L’agnello di Dio che toglie i cannibali dal mondo

A furia di citare Jared Diamond mi è stato suggerita la lettura di “Cannibali e Re”, saggio dell’antropologo Marvin Harris pubblicato nel 1977. Ben vent’anni prima di Diamond, Harris provò a leggere le trasformazioni delle civiltà preistoriche e precolombiane attraverso la chiave di lettura delle dinamiche economiche e della disponibilità di risorse.

Cannibali
Le pagine che mi hanno più colpito restano tuttavia quelle dedicate alle civiltà mesoamericane ed alla cultura dei sacrifici umani e del cannibalismo. Diverse fonti dell’epoca, supportate da pitture e raffigurazioni scultorie, narrano che al termine delle cerimonie quasi quotidiane nelle quali il cuore delle vittime umane veniva strappato ancora palpitante e bruciato in onore delle divinità, i corpi finissero meticolosamente cucinati e serviti a tavola.

“Il cannibalismo azteco non consisteva in una degustazione casuale di leccornie cerimoniali. Tutte le parti commestibili venivano utilizzate in un modo strettamente paragonabile al consumo della carne di animali domestici. I sacerdoti aztechi si possono definire, a buon diritto, come macellatori rituali di un sistema statalistico dedito alla produzione e re-distribuzione di sostanziose quantità di proteine animali nella forma di carne umana.”

Il libro elenca quindi una serie di evidenze che dimostrano come le pratiche cannibalistiche, in epoche preistoriche, fossero diffuse in molte parti del mondo, Europa compresa. Fu proprio la nascita dei primi stati a porvi fine, e tutti i culti religiosi del Vecchio Mondo bandirono espressamente il cannibalismo. In cosa differì la situazione dell’America Centrale?

“Diversamente dagli dei aztechi, per le grandi divinità del Vecchio Mondo il consumo di carne umana era tabù. Perché solo nell’America centrale gli dei incoraggiavano il cannibalismo? Come suggerisce Harner, la risposta va trovata sia nelle specifiche forme di esaurimento dell’ecosistema mesoamericano, sotto l’impatto di secoli di produzione intensiva e di crescita demografica, sia nel rapporto costi-benefici dell’uso di carne umana come fonte di proteine animali laddove opzioni meno costose non erano disponibili. Come abbiamo visto più sopra, l’America centrale si trovò, alla fine dell’epoca glaciale, di fronte a un esaurimento delle risorse di carne animale più grave che in qualsiasi altra regione.”

Ecco il punto: Nei circa 20.000 anni trascorsi dall’attraversamento dello stretto di Bering, le bande di cacciatori/raccoglitori avevano portato all’estinzione la maggior parte della macrofauna dei due continenti, prima ancora che a qualcuno/a venisse in mente di praticarne la domesticazione e l’allevamento. Gli unici due animali allevati in mesoamerica erano il cane e il tacchino, e poco altro arrivava dalle battute di caccia nel fitto delle foreste. Il grosso della popolazione di basso rango si nutriva di mais e fagioli, il cui contributo proteico, già al limite, subiva periodici crolli negativi in occasione di carestie.

Popolazioni umane cresciute a dismisura grazie alle neonate pratiche agricole, ed in perenne debito proteico, diedero vita ad una religione i cui dei si nutrivano di vittime umane, semplicemente per alimentarsi essi stessi di quelle vittime. Un totale rovesciamento rispetto alla religione cristiana, nella quale sono i fedeli a nutrirsi del ‘corpo e sangue’ della divinità. Quest’ultimo cerimoniale (l’eucarestia), deriva in linea diretta da pratiche sacrificali ebraiche riservate agli animali, in particolare l’olocausto degli agnelli nel periodo pasquale. Va osservato che la religione ebraica si originò presso popolazioni dedite alla pastorizia, che non avevano alcun debito proteico e probabilmente individuavano nel cannibalismo la forma di ‘peccato’ più orribile.

“Se quest’analisi è corretta, allora dobbiamo considerare le sue implicazioni inverse. E precisamente che la disponibilità di specie animali domestiche svolse un ruolo importante nella proibizione del cannibalismo e nello sviluppo di religioni dell’amore e della misericordia negli Stati e negli imperi del Vecchio Mondo. Potrebbe allora darsi che il cristianesimo sia stato più il dono dell’agnello che non del bambino nato nella stalla.”

Credo che d’ora in poi non riuscirò più a sentir pronunciare la frase cerimoniale: “ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo” senza che mi scorra un brivido gelato lungo la schiena.

Gli anni ’70 videro un picco della fascinazione nei confronti del cannibalismo. “Soylent Green”, film del 1973, metteva in scena una forma tecnologica di cannibalismo, sotto forma di tavolette proteiche ricavate dal riprocessamento su scala industriale dei cadaveri umani. Ma fu anche l’epoca di film horror come “Cannibal Holocaust” (1980) e tutta una serie di produzioni di serie B analoghe. E probabilmente non è un caso, dal momento che il “Rapporto sui Limiti dello Sviluppo” dei coniugi Meadows fu pubblicato nel 1972, seguito a breve dalla crisi petrolifera (1973). Antichi fantasmi si affacciarono nuovamente all’immaginario collettivo, riportando a galla terrori sepolti dalla notte dei tempi.

