istituzionale è un compito pazzescamente difficile che può essere tentato solo sulla scorta di una competenza tecnica estrema di ogni dettaglio.   Altrimenti il rischio di fare danni imprevisti ed imprevedibili è molto alto, per quanto buone possano essere le intenzioni.

Sbaglio 2. Farsi dare sostegno ufficiale dalle istituzioni finanziarie, dalla confindustria, perfino dalla Merkel e da Schäuble, due dei soggetti meno popolari del momento (a buon diritto, peraltro).  Mica male per uno che nel frattempo si proponeva come paladino “contro il sistema”.   Stesso identico errore fatto dalla Clinton: ad ogni “endorsment” da parte di pezzi grossi dell’economia e della finanza ha perso voti.   Lo stesso ha fatto Cameron, mentre il contrario lo ha fatto Trump che, malgrado sia lui stesso un “big” ben piazzato nel cuore del sistema, ha vinto anche grazie al voto di protesta.
porte pericoloseA parte l’errore tattico, cosa ci dice questo? Una cosa estremamente allarmante: che le istituzioni ed i personaggi illustri hanno perso la fiducia e la credibilità.   Questo è estremamente pericoloso perché, letteralmente, spalanca porte da cui è molto più facile che passino diavoli piuttosto che angeli.

Sbaglio 3. Personalizzare il voto.   Come capo dell’esecutivo, Renzi avrebbe avuto il dovere istituzionale di essere (o perlomeno di fingersi) neutrale.   Cinicamente, avrebbe così evitato che, di fatto, si formasse una coalizione di tutti contro di lui, ma soprattutto avrebbe messo il governo al riparo dai risultati incerti della consultazione.  In altre parole, mentre tuonava contro l’instabilità, era lui il primo a destabilizzare.  Non predisporre una scappatoia in caso di sconfitta è un errore di una banalità disarmante.   Comunque, anche qui c’è una lezione da imparare: la popolarità si perde con estrema rapidità.   Renzi ha fatto una parabola per alcuni aspetti simile a quella di Berlusconi, ma che si è conclusa dopo 3 anni invece che in 20.   Molti sono gli elementi di diversità fra i due casi, ma comunque chi si pone come “leader carismatico” può oramai contare su pochi anni di autonomia, se non pochi mesi.   Parlare di stabilità in queste condizioni è possibile solamente se, anziché sulla faccia del leader, ci si basa sulle istituzioni.  Cioè proprio quella cosa che tutti gli aspiranti “capi” si affannano a picconare.   Aprendo altre porte molto pericolose.

Sbaglio 4.  Presentare gli avversari come imbecilli, retrogradi, ecc.   Non funziona, semmai motiva chi già propende per l’altro campo a diventare un attivista.   Ancora più grave, per avallare questa tesi la propaganda renziana ha dato risalto ai più fanfaroni dei suoi avversari, anziché a quelli più seri e competenti.   Col risultato di avere, ancora una volta, creato un sacco di polverone laddove ci sarebbe voluta lucida critica e puntuale analisi.
Altra lezioncina: nel dibattito politico meglio concentrarsi sugli avversari più credibili ed affidabili (in questo caso buona parte della magistratura).   Non per dar loro ragione, ma per alzare il livello del dibattito e marginalizzare quelli che sanno solo sbraitare.  Sempre che si sia in grado di competere su di un terreno di questo tipo.

Sbaglio 5.  Scimmiottare gli slogan antieuropeisti di Salvini e Grillo, oltre che infarcire la legge finanziaria di marchette che sai non essere fattibili.  Lo scopo era quello di blandire vari settori di elettorato, in particolare con gli  eurofobici.  Geniale per uno che avrebbe potuto essere il leader del secondo partito europeo se solo ci avesse fatto caso!   Ancora più geniale sparare su Junker (che per una volta è stato furbo), mentre chiedeva appoggio alla Merkel!  Comunque,  l’elettorato eurofobico ha già i suoi punti di riferimento consolidati nella Lega e nei 5stelle, cioè nei due principali avversari del PD.   Non poteva funzionare.
Ancora una volta, la lezione dovrebbe essere quella che conviene sempre cercare di tenere il dibattito il più in alto possibile, spiegando le cose nel merito e nel dettaglio, distinguendo e precisando in modo da lasciare un’utile eredità anche in caso di sconfitta.

Sbaglio 6.   Agitare la paura del caos che dovrebbe seguire la tua eventuale sconfitta.  Si sa, la paura del nemico aggrega e rende i cittadini consenzienti a molte cose altrimenti inaccettabili.   Una ricetta che, chi più chi meno, stanno usando un po’ tutti i governi del mondo.   Ma se in Russia la paura degli americani può funzionare, in Italia la paura di Grillo non basta.   Sono troppo diversi i contesti e la percentuale di realtà sottostante l’esagerazione propagandistica.   Inoltre, si da il caso che una grossa percentuale di elettorato abbia raggiunto un limite di esasperazione tale da desiderare il caos più della stabilità che pretendi di rappresentare (e che invece picconi per primo).   Questa è, secondo me, la lezione principale: soffiare sul fuoco per cavalcare le fiamme è un gioco che finisce molto più facilmente male che bene.   E fa perdere l’appoggio di quanti hanno invece l’abitudine di riflettere; cioè proprio della porzione di opinione pubblica su cui si può appoggiare un’azione politica costruttiva.

In sintesi, se mi potessi permettere di dare un consiglio non richiesto ai politici, direi questo:   Piantatela di sfruttare l’onda del malcontento per la vostra personale carriera.   Certo, l’onda vi può portare in alto, ma per gli stessi motivi per cui  vi favorisce finché siete all’opposizione, vi travolge quando siete al governo.
Se davvero volete stabilità, la prima cosa da fare è smettere di spararle grosse e concentrarsi sui fatti.   Pensare che calmare gli animi e spiegare le cose è più importante che vincere la prossima consultazione e che perdere bene può essere meglio che vincere male.
Chi vincerà cavalcando le onde della rabbia e della paura durerà comunque poco.   A meno che non sia in grado di cogliere un’occasione fugace per insediare un governo più o meno totalitario: un pericolo gravissimo e molto presente per tutti noi.   L’aver avuto 70 anni di sostanziale libertà personale non ci mette al riparo da niente, anzi ci rende particolarmente vulnerabili perché abbiamo dimenticato quanto facilmente certi fenomeni avvengono.  E quanto la rabbia, la paura e l’esasperazione facilitino la scalata al potere di personaggi pericolosi.

Il mio consiglio agli elettori è quindi questo: diffidate sempre di chi fomenta sentimenti forti e contagiosi come la rabbia e la paura.   I pericoli ci sono e sono molto più grandi di quel che molti di noi non sospettino, ma farsi prendere dalla furia o dal panico è il modo più sicuro per esserne travolti nel peggiore dei modi possibili.

Il discensore sociale

Forse ciò che più ha entusiasmato coloro che erano giovani negli anni ’50 e ’60 è stato il famigerato “Ascensore Sociale“.    Cioè la possibilità che tanti figli di operai e contadini hanno avuto di scalare la società diventando funzionari, imprenditori, professionisti, eccetera.
La cosa ha lasciato una traccia tanto profonda che ancora se ne parla come di qualcosa di attuale.   Ma sono passati cinquant’anni.    Due generazioni dopo quel magico periodo, che cosa è rimasto di tale meraviglioso congegno?

Nel 2001, cioè in “tempi non sospetti”, l’Università Bicocca di Milano, pubblicò uno studio riguardante il decennio precedente (dunque gli anni ’90).    La domanda era: i giovani dell’epoca facevano lavori migliori, peggiori od uguali a quelli dei loro genitori?
Ebbene, il risultato fu impietoso.

discensore sociale Jacopo SimonettaI ricercatori avevano diviso i lavoratori in quattro grandi categorie:   In vetta imprenditori, super-dirigenti e grandi professionisti.    Seguivano funzionari e liberi professionisti; infine operai ed impiegati.
Per ogni categoria, si era tenuto conto del lavoro svolto dai genitori e di quello svolto dai figli.   Ebbene, anche se negli anni ’90 un certo numero di figli ancora riuscivano a scalare posizioni migliori di quelle dei propri genitori, era nettamente superiore il numero di figli appartenenti ad una classe sociale inferiore a quella paterna o materna.

Ad esempio, ben il 46% dei figli di imprenditori e super-dirigenti era finito come funzionario ed un altro 22% come impiegato od operaio.   Contro un 15 % di figli di funzionari ed un 5 % di figli di impiegati od operai che erano riusciti a scalare la vetta.

In complesso, la classe dei lavoratori molto ben pagati aveva subito una consistente perdita nel cambio generazionale (-45%), con una massa considerevole di rampolli che si erano trovati rigettati in una classe sociale subalterna quella in cui erano nati.
Insomma, negli anni ’90 la disoccupazione giovanile non era un problema drammatico come oggi, ma l’ascensore sociale era già in avaria e quello che funzionava a pieno regime era piuttosto un efficace discensore sociale.

Contestualizzare il dato.

Perché ci interessa?    perché questo fatto è un indicatore molto potente del fatto che già allora la crescita economica fosse finita da un pezzo.   Anzi, che l’onda di riflusso fosse già cominciata dallo scontro fra un’economia in stagnazione ed una popolazione in crescita.

Economia in stagnazione negli anni ’90?    ERESIA!
Siamo sicuri?    Il PIL era in crescita, verissimo, ma…
Ma tanto per cominciare il PIL è un indicatore dei flussi di denaro, non dello status sociale o della qualità di vita dei cittadini.   Inoltre, i parametri di calcolo sono stati costantemente cambiati a partire dai primi anni ’80, rendendo di fatto non confrontabili i dati su scale temporali decennali o più.
Per l’Europa e l’Italia non credo che esistano dati alternativi a quelli ufficiali, ma per gli USA ci sono e l’economia USA è fortemente indicativa della situazione, perlomeno a livello di “primo mondo”.

Qui mi limiterò a riprendere alcuni dati che ho già utilizzato in un vecchio post.     Sono dati resi disponibili da alcuni ricercatori della Massachusetts University che si sono presi la briga di rifare i calcoli del PIL USA al netto dell’inflazione, utilizzando per tutti gli anni gli stessi parametri di calcolo.
crisi economica globaleEbbene, se il ricalcolo è corretto, almeno negli Stati Uniti la crescita vera pare essersi fermata agli inizi degli anni ’70 (forse non per caso in corrispondenza della prima crisi petrolifera).   Poi il PIL ha continuato a salire fra alterne vicende, ma solo grazie alla contemporanea esplosione del debito e della borsa.    Fino alla fine della guerra fredda il gioco ha funzionato, poi vediamo che neppure la crescita esponenziale del debito e l’esplosione della “new economy”  sono più riuscite a sostenere una crescita dell’economia reale, mentre la qualità della vita declinava.   Con il 2.000, malgrado tutti gli sforzi,  l’economia americana è entrata decisamente in contrazione e la qualità della vita del cittadino medio pure.   Nel frattempo, gli indici di borsa entravano un una fase di estrema volatilità da cui non sono più usciti.

Per l’Italia non disponiamo di dati sul PIL indipendenti dagli enti di governo, ma li abbiamo sul debito pubblico che indicano un’esplosione a partire dalla netà degli anni ’60, con una fase di stasi negli anni ’90, prima di ripartire fuori controllo.   Questo potrebbe suggerire che da noi la crescita avesse cominciato a rallentare prima ancora che in USA, il che è coerente con il fatto che eravamo, e tuttora siamo, un paese periferico dell’impero USA.crisi e debito

Altri paesi hanno seguito parabole analoghe, anche se spostate nel tempo.   Ad esempio, Cina ha avuto la sua fase di crescita economica più convulsa nei venti anni approssimativamente compresi fra il 1985 ed il 2005 grazie ai massicci investimenti esteri ed al non meno massiccio trasferimento di impianti e tecnologie occidentali.
Ma sia pure con modi e tempi diversi rispetto agli altri paesi, anche in Cina il rallentamento dell’economia traspare oramai anche attraverso l’intensa manipolazione dei dati ufficiali, così come dal rilancio di forme di propaganda e di repressione che molti credevano oramai consegnati alla storia.

E allora?

Il picco dell’economia globale forse è stato fra il 2005 ed il 2010.   Probabilmente non a caso in corrispondenza con il picco globale della disponibilità di greggio, ma anche preoccupantemente in linea con i tempi dello scenario base dei “Limiti dello Sviluppo”.

Limiti dello sviluppo

Molti contesteranno questa idea con dovizia di dati, ma ritengo che, quando è scoppiato il bubbone nel 2008, la crisi fosse già consolidata da molti anni nel cuore stesso delle economie occidentali.  Se la maggior parte di noi non ci aveva fatto caso è stato solamente per un insieme di fattori fra cui l’abitudine, il potere tampone del debito, il martellamento mediatico ed il fatto che, ancora, non erano stati toccati i patrimoni piccoli e grandi accumulati nella fase precedente.   Man mano che i risparmi vengono erosi, le proprietà divengono un peso ed i vecchi dotati di buone pensioni muoiono, diviene semplicemente evidente una malattia  che abbiamo oramai da molto tempo.  Un po’ come quando ci si rende conto di avere l’AIDS, magari dopo venti o trent’anni che abbiamo contratto l’HIV.

Tutto questo per dire di non fidarsi di chi identifica le cause della crisi in eventi recenti, ma soprattutto di non fidarsi di nessuno che prometta di guidare il Paese verso un nuovamente fulgido avvenire, quale che sia la medicina proposta.

 

 

Dio non è morto, Marx neppure e siamo solo noi a non sentirci tanto bene

dio non è mortoLe cose cambiano, a volte più lentamente di quanto immaginavamo, ma cambiano.
Alla fine del XX secolo ci deliziavamo con la battuta di Woody Allen sulla morte di Dio e di Marx, ma oggi mi sento di dire che Dio non è mai morto, Marx è in ottima salute e siamo solo noi che non ci sentiamo tanto bene.
In effetti Dio appare ovunque e le religioni dilagano con il loro carico di valori, ideologia e, spesso, violenza.  Perfino gli atei, con i loro dogmi scientisti, rischiano di apparire solo un’altra religione con il suo carico di intolleranza.  Basta leggere Dawkins per rendersene conto.  Con le sue vere e proprie scomuniche nei confronti di chi, essendo uno scienziato, non si dichiara apertamente ateo oppure, pur dichiarandosi ateo, non aderisce alla sua crociata (ha parlato, a questo proposito, di alto tradimento nella sua polemica con Gould). Ma non è solo in negativo che si osserva una rinascita, se non della religione, della spiritualità.  L’osservazione del fatto che sappiamo veramente ben poco di quello che ci circonda e che, in sostanza, due secoli e mezzo di progresso scientifico sono serviti per lo più ad evidenziare l’immensità della nostra ignoranza, non può non condurre ad una considerazione semplice: non possiamo disprezzare né la sfera spirituale ne quella divina.
Anche solo sospendere il giudizio è, in questa fase, desiderabile e benefico.  Fatto salvo, ovviamente, il rifiuto di quelle posizioni ideologiche che vorrebbero imporre il peccato come reato, la conclusione cui si giunge (lo fa ad esempio Bernardo Kastrup) è che il materialismo filosofico è una sciocchezza come le altre.  Rivalutare la propria dimensione spirituale non vuole dire abbassare la guardia rispetto alla violenza della sharia o al clericalismo; è semplicemente un atto di onestà intellettuale.