Più recentemente il cannibalismo riappare nel romanzo distopico “The Road”, di Cormac McCarthy (2006), ambientato in un futuro prossimo flagellato da una catastrofe ambientale globale, con un’umanità decimata e ridotta alla totale disperazione. In altre forme, ancora più metaforiche, si può leggere un riemergere della paura diffusa del cannibalismo nel successo globale delle fiction a base di zombi.

Fuor di metafora, invece, l’ascesa del capitalismo globalizzato e dei suoi modelli di saccheggio ai danni di intere nazioni rimanda fortemente ad una forma contemporanea di cannibalismo, nella quale non già i corpi delle persone vengono consumati, ma le vite e le aspirazioni alla dignità ed alla felicità, con retribuzioni al limite della sussistenza e pratiche umilianti inconcepibili solo pochi anni addietro (i.e. l’obbligo al pannolone a causa dell’abolizione della possibilità di andare in bagno… e parliamo degli U.S.A.!)

Nell’arco dell’ultimo secolo abbiamo prodotto un mondo sovrappopolato supportato da una filiera alimentare sbilanciata ed estremamente fragile. Un modello da rimettere in discussione al più presto se non vorremo ritrovarci, a breve, nelle stesse condizioni dei popoli mesoamericani all’epoca della scoperta da parte dei navigatori europei: obbligati a guerre fratricide incessanti solo per poter accedere alla riserva proteica rappresentata dai cadaveri dei nemici fatti prigionieri.

Aztechi

Equità e sostenibilità sono sinergiche?

Equità e sostenibilitàUna maggiore equità nella distribuzione dei redditi viene sempre più spesso invocata dai piani basali ed intermedi della piramide sociale.   Con ottime ragioni.   Un simile livello di disparità non si era mai visto nella storia, probabilmente neppure all’epoca dell’impero Han o di quello romano.   Certamente Carlo Magno era un poveraccio rispetto ai fratelli Koch.
Fin qui credo che ci sia poco da aggiungere e, a scanso di equivoci, preciso subito che sono d’accordissimo che sia uno schifo che deve finire.   Il punto che vorrei discutere è però un altro: alcuni (fra cui nientemeno che il papa) sostengono che migliorare l’ equità sociale migliorerebbe anche la situazione ambientale.   Siamo sicuri che sia così?

Redditi e consumi

Il punto principale di chi sostiene la sinergia fra aumento dell’equità e riduzione degli impatti è il fatto (verissimo) che i ricchi consumano molto di più dei poveri.

Dunque, tanto per farsi un’idea di come potrebbe funzionare, immaginiamo di distribuire la metà dei patrimoni dei 50 uomini (e donne) più ricchi del mondo  (1.250 miliardi secondo Forbes) fra il miliardo di persone più povere della Terra.   Farebbero circa 600 dollari a testa, cioè circa il doppio di quello che attualmente guadagnano in un anno intero.   Cosa farebbero?   Ovviamente li spenderebbero per togliersi la fame, curare i malati, vestirsi decentemente, riparare la baracca dove vivono, magari mandare i bambini a scuola.
Tutte cose sacrosante che raddoppierebbero secco il loro impatto ambientale ed imprimerebbero una brusca accelerazione alla crescita demografica.
Viceversa, quando Carlos Slim, che già aveva 69 miliardi, nel 2012 ne ha intascati 4 netti non ha aumentato i suoi consumi e le sue emissioni, semplicemente perché aveva già tutto ciò che è possibile avere e consumava già tutto ciò che si può umanamente consumare.

Per dirla in termini scientifici, la correlazione fra aumento del reddito ed aumento dei consumi non è lineare.   E l’aumento dei consumi è tanto maggiore, quanto più basso è il reddito di partenza.
Ne consegue che aumentare la quota di PIL nei piani bassi favorisce la crescita economica e demografica assai più che non la crescita nei piani alti.    Anzi, si potrebbe addirittura considerare il meccanismo perverso di concentrazione in corso una sorta di reazione immunitaria del sistema “Umanità” alla propria ipertrofia: più la ricchezza si concentra nei piani alti, più l’economia reale affanna e con essa rallentano sia la crescita dei consumi, sia quella demografica.