marx non è mortoIl marxismo ha ripreso ossigeno dalla crisi senza fine del capitalismo globalizzato e non senza buone ragioni.  Karl Marx aveva capito molte cose e ci sono buone ragioni per rivalutare la sua analisi del capitalismo e del suo inevitabile collasso sotto il peso della sua stessa imponente ed inarrestabile crescita.
In particolare la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto sembra collegarsi più profondamente alla legge dei ritorni marginali decrescenti e, in ultima analisi, al secondo principio della termodinamica.
Raramente rivalutato con spirito innovativo, Marx viene generalmente rimasticato dagli orfani di Lenin (o perfino di Stalin per quanto vedo io), di tutte le rivoluzioni fallite e sfociate in qualche tirannia burocratica e folle.  Il mondo è pieno di predicatori, anche molti marxisti lo sono.
D’altra parte anche l’idea abbastanza idiota che la Storia fosse finita, che il capitalismo, sostenuto dalla liberal-democrazia, trionfasse ormai ovunque senza avversari credibili si è scontrata con la realtà degli ultimi 15 anni afflosciandosi sotto il peso, in primis, del rapido raggiungimento dei limiti della crescita.

Ed è qui che arriviamo noi. Noi intesi come cittadini del mondo, noi che abbiamo poca o nessuna possibilità di influire sugli eventi.   Noi che pensiamo a come sistemare la nostra famiglia ed i nostri cari domani; che andiamo a votare con quel fardello di risentimenti e insoddisfazioni derivati dalle mancate promesse del passato la cui falsità riconosciamo facilmente ormai, in quelle del presente.   Noi stanchi di retorica vuota (perché anche la retorica, forse, aveva una sua nobiltà, come arte del convincere, quando non era stata svuotata dalla massificazione televisiva).   Noi che soffriamo le conseguenze di una crisi che non avevamo previsto e una denaturalizzazione dell’ambiente che avevamo trascurato.
Pensavamo che il problema sarebbe stato l’abbondanza.   Possiamo stare tranquilli: questo problema dell’abbondanza sparirà in fretta. L’abbondanza era un fenomeno passeggero, un transiente storico prevalentemente determinato dal flusso di energia a buon mercato garantito dai combustibili fossili.
L’inizio di questo secolo ha visto il primo momento critico nella storia della produzione petrolifera con una aumento generalizzato dei costi di produzione ed l’avvicinamento dell’EROEI (Ritorno Energetico sull’Investimento Energetico) al valore di 10, considerato critico per il supporto di una civiltà industrializzata.
Nello stesso periodo si è andato delineando lo scenario di overshoot ecologico della specie umana, attraverso praticamente tutti gli indicatori di impatto ambientale.
Il problema, come ha detto qualcuno, non è che alcune notizie sono cattive e che i nichilisti ecologisti vedono solo quelle; il problema è che le notizie sono tutte cattive.   Quelle che non lo sono, o sono positive solo per chi non si cura dei danni ambientali, come la ripresa della crescita economica in questa o quell’area geografica; o irrilevanti, come la riduzione della mortalità per qualche malattia più o meno diffusa e importante.
La più cattiva delle notizie, che solo qualche pazzo può continuare a negare (il problema è terrificante quando quel pazzo diventa un candidato credibile alla presidenza degli Stati Uniti d’America) è quella che il cambiamento climatico sembra aver preso una traiettoria sulla quale è ormai difficile che si possa fare qualcosa se non, tornando all’inizio di questo post, raccomandarsi l’anima a Dio. Ognuno al suo, se ce l’ha.

Ancora più deprimente è l’incapacità di cogliere il nesso causale fra situazione ambientale globale ed esplosione demografica.
I vari ideologi si arrampicano sui pochi specchi disponibili: potremmo essere tanti e rispettare la natura dicono i comunisti ed i francescani. Possiamo essere sempre di più, purché riparta la crescita e la ricchezza torni a ‘sgocciolare’ verso gli strati più bassi della società, dicono gli idolatri del mercato.   Anzi, addirittura siamo troppo pochi, la natalità deve riprendere a crescere, si rischia una crisi demografica senza precedenti.
Esiste anche un catastrofismo economicista che accusa il catastrofismo ecologista di essere catastrofista.

Mi sono venuto a noia da solo a ripetere che il problema non è assicurare un trattamento pensionistico alla mia generazione, ma garantire delle condizioni di vita non disastrose alle generazioni successive, inclusa quella dei miei figli.  E invece il Main Stream politico – informativo continua martellante: ci vuole lo sviluppo sostenibile. Dipingiamo di verde tutte le porcate ecologiche che facciamo in giro per il mondo, finiamo di antropizzare il poco che resta della biosfera (ma ne resta?) e il gioco è fatto.
Portiamo tutti i popoli del mondo al livello di consumi europei, almeno, ed il gioco è fatto. Non vedete come sono ecologicamente impeccabili gli scandinavi? Sogni.
Le presunte virtù ecologiche dei paesi del nord sono sostenute quasi sempre dalla devastazione ecologica del sud. Nessuno in questo mondo è autarchico e basta dare un’occhiata alle mappe di impronta ecologica per capire che la sostenibilità è un’illusione.

Per come la vedo io siamo in una situazione disperata. Ma, c’è sempre un ma. Possiamo fare ancora molte cose: diffondere quello che sappiamo (alla fine ciò che è scientificamente vero si afferma).   Smettere di essere arrabbiati con quelli che non ci ascoltano e non ci capiscono, ma anche con quelli che ci ostacolano e ci combattono, la rabbia è inutile. Dimostrare che è possibile vivere in modo meno distruttivo o non distruttivo. Che si può contribuire a creare un’infrastruttura energetica non basata sulle fonti fossili. Che si può combattere il consumismo opponendosi all’uso indiscriminato della plastica, alla rottamazione del vetro, battendosi per il riuso degli oggetti, imparando ad aggiustare le cose usando il molto che sappiamo sul loro funzionamento, ripensando il modo in cui si progettano e si costruiscono.
Possiamo soprattutto parlare con i nostri vicini, raggiungerli e impressionarli con le parole e l’esempio, sperando che parole ed esempio percolino oltre il nostro numero di Dumbar. Possiamo crescere i nostri figli nella consapevolezza di quello che ci attende. Possiamo iniziare a pensare al dopo collasso, perché il collasso ci sarà, statene sicuri.
Non sappiamo dove comincerà né esattamente come (anche se un nuovo collasso finanziario sarà probabilmente il primo evento scatenante), né esattamente quando (ma non ci illudiamo, questa società ha i lustri contati. Io scommetto per un massimo di 15 anni). Ma quando sentite parlare di proiezioni economico-sociali al 2050 non ci credete. Nel 2050 la società umana funzionerà con leggi diverse da quelle attuali.

Ognuno può immaginare quello che preferisce. Io mi astengo dall’immaginare troppo perché non ci sono gli strumenti per prevedere gli esiti di un collasso di queste proporzioni.

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La fine dell’economia: che ne è stato della profezia di Keynes?