Equità e sostenibilità nei modelli

limiti dello sviluppo scenario 8Molti non troveranno convincente  il ragionamento, quindi vediamo cosa ci dicono i modelli disponibili che, in qualche misura, prendono in considerazione l’ipotesi di una ridistribuzione dei redditi.
Ad oggi, il più affidabile continua ad essere l’autorevolissimo Word3 che, nell’edizione del 2004 (Limits to Growth: The 30-Year Update) propone, fra gli altri, un scenario in cui si ipotizza che dal 2002 la natalità globale si si stabilizzi sulla media di due figli per coppia e che venga praticata una distribuzione dei prodotti industriali uguale per tutti ad un livello del 10% superiore rispetto alla media globale del 2.000.   Vale a dire molto meno per i ricchi e molto di più per i poveri.
Sorvolando sui dettagli,  è interessante che queste condizioni allungano la fase di picco delle curve di produzione e della popolazione, prolungando il periodo di benessere per una ventina d’anni rispetto a scenari meno egualitari (e più realistici).   Dopodiché avviene comunque un collasso sistemico analogo a quello dello scenario BAU.
Si badi bene che la maggior parte di coloro che reclamano una maggiore equità si guardano bene dal parlare di limitare la popolazione.   Nel libro non viene illustrato lo scenario con ridistribuzione dei beni senza controllo della natalità, ma non ci vuole molto a capire che la popolazione crescerebbe molto rapidamente, mandando in collasso il sistema in quattro e quattr’otto.

Il secondo modello che in qualche modo prende in conto il livello di equità sociale è il popolarissimo HANDY,  il cui successo di pubblico dipende largamente dal fatto che dice cose che fa piacere sentire.
Purtroppo però, sotto il profilo scientifico il modello ha parecchi e vertiginosi buchi.   A cominciare dal fatto che è eccessivamente semplificato, così da delineare scenari del tutto impossibili, come quello in cui i predatori (l’élite) crescono anche dopo che hanno fatto estinguere le prede (la gente comune).   Oppure, ancora più grave, considera la capacità di carico una costante, indipendente dalle altre variabili.  O ancora non considera le fondamentali retroazioni fra sviluppo delle élite, la specializzazione del lavoro, l’aumento della complessità dei sistemi economici, la capacità dei sistemi di dissipare energia, eccetera.
Tuttavia, a parte queste ed altre gravi lacune, il modello ha l’indubbio pregio di inserire l’elemento sociale in questo tipo di modelli.   In attesa di meglio, possiamo penso prendere per buona l’indicazione di larga massima secondo cui livelli moderati di disuguaglianza tendono a rendere più stabili e resilienti le società.   A braccio, direi che un’occhiata alla storia conferma l’ipotesi, a condizione di prendere il termine “moderata disuguaglianza” in senso molto relativo.

Conclusioni.

In sintesi, una parziale ridistribuzione dei redditi avvantaggerebbe primi fra tutti i ricchi, consolidandone il potere.   Le élite del passato che sono rimaste in sella a lungo lo sapevano bene, come lo sapevano Karl Marx e gli anarchici dell’800.
In secondo luogo, favorirebbe i poveri la cui vita migliorerebbe non solo sul piano materiale, ma anche per il ridursi della snervante sensazione di essere quotidianamente defraudati ed ingannati.
Tuttavia sarebbe un miglioramento molto temporaneo.   La crescita dei consumi globali e la crescita demografica che ne deriverebbe si rimangerebbero il vantaggio nel giro al massimo di un paio di decenni, per poi precipitare tutti in un baratro ancora peggiore.  Amen.

A dire il vero una scappatoia ci sarebbe.   Si ridurrebbero sia l’iniquità che gli impatti se si abbassassero i redditi dei ricchi, senza incrementare quelli dei poveri e, contemporaneamente, adottando drastici sistemi di controllo demografico.    Ma questa è l’unica opzione su cui tutti sono d’accordo per essere contro.

Attrattori strani e clima terreste

http://ugobardi.blogspot.it/2016/05/male-molto-male-niente-affatto-bene.html

Probabilmente avrete già visto qualche volta, le strane evoluzioni di un sistema proposto da Lorenz: i famosi “attrattori strani“.

in sostanza, pur  se, nella sua caoticità, il sistema non ritorna MAI esattamente nello stesso stato, si può comunque fare qualche previsione: il sistema si evolverà all’interno di un campo abbastanza definito, con oscillazioni casuali. Qui sotto un esempio dinamico.

Quel che pochi sanno è che questo sistema fu concepito da Lorenz proprio per indagare l’evoluzione dei sistemi meteorologici, in forma più maneggevole. In sostanza fu un tentativo di ridurre la complessità del clima ad un modellino MOLTO semplificato, che pure desse qualche indizio sul comportamento del mondo reale su cui detto sistema si fondava.

La faccenda diventa immediatamente complessa (anche se affascinante) quindi restiamone fuori. A me QUI interessa solo far presente una cosa: la temperatura media mensile mondiale sembra, per oltre cento anni, aver oscillato in modo apparentemente casuale all’interno di una banda abbastanza definita poi, prima timidamente e negli ultimi anni in modo esplosivo, ne è uscita, a quanto pare senza fare più ritorno. La traiettoria degli ultimi due anni è da brividi.

Come potrete vedere, il sistema giocattolo ha DUE attrattori e, oltre un certo punto il sistema trova un nuovo equilibrio intorno a una situazione COMPLETAMENTE diversa da quella precedente. Ovviamente un sistema complesso ha un comportamento complesso con molteplici punti di equilibrio.

Quanti? Quali? Dove? Nessuno, ad oggi, ha una risposta precisa.