La profezia di KeynesLe profezie sono sempre piaciute, sia quelle pessimiste che quelle ottimiste.   Fra queste ultime, una poco nota la dobbiamo ad un personaggio che oggi va di gran moda: nientedimeno che Lord John Maynard Keynes.

Mi riferisco ad una sua conferenza del 1928 (pubblicata nel 1930) dal titolo:”Quali saranno le possibilità economiche dei nostri pronipoti?”   Poiché quei pronipoti siamo noi, penso che sia interessante rileggere quelle pagine.

In sintesi, Keynes sostiene che un vero progresso cominciò solo con la massiccia importazione di oro ed argento saccheggiati nel Nuovo Mondo durante il XVI secolo.   Circa un secolo più tardi, cominciò la grande èra del progresso tecnologico, con un numero incalcolabile di grandi invenzioni e lo sviluppo di ogni tipo di macchine.

Il risultato fu un enorme incremento della popolazione mondiale e, dunque, dei consumi.   Specialmente in Europa ed negli Stati Uniti il tenore di vita quadruplicò ed il capitale centuplicò.
Punto importante, Keynes si aspettava che, a quel punto, la popolazione globale tendesse a stabilizzarsi sui 2 miliardi circa.   Mentre sia il miglioramento tecnologico che l’accumulo di capitale avrebbero continuato a crescere in maniera esponenziale.

Questo straordinario progresso, prevedeva, avrebbe creato un serio problema di disoccupazione, ma si sarebbe trattato di una fase temporanea.   Nel giro di un secolo da allora (dunque all’incirca adesso), il tenore di vita nei paesi avanzati sarebbe stato tale che l’economia avrebbe definitivamente cessato di interessare alla gente, ma attenzione!   Solo a condizione che nel frattempo non si fossero verificate né grosse guerre, né grossi incrementi di popolazione.

Quello che mi ha colpito del discorso è che non vi si fa neppure un minimo cenno alla disponibilità di risorse (energetiche e non).   E neppure alla possibilità che l’alterazione degli ecosistemi possa portare a controindicazioni gravi, finanche catastrofiche.
In sintesi, colpisce la totale assenza di ogni riferimento alla legge dei “ritorni decrescenti” che, peraltro, il nostro conosceva benissimo.
La seconda parte della conferenza si concentra sulle conseguenze sociali di questo straordinario benessere.
In particolare, Keynes paventa il rischio che il rapido venir meno di preoccupazioni e necessità pratiche possa provocare dei “crolli nervosi” in molte persone.   Analogamente a quanto, secondo lui, stava già allora accadendo alle donne della buona borghesia occidentale.   Infelici perché la ricchezza le aveva private di divertimenti quali pulire, lavare, cucinare, accudire i figli.   (Senza nulla togliere al piacere di accudire una famiglia, mi piacerebbe sapere cosa pensasse di questo Lady Keynes).

Dunque, prosegue l’insigne economista, sarebbe stato necessario ancora per molto tempo mantenere un minimo di orario lavorativo. Suggeriva che, probabilmente, 3 ore al giorno sarebbero state sufficienti.
Ma annunciava anche cambiamenti ben più importanti!   Una volta che l’accumulo di denaro fosse stato tale da perdere la sua importanza sociale, l’umanità avrebbe finalmente potuto sbarazzarsi dell’ipocrisia con cui si esaltano come virtù i vizi peggiori.
“Saremo liberi di tornare ad apprezzare i principi religiosi e le virtù tradizionali.   Di tornare a considerare che l’avarizia è un vizio, che l’usura è un crimine, che l’amore per i soldi è detestabile.   Potremmo tornare a valorizzare gli scopi più dei mezzi e preferire il buono ed il bello all’utile.   Ad apprezzare le deliziose persone che sanno metter gioia nella vita propria ed altri.”
“Ma attenzione.   Tutto questo non ancora.   Per altri cento anni (dunque all’incirca fino ai giorni nostri) dobbiamo pretendere da noi stessi e dagli altri che il giusto sia sbagliato e viceversa perché l’errore è utile e il giusto non lo è.   Bisogna che avarizia ed usura continuino ad essere i nostri dei ancora per un poco, perché solo loro possono condurci fuori dal tunnel  del bisogno, alla luce del benessere.”

Secondo Keynes, la velocità di avvicinamento a questo bengodi sarebbe stata governata da quattro cose:  “La capacità di controllo della popolazione, la determinazione nell’evitare guerre e rivolte, la volontà di dare alla scienza una direzione propriamente scientifica, il margine di accumulo al netto dei consumi.”
A difesa di Keynes, bisogna dire che, a pensarci bene, qualche grossa guerra nel frattempo c’è stata.   E che la popolazione umana sia più che triplicata spiega sicuramente molti dei nostri attuali problemi. Ma chissà cosa direbbe oggi se potesse vedere dove la smodata avidità sta portando i pronipoti di cui vagheggiava?

È bello avere un corpo

Appiantica

(tra ponte ed elezioni, per non appesantire i lettori, ripropongo una riflessione ‘leggera’ datata dicembre 2007 sul recupero della fisicità)

Non cesserò mai di stupirmi di come l’andare in bicicletta riesca a stimolare pensieri, idee e riflessioni. Proprio ieri, in una splendida mattina d’inverno che sembrava piuttosto rubata ad un mite autunno, mentre percorrevo insieme a mia moglie un’Appia Antica praticamente deserta l’ennesima ‘lampadina’ mi si è accesa in testa, regalandomi un’altra briciola di comprensione.

Pedalavo e sentivo il mio corpo: le mani, le braccia, il movimento ritmico delle gambe. Percepivo il mio corpo muoversi, lavorare, agire. Dopo un po’ mi sono reso conto del perché questa sensazione mi paresse così piacevole. Ho realizzato che, normalmente, del mio corpo non me ne accorgo proprio.

A spiegarlo sembra strano, ma è esattamente così: siamo esseri dotati di mente e corpo, ma se il lavoro che dobbiamo fare è puramente intellettuale (cosa che, in una società in cui quasi tutte le operazioni sono delegate a macchine più o meno sofisticate, avviene ormai nel 90% dei casi), finiamo col concentrarci solo sulla sfera cognitiva, dimenticandoci perfino che ce lo abbiamo, un corpo.

Tempo addietro scrissi: la bicicletta altro non è che una sorta di ‘protesi’, utile a renderci capaci di azioni che normalmente non saremmo in grado di compiere. Come un bastone o una stampella rendono una persona claudicante in grado di camminare, così una coppia di ruote consente ad un normale corpo umano di percorrere lunghe distanze, a velocità impensabili per mezzo delle sole gambe, con relativamente poco sforzo.

Oggi mi sono reso conto che nel mio lavoro di tutti i giorni, svolto davanti al monitor di un computer, finisco col trattare il mio corpo come una semplice appendice del cervello. Ed in realtà è così per tutti, per quanto folle ciò possa sembrare. Abbiamo questa sorta di ‘grappolo di organi’ appeso sotto la testa, e lo trattiamo come un ingombro: lo usiamo il meno possibile (…sennò “si fatica”!), lo nutriamo quando ha fame (più spesso solo per gratificarci), e la sera lo abbandoniamo su un divano mentre il nostro cervello si ‘diverte’ a guardare qualche spettacolo televisivo.

Da questa dissociazione nascono molti dei problemi odierni, dall’eccesso di peso alla depressione da pigrizia, ai problemi cardiovascolari indotti dalla sedentarietà, mentre basta davvero molto poco, basta una passeggiata in bicicletta, a risaldare insieme l’unità mente-corpo che abbiamo perduto. Vado in bici e mi rendo conto che ho gambe, braccia, muscoli. Che sono miei. Che sono “io”.