Conclusione:

Forse siamo appena riusciti a scappare al controllo di un qualche attrattore strano. temo, però che non sia una buona notizia. Per niente.

Ringrazio Ugo per l’immagine di apertura.

Darwin, i ciclisti e la pressione selettiva

Perché i ciclisti non rispettano il codice della strada? Perché si spostano in gruppo sulle arterie extraurbane intralciando i veicoli più veloci? Chi glielo fa fare di andare in bicicletta in città in mezzo alla puzza degli scappamenti e a rischio di essere investiti? Queste domande vengono spesso formulate da chi non va in bicicletta, ma altrettanto spesso i ciclisti non sanno rispondere propriamente. Ognuno elabora per la propria esperienza diretta, facendo riferimento al sapere accumulato negli anni, eppure difficilmente si esce dalla prospettiva individuale, dal “faccio così perché mi sembra meglio”, spesso accompagnata da “provaci tu, se sei tanto convinto”.

In realtà esistono ottime argomentazioni per ogni singolo punto, ma per comprendere meglio il quadro generale bisogna armarsi degli strumenti interpretativi dell’evoluzionismo darwiniano e ragionare i ciclisti come una specie in competizione per la sopravvivenza all’interno di un ecosistema in rapida trasformazione.

Evolve
Cominciamo dallo stabilire quando la varietà “ciclista” si distacca dal tronco principale della specie ‘homo’. questo avviene grossomodo nella seconda metà del 19° secolo, quando la bicicletta raggiunge un livello di efficienza tale da diventare competitiva con le altre modalità di spostamento dell’epoca. Più veloce degli omnibus, meno costosa delle carrozze, meno energivora di un cavallo, la bicicletta si ritaglia uno spazio via via crescente sia nella mobilità cittadina, sia extraurbana. Asseconda la nascente moda del turismo (dall’inglese ‘tour’) consentendo di effettuare viaggi anche lunghi, come ben documenta il volume umoristico Tre uomini a zonzo di Jerome Klapka Jerome pubblicato nel 1900.

Questa neonata popolazione arriva a diffondersi su un areale assai vasto ed a subire una prima diversificazione tra ciclisti quotidiani (quelli che utilizzano la bici per raggiungere il posto di lavoro o per piccole commesse) e ciclisti sportivi (che la utilizzano nel tempo libero con finalità ginnico/agonistiche), prima che l’avvento di una specie molto più recente ed aggressiva (gli automobilisti) non entri in competizione per gli spazi e le risorse viarie. L’avvento dell’era dell’automobile non era facilmente prevedibile, dati gli alti costi dei primi modelli (sostanzialmente un’evoluzione delle carrozze a cavalli consentita dal motore a scoppio), tuttavia lo sfruttamento dei primi campi petroliferi sembrò promettere una ricchezza sconfinata, in grado di mettere in moto un’industria di massa.

Il rovesciamento del paradigma economico operato nel ventesimo secolo finisce col penalizzare i mezzi economici a tutto vantaggio di quelli più dispendiosi ed energivori. La ricchezza sepolta del petrolio fossile diventa in breve tempo ricchezza diffusa, e per facilitare i consumi si operano politiche premianti nei confronti dei veicoli più famelici di risorse. Saltando la parentesi delle due guerre mondiali, l’attività principale del ventesimo secolo consiste nel convincere le popolazioni a possedere ed utilizzare automobili, marginalizzando tutte le altre modalità di spostamento sia attraverso l’industria culturale che (grazie a massicce azioni di lobbying) in chiave legislativa.

Gli stessi Codici della Strada, adottati nelle diverse nazioni per gestire l’improvvisa crescita del traffico veicolare (col relativo portato di morti e feriti), riflettono quest’impostazione autocentrica, non tenendo conto delle esigenze dei ciclisti con disposizioni adeguate a preservarne l’incolumità. Un esempio tra tutti di questo accanimento è l’assenza, nella legislazione italiana, di una distanza minima di sorpasso, cosa che di fatto autorizza gli automobilisti a ‘sfiorare’ chi va in bicicletta con manovre oggettivamente pericolose.

L’avvento delle automobili sulle strade può essere descritto come la presa di possesso di un ecosistema da parte di un predatore inarrestabile. In tutta la seconda metà del ventesimo secolo il numero delle automobili cresce in maniera esponenziale fino a portare alla totale saturazione degli spazi urbani. Le strade diventano, più che arterie dedicate allo scorrimento, spazio pubblico sacrificato ai desiderata dell’industria dell’auto e dei suoi clienti. Le auto in sosta occupano ogni luogo loro concesso fino a strabordare.

Nel corso di questo processo la popolazione ciclistica subisce una drammatica decimazione: i ciclisti quotidiani praticamente scompaiono dalle strade, soverchiati da un traffico veicolare crescente, pericoloso ed aggressivo, man mano che gli spazi viari urbani vanno riducendosi. Pesa, in questo senso, anche l’espansione delle città, la nascita di periferie dormitorio lontane dai luoghi di lavoro e tutta una serie di fattori concorrenti. I ciclisti sportivi subiscono la pressione competitiva del traffico stradale, iniziano a mettere in atto strategie sociali (spostarsi in gruppi sempre più numerosi) e muovono alla conquista di territori prima preclusi.