Daniel Goleman spiega, nel volume Intelligenza Sociale, la funzione dei ‘neuroni specchio’: le zone del cervello che si attivano quando guardiamo un film, o un qualunque spettacolo, sono le stesse che si attivano quando operiamo i gesti che osserviamo. Per questo ci piace guardare i film d’azione: perché in questo modo il cervello sperimenta, in forma simulata, quei movimenti e quelle azioni che nella vita di tutti i giorni non compiamo più, e nel farlo rilascia endorfine. Il movimento dà piacere, ma siccome è un piacere che ci neghiamo compensiamo questa privazione attraverso un’azione simulata, puramente cerebrale, nel guardare muoversi gli altri.

Invece muovendoci davvero, come per esempio andando in bicicletta, torniamo a sperimentare la completezza del nostro organismo, a sentirlo vivere, respirare, esistere. Andare in bici, correre, fare sport, è piacevole di per sé, per il semplice fatto che ci restituisce un corpo, il nostro corpo, la cui esistenza per solito rimuoviamo. E il motivo dei questo piacere è molto semplice: è bello avere un corpo!

Bellezza, ricchezza, benessere

Qualche giorno fa, tornando a casa in bici dall’ufficio, ho deciso di allungare un po’ e farmi un giro al parco degli Acquedotti. Complice un sole al tramonto, basso ed aranciato, le nubi grigie di pioggia sopra la testa, la luce aveva una qualità rara ed affascinate come di rado accade.

Sembra incredibile, ma dopo quasi trent’anni riesco ancora stupirmi di quanto sia bello questo posto, e di quanto poco i miei concittadini lo apprezzino: inutile dire che a godere di una tale meraviglia ero in pressoché “beata solitudo”. E nello stupirmi di tanta bellezza, e dell’effetto gratificante che mi stava regalando, non ho potuto fare a meno di inanellare un po’ di ragionamenti.

“Stare in un luogo bello mi fa star bene”, è stata la prima considerazione. A seguire il lessico stesso mi ha guidato, perché la definizione di una persona che “sta bene”, in italiano, è “benestante”. Un benestante senza un euro in tasca… strana definizione, eppure incontestabilmente esatta.

Ho quindi iniziato a ragionare sulla deriva del significato delle parole quando per troppo tempo se ne fa un uso improprio. La parola “benestante” è ormai associata al concetto di una persona ricca di denaro, come se il denaro comportasse ipso-facto lo star bene. Paradossalmente un ricco rimane, nel pensiero comune e nel lessico, “benestante” anche se vecchio e malato.

Un povero, invece, può stare benissimo, avere una salute di ferro, una vista perfetta, eppure nessuno/a gli riconoscerà questo suo “benessere”. In qualche caso si insegue a tal punto il possesso di denaro da finire col fare una vita orribile ed ammalarcisi: le parole che usiamo condizionano grandemente il nostro modo di pensare.

Alla bellezza, che pure ci fa star bene, non siamo in grado di assegnare alcun valore. Lo sono invece, forse un po’ più di noi, quei turisti che attraversano mezzo mondo per venire a vedere cose alle quali noi neppure facciamo più caso. Strano e perverso meccanismo!

Perfino i parametri che utilizziamo per definire il nostro benessere sono parametri unicamente monetari. Il P.I.L. (prodotto interno lordo) ci racconta soltanto quale massa di denaro si muova all’interno di uno stato, ed una delle voci che lo compongono è quella relativa alle spese mediche: più un popolo sta male, più sale il P.I.L., più lo stesso popolo si convince di stare bene!

Uscire da logiche collettive deliranti ed autodistruttive è la nostra sola speranza di salvezza, l’unica opportunità che abbiamo di vivere vite emozionanti e degne di essere vissute. Evitare di lasciarsi ingabbiare in circoli viziosi mentali diventa essenziale.

La scorsa settimana mi “avanzava” una mezz’ora di vita ed ho deciso di spenderla a pedalare al parco degli Acquedotti. E’ stata una scelta saggia, perché alla fine mi ha insegnato cose importanti: che sto bene, e sono quindi un benestante… che la bellezza è a mia disposizione, a due passi da casa… che sono ricco di cose che il denaro non può comprare…

O che, se non mi lascio troppo distrarre, posso perfino accorgermi di essere felice.

Equità e sostenibilità sono sinergiche?

Equità e sostenibilitàUna maggiore equità nella distribuzione dei redditi viene sempre più spesso invocata dai piani basali ed intermedi della piramide sociale.   Con ottime ragioni.   Un simile livello di disparità non si era mai visto nella storia, probabilmente neppure all’epoca dell’impero Han o di quello romano.   Certamente Carlo Magno era un poveraccio rispetto ai fratelli Koch.
Fin qui credo che ci sia poco da aggiungere e, a scanso di equivoci, preciso subito che sono d’accordissimo che sia uno schifo che deve finire.   Il punto che vorrei discutere è però un altro: alcuni (fra cui nientemeno che il papa) sostengono che migliorare l’ equità sociale migliorerebbe anche la situazione ambientale.   Siamo sicuri che sia così?

Redditi e consumi

Il punto principale di chi sostiene la sinergia fra aumento dell’equità e riduzione degli impatti è il fatto (verissimo) che i ricchi consumano molto di più dei poveri.

Dunque, tanto per farsi un’idea di come potrebbe funzionare, immaginiamo di distribuire la metà dei patrimoni dei 50 uomini (e donne) più ricchi del mondo  (1.250 miliardi secondo Forbes) fra il miliardo di persone più povere della Terra.   Farebbero circa 600 dollari a testa, cioè circa il doppio di quello che attualmente guadagnano in un anno intero.   Cosa farebbero?   Ovviamente li spenderebbero per togliersi la fame, curare i malati, vestirsi decentemente, riparare la baracca dove vivono, magari mandare i bambini a scuola.
Tutte cose sacrosante che raddoppierebbero secco il loro impatto ambientale ed imprimerebbero una brusca accelerazione alla crescita demografica.
Viceversa, quando Carlos Slim, che già aveva 69 miliardi, nel 2012 ne ha intascati 4 netti non ha aumentato i suoi consumi e le sue emissioni, semplicemente perché aveva già tutto ciò che è possibile avere e consumava già tutto ciò che si può umanamente consumare.

Per dirla in termini scientifici, la correlazione fra aumento del reddito ed aumento dei consumi non è lineare.   E l’aumento dei consumi è tanto maggiore, quanto più basso è il reddito di partenza.
Ne consegue che aumentare la quota di PIL nei piani bassi favorisce la crescita economica e demografica assai più che non la crescita nei piani alti.    Anzi, si potrebbe addirittura considerare il meccanismo perverso di concentrazione in corso una sorta di reazione immunitaria del sistema “Umanità” alla propria ipertrofia: più la ricchezza si concentra nei piani alti, più l’economia reale affanna e con essa rallentano sia la crescita dei consumi, sia quella demografica.