L’affermazione della mountain bike, sul finire del ventesimo secolo, rientra pienamente in questo processo: i ciclisti superstiti, scacciati dalle strade dalla pressione di predatori voraci e letali, tornano ad occupare spazi marginali e semi-abbandonati: sentieri, sterrate, carrarecce. Questo produce un’evoluzione della specie, che a pochi anni di distanza può tornare a popolare il territorio cittadino sfruttando spazi prima preclusi grazie alle innovazioni tecnologiche che equipaggiano le nuove biciclette: i marciapiedi diventano un terreno di competizione con la popolazione dei pedoni, i parchi urbani garantiscono corridoi veloci e protetti su un limitato ventaglio di direttrici.

Parallelamente a ciò, l’eccessivo successo delle automobili nella conquista delle città produce una crisi di rigetto nelle nuove generazioni, desiderose di autoaffermazione e meno plagiate dalla propaganda dell’industria. L’automobile viene percepita come un parassita (di fenomenale successo) degli spazi urbani, veicolatrice di inquinamento, rumore e sedentarietà, generando pulsioni antagoniste sia sotto il profilo dei comportamenti individuali, sia sul piano culturale. La bicicletta diventa, in questo processo, arma di conflitto intergenerazionale.

Riletta in chiave antropologica la rinascita dell’utilizzo urbano della bicicletta ha lo stesso significato delle esibizioni di forza ed agilità che un tempo le tribù umane utilizzavano ai fini dell’affermazione individuale ed in chiave di attrazione sessuale. La sfida dell’individuo disarmato ad una realtà meccanizzata ed opprimente diventa l’equivalente di una battuta di caccia a prede pericolose, o uno scontro bellico contro una tribù rivale. L’uso di biciclette ridotte all’essenziale, prive di marce e spesso del meccanismo della ruota libera (fixe) alimenta questa mitologia dell’eroe in bici che si muove impavido attraverso la città, contrapposto agli automobilisti inscatolati e disumanizzati per propria scelta.

In quest’ottica di conflitto permanente ogni comportamento ‘anomalo’ o in contravvenzione ai codici è interpretabile in chiave di necessità più che di sfida. Attraversare col rosso semaforico tende a massimizzare il vantaggio di percorrere un tratto di strada temporaneamente libero dalle automobili, percorrere i marciapiedi riduce il rischio di investimento, imboccare contromano i sensi unici accorcia le percorrenze e spesso consente di evitare tratte ad alto rischio. Perfino occupare il centro carreggiata ha unicamente lo scopo di impedire sorpassi quando le condizioni del fondo stradale, o gli spazi, non consentirebbero di farlo in sicurezza (checché ne pensi il conducente dell’automobile che segue, molto meno riluttante a rischiare l’incolumità altrui di quanto farebbe con la propria).

La popolazione dei ciclisti nelle aree urbane (Roma, nella mia esperienza diretta), è minoritaria ma estremamente combattiva. Si nutre del vigore fisico prodotto dall’esercizio sui pedali e produce continuamente nuove idee grazie alla miglior ossigenazione dei cervelli. Diffonde ‘il verbo’ grazie al contatto diretto ed all’uso sapiente dei media digitali. Lentamente cresce, nell’attesa del momento del riscatto.

Narra la profezia che un bel giorno gli ‘autosauri’ si estingueranno, i giacimenti di petrolio esauriti, i serbatoi vuoti, le materie prime ormai rare e costose. Quel giorno i mammiferi erediteranno la Terra.

Charles Darwin resting against pillar covered with vines.

Disco Inferno: gatti distratti ed il Canada arrosto

Si, si, si. Lo so. Che cavolo c’entra una hit disco degli anni’70, a parte il titolo suggestivo, con lo spaventoso incendio in atto in Canada, che ha già carbonizzato oltre 2000 km quadrati di territorio intorno a Fort MC Murray, Alberta, un’area grande come una intera provincia italiana, con danni ad infrastrutture e città che potrebbero essere i peggiori della storia?

Più di quanto sembri.

Partiamo,a sorpresa dal gatto.

Che, poveretto, NON è il responsabile della conflagrazione ma piuttosto il soggetto di una metafora.

Poniamo che un gatto, quando finalmente il suo padrone, tardo epigono dei mitici Trammps, alla ricerca di una birra, cessa di produrre orribili suoni, si avvicini al microfono, appoggiato ad una delle casse. Supponiamo che detto gatto, sia oscuramente consapevole che detto microfono sia la fonte di tutti i suoi mal di testa. Sapete come fanno i gatti, no? Seduti accanto all’oggetto a loro antipatico, cominciano a prenderlo a schiaffetti fino a farlo cadere. Il microfono, schiaffeggiato con particolare dedizione dal micio, cade ai piedi della cassa su cui era posato. il rumore della caduta, debitamente amplificato, viene restituito dalla cassa stessa, che ora è a circa 5 centimetri di distanza. Il frastuono prodotto dalla cassa viene anche esso debitamente trasformato in un segnale elettrico che, debitamente amplificato, viene restituito come un fragore di tuono insieme ad un fischio che scala in un urlo lancinante, che viene ancora colto ed amplificato… sapete come va a finire: o il padrone del microfono nonché coabitante del gatto interviene prontamente o il sistema risolve il problema da solo, friggendo una componente elettronica o distruggendo una delle casse, insieme alle orecchie di tutto il vicinato. Non del gatto, che è già ad almeno 50 metri di distanza. Questo fenomeno di “riverbero” che conosciamo tutti, è un esempio di una categoria molto ampia di risposte con retroazione: si chiamano “feedback positivi”.

Ecco: questo è quello che potrebbe succedere, se non sta già succedendo, in Canada. Una versione decisamente più catastrofica e macroscopica del famoso battito d’ali della farfalla.

Cantare e suonare hit anni ’70 in presenza di orecchie MOLTO sensibili ha conseguenze inaspettate e, alle volte catastrofiche.

Accendere un fuoco, gettare un tizzone, semplicemente provocare un corto circuito su una linea elettrica interrata, oppure un semplice fulmine, possono avere conseguenze fuoriscala, quando il suolo è molto ma molto più secco del normale, in questi umidi luoghi e la temperatura è  VENTIDUE GRADI oltre la media stagionale ( che sarebbe come se da noi, oggi, ci fossero 45 gradi). Il calore degli incendi, la fuliggine depositata, il metano rilasciato dal permafrost che si scioglie, sono tutti feedback positivi: aumentano l’assorbimento di calore, surriscaldando ancora di più il territorio.

anomalia termica alberta

Ovviamente questo a sua volta aumenta il rilascio di metano da parte del permafrost, che a sua volta… insomma: avrete capito: SE non interviene qualche fattore limitante esterno, si può destabilizzare l’intero equilibrio del nord del Canada con conseguenze epocali non in venti anni ma nel giro di una sola stagione. Oltretutto, l’abbiamo accennato, la copertura nevosa e l’estensione dei ghiacci marini è ai minimi assoluti e, anche senza eventi macroscopici di queste dimensioni, siamo avviati a battere i record ( negativi) del 2011. Anche qui abbiamo effetti di feedback positivo: l’acqua marina ha una albedo bassa, intorno al 10%, da confrontare con il 90% ed oltre del ghiaccio. Il mare artico privo di ghiacci si scalda, quindi, rapidamente e questo, al solito, porterà al rilascio di maggiori quantità di metano che a sua volta…Brutto vero?

Se vi chiedete dove si potrebbe arrivare vi posso dare un numero: nel cosiddetto massimo termico Paleocene/eocene ( che qualche negazionista climatico usa come dimostrazione che la Terra è stata più calda di oggi e tutto è andato bene) al polo nord la temperatura media era di circa 13 gradi. Più o meno come a Milano, oggi.

Nota bene: i poli stavano ( piu’ o meno) dove stanno oggi. Insomma parliamo di territori che ANCHE A QUEI TEMPI erano all’estremo Nord. Domanda: che temperatura media c’era, alle nostre latitudini?

Non lo sappiamo di preciso ma siamo certi che fossero torride. Probabilmente le zone intorno all’equatore diventarono troppo calde per le specie animali più evolute.

La cosa interessante è che ora sappiamo che tale spaventoso aumento ( da 10 a 6 gradi!!) delle temperature medie è associato con un picco di rilascio di carbonio nell’atmosfera, sulla scala di circa 20.000 anni. Le ragioni di questo picco sono discusse ma una delle ipotesi deriva proprio da effetti di catastrofico feedback positivo Dovuti ad incendi estesi e ripetuti nelle foreste boreali ( ed australi, anche in Antartide si stava abbastanza bene) del periodo. Conseguente rilascio a catena di metano dal permafrost e dal mare etc etc.

Tutto questo è teoria.

Ma, ad esempio, cosa sta succedendo alla concentrazione di metano in queste zone?

Ecco la situazione il 3 Maggio, un paio di giorni dopo l’inizio degli incendi.

metano3maggio2016

Il puntino blu  a sinistra della macchiolina purpurea, dalle parti del canada occidentale ( aguzzate gli occhi) è Fort Murray. E’ evidente che i livelli di metano nei dintorni dell’incendio sono elevatissimi ( il magenta indica il fondoscala). Si tratterà di un incendio provocato dalle fughe di metano dal permafrost, come l’anno scorso in Siberia? Si tratterà, come più probabile, di un rilascio dovuto all’incendio stesso?

in ogni caso si tratta di un fenomeno di feedback positivo. Srà un’estate calda. MOLTO MOLTO calda, nelle zone artiche.

Ci consoleremo cantando a squarciagola (alla larga dal gatto):

Satisfaction came in a chain reaction – Do you hear?
I couldn’t get enough, so I had to self destruct,
The heat was on, rising to the top
Everybody’s goin’ strong
That is when my spark got hot

………….

ps: dedico la canzone a Marco, amico fraterno, che, giusto 38 anni fa, mi fece conoscere i trammps: oggi compie gli anni!!