Equità e sostenibilità nei modelli

limiti dello sviluppo scenario 8Molti non troveranno convincente  il ragionamento, quindi vediamo cosa ci dicono i modelli disponibili che, in qualche misura, prendono in considerazione l’ipotesi di una ridistribuzione dei redditi.
Ad oggi, il più affidabile continua ad essere l’autorevolissimo Word3 che, nell’edizione del 2004 (Limits to Growth: The 30-Year Update) propone, fra gli altri, un scenario in cui si ipotizza che dal 2002 la natalità globale si si stabilizzi sulla media di due figli per coppia e che venga praticata una distribuzione dei prodotti industriali uguale per tutti ad un livello del 10% superiore rispetto alla media globale del 2.000.   Vale a dire molto meno per i ricchi e molto di più per i poveri.
Sorvolando sui dettagli,  è interessante che queste condizioni allungano la fase di picco delle curve di produzione e della popolazione, prolungando il periodo di benessere per una ventina d’anni rispetto a scenari meno egualitari (e più realistici).   Dopodiché avviene comunque un collasso sistemico analogo a quello dello scenario BAU.
Si badi bene che la maggior parte di coloro che reclamano una maggiore equità si guardano bene dal parlare di limitare la popolazione.   Nel libro non viene illustrato lo scenario con ridistribuzione dei beni senza controllo della natalità, ma non ci vuole molto a capire che la popolazione crescerebbe molto rapidamente, mandando in collasso il sistema in quattro e quattr’otto.

Il secondo modello che in qualche modo prende in conto il livello di equità sociale è il popolarissimo HANDY,  il cui successo di pubblico dipende largamente dal fatto che dice cose che fa piacere sentire.
Purtroppo però, sotto il profilo scientifico il modello ha parecchi e vertiginosi buchi.   A cominciare dal fatto che è eccessivamente semplificato, così da delineare scenari del tutto impossibili, come quello in cui i predatori (l’élite) crescono anche dopo che hanno fatto estinguere le prede (la gente comune).   Oppure, ancora più grave, considera la capacità di carico una costante, indipendente dalle altre variabili.  O ancora non considera le fondamentali retroazioni fra sviluppo delle élite, la specializzazione del lavoro, l’aumento della complessità dei sistemi economici, la capacità dei sistemi di dissipare energia, eccetera.
Tuttavia, a parte queste ed altre gravi lacune, il modello ha l’indubbio pregio di inserire l’elemento sociale in questo tipo di modelli.   In attesa di meglio, possiamo penso prendere per buona l’indicazione di larga massima secondo cui livelli moderati di disuguaglianza tendono a rendere più stabili e resilienti le società.   A braccio, direi che un’occhiata alla storia conferma l’ipotesi, a condizione di prendere il termine “moderata disuguaglianza” in senso molto relativo.

Conclusioni.

In sintesi, una parziale ridistribuzione dei redditi avvantaggerebbe primi fra tutti i ricchi, consolidandone il potere.   Le élite del passato che sono rimaste in sella a lungo lo sapevano bene, come lo sapevano Karl Marx e gli anarchici dell’800.
In secondo luogo, favorirebbe i poveri la cui vita migliorerebbe non solo sul piano materiale, ma anche per il ridursi della snervante sensazione di essere quotidianamente defraudati ed ingannati.
Tuttavia sarebbe un miglioramento molto temporaneo.   La crescita dei consumi globali e la crescita demografica che ne deriverebbe si rimangerebbero il vantaggio nel giro al massimo di un paio di decenni, per poi precipitare tutti in un baratro ancora peggiore.  Amen.

A dire il vero una scappatoia ci sarebbe.   Si ridurrebbero sia l’iniquità che gli impatti se si abbassassero i redditi dei ricchi, senza incrementare quelli dei poveri e, contemporaneamente, adottando drastici sistemi di controllo demografico.    Ma questa è l’unica opzione su cui tutti sono d’accordo per essere contro.

L’auto elettrica ha vinto? 1: Tesla, Marchionne e Gandhi.

auto.it
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Vi preannuncio che il tema si presenta variegato e succoso, per cui mettetevi comodi: non lo esaurirò in un solo post. Per intanto partiamo da marchionne e dal suo odio per le auto elettriche. Niente di speciale, direte voi,  Si sa che Marchionne è fatto così. Peccato che La Fiat, abbia un centro ricerca avanzatissimo e molto invidiato che, a parte rivoluzionare il settore dei motori endotermici, ha sempre avuto ampie capacità anche nel settore dei veicoli alternativi.

Peccato che in questo modo una casa automobilistica tradizionale e con una immagine ormai irrimediabilmente compromessa a livello internazionale, abbia perso una opportunità irripetibile, in quanto, probabilmente ultima. Anche perché l’unione con Chrysler ha ancora di più consolidato la sua immagine di auto economica ma non particolarmente affidabile.

Peccato che, quando fu proposto dall’On. Lulli, ormai MOLTI anni fa, un disegno di legge che voleva creare un plafond di oltre 100 milioni di euro da dedicare alla promozione della diffusione dei veicoli a zero emissioni, Marchionne fece quello che per lui doveva essere un enorme sacrificio: SI MISE LA CRAVATTA ( la cosa era tanto inconsueta da fare notizia) ed andò alla camera a spiegare che il suo piano industriale ESCLUDEVA i veicoli elettrici ( il che in una audizione su un progetto di legge che prevedeva aiuti per queste categorie era quantomeno singolare). Finì come doveva finire: i suddetti aiuti furono “rimodulati” in modo da comprendere anche le auto a metano…

Il confronto con Tesla, per quanto riguarda dedizione e capacità di analisi del futuro è illuminante. Serve a far comprendere la cecità ed ottusità di un management che sta cancellando, è inesorabile, la presenza italiana nel mercato dell’auto.

E spiega il riferimento a Gandhi ed alla sua famosa frase “Prima ti ignorano. Poi ti irridono. Poi ti combattono. Poi hai vinto.”

  1. PRIMA TI IGNORANO

Nel 2010 vengono vendute le prime 50 Tesla Roadster in Italia

Marchionne 2010:

“Gli esperti internazionali concordano sul fatto che la quota di vetture elettriche non potrà superare il 5% del totale neppure tra dieci anni. Gli ostacoli ad un’ampia diffusione dell’elettrico sono ancora molti. Il prezzo è ancora troppo elevato, sia a causa dei bassi numeri di produzione sia a causa del costo della batteria”

Marchionne 2011:

“L’anno prossimo lanceremo la 500 elettrica sul mercato americano, e perderemo 10mila dollari ogni auto prodotta e venduta lì. Figuratevi se dovessimo esportarla verso l’Europa. Negli Usa ci sono degli incentivi legati allo sviluppo di veicoli a emissioni zero [ed, inoltre], la 500 elettrica ci serve a sviluppare tutte quelle tecnologie che utilizzeremo sui modelli a propulsione ibrida.” ( auto ibride Fiat nel 2016? Nessuna. nda)

Marchionne 2012:

” Lo abbiamo visto nel mercato Usa – ha dichiarato – e lo vediamo qui. Il costo della tecnologia è altissimo, è inutile illuderci che salvi il mercato dell’auto”

2) POI TI IRRIDONO:

Marchionne 2012 ( in occasione dell’approvazione della modifica del codice della strada che ha permesso la realizzazione di conversioni elettriche delle auto esistenti)

“Capisco che entusiasti politici e amministratori pubblici vedano questa trazione come rimedio per tutti i mali di inquinamento e rumore ed emissioni, ma oggi si tratta di una tecnologia che non è alla portata delle tasche normali, è una mobilità poco sostenibile in termini di diffusione di massa. Non sto dicendo che sia una tecnologia da abbandonare, tutt’altro, ma indirizzare tutto lo sforzo normativo per promuovere questo tipo di trazione porterebbe solo ad un aumento di costi senza nessun beneficio immediato e concreto. Sembra più saggio concentrarsi su motori tradizionali e carburanti alternativi”

Tesla Gennaio 2013: Model S sbarca in Italia.

3) POI TI COMBATTONO.