SpaceX e la nuova frontiera

SpaceX atterraggioSpaceX è una società aerospaziale privata che sta mettendo a punto una serie di vettori economici per la messa in orbita di satelliti.   Al di la di qualche inevitabile fiasco, il programma sta riscuotendo un notevole successo.    L’ultimo: un atterraggio riuscito su di una piattaforma telecomandata in mezzo all’oceano, a conclusione di una missione reale di messa in orbita di un satellite.

L’idea di base è la riutilizzabilità dei vettori, cioè è la stessa che fu alla base del programma “Space Shuttle” che, invece, si è dimostrato rovinosamente costoso.   Il segreto è nell’altissimo grado di automazione, nella riduzione all’osso del personale e, soprattutto, nell’assenza di equipaggi.

Lo spazio come nuova Frontiera

Come sempre a seguito di qualche impresa spaziale di successo, rinascono le speranze per una colonizzazione almeno parziale del cosmo da parte della nostra specie.   Il sogno della “frontiera” è evidentemente uno degli archetipi fondanti della nostra civiltà e, forse, della nostra specie.

Questa sarà la volta buona?

Poco probabile, considerato il rapido peggioramento della situazione economica e ambientale a livello planetario, ma nessuno può dire con certezza cosa succederà.   Dunque facciamo l’ipotesi che il programma vada avanti abbastanza rapidamente da consentire l’avvio di uno sfruttamento commerciale delle spazio.   Per esempio per il reperimento di minerali rari, necessari per le tecnologie d’avanguardia, come quelle largamente usate da SpaceX.
Dunque, se un simile programma avesse successo, potrebbe forse una diffusione di tecnologie avanzate molto superiore a quella attualmente fattibile, forse frenando in extremis il “Picco di Seneca” sul quale stiamo sdrucciolando.
OK, ammettiamolo, ma con quali conseguenze?

Tanto per cambiare, la traccia più consistente ce la può dare ancora una volta LtG che, quasi 50 anni dopo la sua elaborazione, continua a dimostrarsi un potente strumento di analisi.
In questi ultimi anni, di tutto lo studio è stato da più parti riesumato e verificato lo scenario BaU (business as usual) perché descrive in modo sorprendentemente preciso l’effettiva evoluzione del’nostro mondo.   Ma non era questo lo scopo del lavoro ed i ricercatori del MIT avevano delineato anche altri scenari possibili, perfino più interessanti.
Ad esempio, come evolverebbe il sistema se le risorse disponibili risultassero essere il doppie di quelle allora stimate? Oppure il quadruplo?
Sulla Terra queste risorse extra pare proprio che non ci siano, ma se fossimo in grado di reperirle nello spazio il risultato sarebbe alla fine analogo.   E dunque?

E dunque sarebbe enormemente peggio!    Una conclusione tipicamente contro intuitiva e dura da digerire, ma assolutamente affidabile.
Ipotizzando di poter attivare un apporto consistente di risorse extra ad un costo energetico appena decente, molto probabilmente potremmo avere qualche decennio di relativa crescita economica in più.   Ma questo comporterebbe un ancor maggiore incremento demografico, un molto maggiore inquinamento ed un’ulteriore distruzione di biodiversità.   Dunque il collasso verrebbe si rimandato, ma sarebbe ancora peggiore, con un numero molto minore di sopravvissuti su di un pianeta in condizioni ancora peggiori.

limits.standard
In sintesi, lo scenario BaU prevede un collasso economico ed ambientale fra il 2020 ed il 2030, seguito a ruota dal collasso della popolazione umana.
LtG, scenario risorse abbondanti
Ipotizzando una disponibilità di risorse doppia a quella attualmente stimata, il collasso avverrebbe intorno al 2050, ma in compenso sarebbe molto più grave.

 

Certo, si può facilmente obbiettare che, mentre si sfruttano le risorse minerarie del cosmo, l’umanità potrebbe decidere di adottare un sistema economico basato su retroazioni negative, anziché positive come avviene adesso, così da impedire ogni ulteriore crescita economica.   Contemporaneamente, la politica del figlio unico (testé abolita in Cina) potrebbe essere di buon grado adottata da tutti ed avviasi così ad un lieto fine: un’umanità stabile e ragionevolmente prospera, finalmente cosciente dei limiti che non deve superare.

Ma un simile scenario mi pare manchi di coerenza interna.   Da una parte, infatti, si fa appello a tutte le forze del mercato e del progresso tecnologico per poter sfruttare il cosmo, dopo aver svuotato la Terra.   SpaceX è un’impresa commerciale tipicamente BaU.   Ed il progresso tecnologico può avvenire solamente a fronte di una massiccia dissipazione di energia, con tutte le conseguenze del caso.
Dall’altra e contemporaneamente, si fa appello a tutte le forze sociali e culturali per spazzare via l’economia di mercato e sostituirla con qualcosa che, forse, potrebbe somigliare alla “steady state economy” teorizzata da Herman Daly.