Marchionne 2013:

“Non sto dicendo che l’auto elettrica sia un progetto da non considerare – spiega – in Fiat ci stiamo lavorando seriamente con Chrysler che ha sviluppato grandi competenze. Ma è bene sapere che per ogni 500 elettrica venduta perderemo circa 10.000 dollari, un affare al limite del masochismo”

Tesla Gennaio 2014: Nel 2013 vendute 22.000 Tesla.

Marchionne 2014 in inglese, ad un convegno USA):

“I hope you don’t buy it because every time I sell one it costs me $14,000,” he said to the audience at the Brookings Institution about the 500e. “I’m honest enough to tell you that.” “ci rimetto 14000 dollari per ogni fiat 500 e. Sono abbastanza sincero da dirvelo”

(The gasoline-powered Fiat 500 starts at almost $17,300 including delivery charges, while the 500e starts at $32,650 before federal tax credits. Consumers are not willing to pay a price that covers Fiat’s costs so it loses money on the 500e.)

Through April, the automaker sold 11,514 of the 500 cars in the United States this year, down about 15 percent from the same period last year. The company does not break out 500e sales.

“I will sell the (minimum) of what I need to sell and not one more,” Marchionne said of the 500e. “Ne venderò il minimo possibile e non una sola di più”

 

Marchionne 2015 (parlando di Tesla ed Elon Musk): “Sono rimasto incredibilmente impressionato da quello che è riuscito a fare quel ragazzo”

Gennaio 2016: vendute oltre 55.000 Tesla nel 2015.

Marchionne 2016:“Il know how sull’elettrico è parte del DNA di ogni azienda seria e capace come FCA: dateci tempo di dimostrare il nostro valore, ma quando sarà prodotta e sul mercato, non prima. La verità è che nessuno guadagna con le auto a zero emissioni. Nemmeno Elon Musk (ceo di Tesla, ndr) che pure considero il guru del settore. Se uno va a guardare gli ultimi 100 anni, prima le industrie producevano tutto internamente. Oggi è il contrario, produciamo internamente motori e trasmissione…L’introduzione dell’elettrico ha tolto anche quel campo di competenza. Non siamo produttori di batterie e non dobbiamo per forza produrre motori elettrici”. 

Marchionne Aprile 2016:

“Non mi vergogno di dirlo – ha spiegato il top manager – Se Musk mi dimostrerà che l’auto può essere redditizia a quel prezzo (35 mila dollari negli Usa, ndr) copierò la formula, aggiungerò il design italiano e la porterò sul mercato entro un anno”. (!!!!!?!! BUM!! nda)

“Le numerose prenotazioni non mi sorprendono – ha aggiunto il Ceo  ma poi bisogna vendere le auto e guadagnare”

“Meglio arrivare tardi che essere dispiaciuti”.

4) POI HAI VINTO

Tesla Aprile 2016: 400.000 ordini per la tesla 3 il singolo caso più grande nella storia del marketing

Marchionne Maggio 2016: si cerca un accordo con Google per sviluppare sistemi di guida autonoma. Disponibile nel futuro, ovviamente, prima ci vanno sperimentazioni etc etc etc.

peccato che un sistema del genere è stato reso disponibile da Tesla già da alcuni mesi, come un semplice aggiornamento del Sw dell’auto, che già è in grado di parcheggiare, evitare ostacoli improvvisi, incidenti etc etc.

Non è il futuro. E’ presente. I proprietari di Tesla stanno utilizzando questa tecnologia ORA.

Sintesi: L’auto elettrica ha vinto, il suo Napoleone si chiama TESLA ( perchè i meriti vanno allargati all’azienda e non solo al suo fondatore) Fiat e, se per quello, BMW, Audi, VW, VOLVO, GM, etc etc inseguono senza grandi speranze. La Guerra continua e continuerà vedrete, in modi sempre più feroci, ma la cosa è evidente.

Ne parleremo, insieme a qualche considerazione più generale sulla mobilità personale, in un prossimo post.

Per intanto:

Vediamo di capirci. Caro Marchionne: sono ALMENO sette anni che ci spieghi, con molta pazienza ed altrettanta ottusa ostinazione, che le auto elettriche non hanno un futuro.

Poi ti tocca ammettere, di fronte all’evidenza dei fatti, che questo futuro è qui, è qui per restare e sei stato volutamente fermo, perdendo sette anni.

POI, senza alcun sprezzo del pericolo, immemore delle proiezioni (che a me sembrano tout court balle) sesquipedali di cui hai infarcito i tuoi comunicati PER ANNI, mancandole tutte, dichiari che IN UN ANNO Potresti fare un’auto in grado di competere con una Tesla?

IN UN ANNO? Quando da alcuni anni non riesci ad azzeccare un modello che è uno, nemmeno per sbaglio?

Senso del pudore, mi pare evidente, non l’hai mai avuto.

Senso del ridicolo? No, eh?

 

 

Estrema destra ancora vittoriosa! Domande?

MerkelDomenica scorsa il partito austriaco di estrema destra è diventato il primo del Paese.   Socialisti e democristiani, tradizionali partiti di riferimento, sono praticamente scomparsi.   Ci sono domande?    Penso parecchie.
La cavalcata dell’ estrema destra non solo europea, ma anche americana, cominciò in sordina negli anni ’90.   Considerato allora un fenomeno marginale, oggi sta riempiendo le agende delle think tank e degli analisti; turbando i sonni di un sacco di gente.   Non tenterò qui un riassunto di una tale mole di analisi su di un soggetto così complesso.    Semplicemente vorrei proporre qualche considerazione personale che spero possa contribuire, sia pure minimamente, ad arginare il fenomeno.

destra franceseLa prima è questa: di turno elettorale in turno elettorale l’ estrema destra avanza.  Possibile che tanta gente che votava socialista o democristiano (intesi in senso europeo, molto lato) si stia svegliando nazista o fascista?   Personalmente penso che sia poco probabile.   L’ estrema destra ha sempre avuto una sua nicchia, ma marginale era e penso che marginale rimanga.   La massa di voti che raccoglie ha tutta l’aria di essere un voto di protesta e/o di paura.   Niente di particolarmente nuovo, dunque, ma che rischia di generare degli effetti a medio termine perversi.

destra austriacaSospinti dal voto di protesta, i leader dell’ estrema destra andranno probabilmente al potere, dove potrebbero fare dei danni irreparabili.   Specialmente se i governi moderati in carica continueranno a preparare loro in terreno.
Dunque la prima cosa da fare sarebbe capire quali sono i principali argomenti che suscitano nella cittadinanza questo tipo di rischiosa protesta.   Per farsene un’idea, il modo più semplice è osservare quali sono i pochi punti che accomunano la maggior parte dei partiti e dei movimenti di maggior successo, peraltro assai eterogenei.   Direi che i principali sono i seguenti: la recessione con annessi e connessi, la corruzione, l’immigrazione, la sicurezza, il nazionalismo.   Non necessariamente in quest’ordine.

Dunque vediamoli brevemente uno alla volta per vedere se sono possibile delle parate, almeno parziali.

Recessione.

recessioneQuesta è la “madre di tutte le grane”.   Abbiamo costruito il nostro sistema politico basandoci sul presupposto che la crescita economica sarebbe durata per sempre e che, gradualmente, avrebbe coinvolto tutti.   50 anni fa già si sapeva benissimo che si tratta di una favola, ma nessun politico importante ha avuto il coraggio di spiegarlo ai suoi elettori.   E nessun corpo elettorale era ed è disposto a sentirselo dire.   Ne consegue questo sempre più frenetico arrampicarsi sugli specchi che inganna sempre meno gente, offrendo buon gioco a chi propone ricette tanto semplici quanto improbabili (ad es. usciamo dall’Euro).   Paradossalmente, proprio perché semplici ed improbabili, simili proposte fanno presa su chi, giustamente, sente di essere stato pesantemente preso per il culo.   Di qui l’inevitabile altalena di politici che ascendono promettendo di avere la ricetta giusta, per poi immancabilmente deludere.

Qui la parata sarebbe particolarmente difficile perché bisognerebbe spiegare come e perché la crescita non tornerà mai più e che questo, fra tutti i mali possibili, è il minore.   Molto difficile che possa funzionare.   Credo che sia persa, anche se mi piacerebbe vedere qualcuno che ci prova.

Corruzione.

corruzioneUna certa percentuale di parassiti ci sono sempre stati, ma quando diventano tanti e sfrontati scatta la modalità “Sono tutti ladri” che è esattamente quello di cui ha bisogno chi si propone come “quello che farà pulizia”.   Sappiamo già che non è vero ma ci piace illuderci.

Qui la parata sarebbe teoricamente facile: piantarla con gli interessi privati in politica.   Ma visto che in parecchi non lo fanno, forse è meno facile di quel che sembra da fuori.   Forse, una parziale spiegazione è che per salire di molto sulla la scala gerarchica è necessario disporre di un sacco di soldi, propri o di sostenitori.   E per avere i soldi ti devi legare ad un mondo economico in cui il limite fra l’economia “pulita” e quella “canaglia” sfuma di giorno in giorno.   Una volta che sei arrivato in alto, non solo non puoi abbandonare gli “amici degli amici”, ma oramai sei diventato uno di loro.

Immigrazione

immigrazioneQuesto è forse il punto in cui la classe dirigente sta fallendo nel modo più spettacolare.   Un sacco di poteri forti e deboli hanno un sacco di interessi legittimi e non in quest’affare ed ognuno tira il governo dalla sua parte, col risultato che assolutamente niente di quello che è stato fatto dai primi anni ’90 ad oggi ha il benché minimo senso logico.   I risultati non possono che peggiorare man mano che il fenomeno cresce all’interno di sistemi sociali progressivamente fragilizzati dalla crisi economica.

In generale io rifiuto la logica binaria, ma in questo caso credo che potrebbe esserci di aiuto.   Credo che ognuno, nel silenzio della sua cameretta, dovrebbe porsi questa domanda: L’Italia (o l’Europa) è sovrappopolata?   Si o no?   Barrare la casella.   Se si sceglie “Si”, allora è vitale stabilire un efficace controllo delle frontiere esterne e decidere chi facciamo passare e chi no.   Fra “tutti” e ”nessuno” ci sono parecchie opzioni possibili, ma nessuna con tutti sono contenti e nessuno si fa male.   Qualunque scelta facciamo ci saranno dolore e morte.   Se si sceglie “No”, allora l’unica cosa sensata da fare è un servizio regolare di traghetti che prendono la gente e la porti qui.   Ma anche in questo caso ci saranno dolore e morte.
Questo perché, purtroppo, la risposta corretta è “Si, parecchio” e continuare a negare che abbiamo un drammatico problema di quantità di gente serve solo ad aprire la strada chi sostiene che il problema è la qualità.
Il mio parere di ecologo professionista e storico dilettante è che società multietniche e multiculturali sono difficili, ma gestibili (con qualche incidente) ed è vero che la diversità è ricchezza.   Ma e’ anche vero che la nostra economia ed i nostri ecosistemi stanno collassando e che ogni persona in più, anche se rimane nel novero dei poveri, non fa che accrescere un’impronta ecologica già esorbitante.   E non è neanche vero che si potrebbe compensare riducendo lo standard di vita degli autoctoni.   Cosa che, fra l’altro, sta già accadendo (v. recessione) e non sono in molti a rallegrarsene.
Ridurre i propri consumi è infatti esattamente quello che è necessario fare per distruggere il più rapidamente possibile quello che resta della nostra economia industriale.   Una scelta che si può anche fare, ma che andrebbe fatta coscienti delle conseguenze.
Certo, dal momento che gli immigrati sono il 10% della popolazione europea, sono anche il 10% del problema dal punto di vista demografico ed ambientale, ma crescono al ritmo di circa due milioni l’anno e in dinamica dei sistemi le tendenze sono fondamentali.

Sicurezza

terrorismoCi sono due minacce che spaventano: la criminalità ed il terrorismo.

Quanto alla prima, è importante notare che il rapinatore od anche il topo d’appartamento sono assai più temuti del mafioso, autoctono o di importazione che sia.   E la criminalità spicciola è in buona misura una funzione sia della densità di popolazione che della povertà.   Aumentando la quantità di gente e la percentuale di poveri non può che aumentare, quale che sia l’origine dei poveri.

Quanto alla seconda, la probabilità di essere ammazzato da un pazzoide (islamista o meno) è enormemente più bassa di quella di prendersi un cancro, un infarto o di finire sotto una macchina, perfino a Baghdad.   Tuttavia i terroristi sono effettivamente riusciti a terrorizzarci, col risultato che, dal 2001 ad oggi, gli apparati di spionaggio e repressione si sono moltiplicati e raffinati considerevolmente.   Altri passi in questo senso saranno fatti al seguito di ogni futuro attentato, finché saremo completamente prigionieri di noi stessi.   Il confine fra “protezione” e “sopraffazione” tende a sfumare con l’aumento di intensità della protezione.   E cosa di meglio per un partito che aspirasse ad instaurare un governo autoritario che trovarsi l’intera macchina della “psicopolizia” già avviata e rodata?

Qui la parata comporterebbe una strategia di comunicazione complessa, tesa a dare una visione più realistica  dei rischi reali.   Ma questo non consentirebbe facili speculazioni elettorali neanche ai governi in carica.

Nazionalismo.

nazionalismoNella storia del mondo sono state sperimentate migliaia di forme di stato.   La nazione, intesa come sincretismo di un territorio contiguo, una popolazione omogenea ed un governo è un’invenzione del XIX secolo europeo.   Ed è stato il più fallimentare degli esperimenti politici della storia umana.   Due volte i paesi principali europei hanno avuto governi nazionalisti e ne sono scaturite le due guerre più devastanti della storia del mondo.   Alla fine, l’Europa che 50 anni prima dominava incontrastata il mondo, era ridotta ad un pugno di colonie chi della Russia e che degli Stati Uniti.   Evviva!  Riproviamoci!

Qui la parata richiederebbe innazitutto di insegnare la storia nelle scuole.   Poi ci vorrebbe una radicale ristrutturazione delle tremendamente ridondanti istituzioni europee.   L’autorità centrale dovrebbe essere da un lato ristretta a pochi temi vitali (ad es. ambiente, difesa, politica estera, macroeconomia).   Dall’altro, dovrebbe essere svincolata dal controllo dei governi nazionali.   Ma si da il caso che, di tutte le istituzioni europee, la meno soggetta al controllo nazionale è il parlamento, cioè quella che conta di gran lunga meno.   Viceversa, chi davvero decide è il Consiglio dell’Unione Europea che è composto dai rappresentanti dei governi nazionali (ministri o capi di governo, secondo gli argomenti).  Ed al suo interno, l’Eurogruppo, che non è neanche un’istituzione, ma semplicemente il club dei governi che hanno adottato l’Euro.

Conclusioni

Insomma, io credo che fermare la cavalcata dell’ estrema destra si potrebbe, ma non sarebbe facile e, soprattutto, richiederebbe un buon bagno di realtà tanto per i governanti che per gli elettori.   Non mi sembra che ne abbiano molta voglia né gli uni, né gli altri.