Ma se la prima ipotesi mi pare molto improbabile, ritengo la seconda impossibile.   Da almeno 50.000 anni a questa parte l’uomo non ha fatto che cercare nuove frontiere dove espandersi ed ogni volta che le ha trovate il risultato è stato sempre esattamente lo stesso: crescita demografica – impoverimento delle risorse e degrado degli ecosistemi – collasso della popolazione umana.
Collasso talvolta totale, assai più spesso parziale seguito, eventualmente, da un nuovo ciclo.   Dopo qualche secolo necessario per un parziale recupero delle risorse e per lo smaltimento delle scorie.
Nella storia ci sono stati alcuni tentativi di contrastare questa dinamica, ma anche questi hanno sortito risultati parziali e temporanei.

Dunque, personalmente, non credo che uno sfruttamento minerario del cosmo sia possibile.   Ma soprattutto non me lo auguro.

 

Cronache dalla discarica

Dal blog di Luca Sofri prima, e da “Il Post” poco dopo, sono venuto a conoscenza di un disturbo mentale noto come disposofobia, o “accaparramento compulsivo“. La pagina di Wikipedia lo descrive così:

“Accaparramento compulsivo (…) è un disturbo mentale caratterizzato dal bisogno ossessivo di acquisire (senza utilizzare né buttare via) una notevole quantità di beni, anche se gli elementi sono inutili, pericolosi, o insalubri. L’accaparramento compulsivo provoca impedimenti e danni significativi ad attività essenziali quali muoversi, cucinare, fare le pulizie, lavarsi e dormire.”

Per comprendere meglio i termini del problema bisogna vedere le foto delle case di persone sofferenti di questa malattia. Queste sono quelle disponibili su Wikipedia.

 .

 

In pratica vi è un accumulo insensato di oggetti, del tutto indipendente da ogni eventuale futura utilità degli stessi, tale da pregiudicare la vivibilità degli ambienti domestici, oltre a rendere impossibile il mantenimento di adeguate condizioni igieniche. La prima cosa che mi sono domandato è se io stesso non soffra di qualche forma analoga, sebbene più lieve, di disturbo mentale.

Per tradizione familiare tendo a non buttare nulla che possa avere un eventuale futuro utilizzo, ma mi disfo volentieri delle cose palesemente inutili ed inutilizzabili. Quindi, “a spanne” direi di no, anche se temo di esserci andato vicino in passato. Non disponendo di cantine, soffitte o garage, per anni ho avuto una stanza di casa (…una sola, che affettuosamente chiamavo “la stanza degli orrori“) “temporaneamente” ingombra di oggetti, per lo più di uso sporadico, “appoggiati” in attesa di miglior sistemazione. Ora, grazie soprattutto ad Emanuela, il locale è stato ricondotto alla decenza e ad una piena fruibilità.

Ma, mi sono chiesto poi, compiendo un salto logico: cosa accade se è un’intera popolazione, un’intera cultura, ad essere malata di disposofobia? Semplice, tutti continuerebbero ad ammucchiare roba inutile dappertutto, riducendo e rendendo infruibili gli spazi vitali… il che, a ben pensarci, è esattamente quello che avviene da alcuni decenni nelle nostre città.

 

Automobili e motorini parcheggiati in ogni dove, marciapiedi risicati e spesso invasi da mezzi in sosta, strade intasate o inutilizzabili perché percorse da veicoli ad alta velocità, cartelloni pubblicitari onnipresenti, una confusione visiva senza precedenti e soprattutto spazi per la vita e la socialità impraticabili o inesistenti.

La nostra avidità di oggetti, la nostra ansia da accumulo, l’esigenza di avere una, due, tre automobili per nucleo familiare ha progressivamente ridotto le nostre strade, i nostri quartieri e le nostre stesse vite esattamente come le case dei malati di disposofobia: ingombre ed impraticabili, progressivamente e senza che la maggior parte di noi se ne rendesse conto.

Vi siete mai domandati cosa penserebbe dei nostri spazi urbani un abitante della Roma di un secolo fa? Rubo ad internet qualche foto per chiarire il concetto. Questa era Roma tra fine ‘800 e poco prima degli anni ’60 (i “favolosi anni ’60“…):

Piazza del Popolo Piazza del Popolo
Piazza Venezia
Via Prenestina (prima della costruzione della sopraelevata)
Via di Tor Sapienza (estrema periferia)

(n.b.: tutte le foto, e moltissime altre, sono visibili sul forum “SkyscraperCity”, all’interno di una discussione intitolata “Roma Sparita”)

Quella delle immagini seguenti, invece, è la Roma di oggi, e la situazione continua a peggiorare nonostante si sia raggiunta in pratica la totale saturazione degli spazi urbani. Sono foto prese dalla rete, ma basta farsi un giro su Google Street View per rendersi conto di quanto il problema sia diffuso.

Dintorni di via Tuscolana
Corso Trieste (dal Blog RomaCiclista)

Ma non è tutto, l’ansia di possedere si spinge ben oltre, le case stesse non ci bastano più, l’esigenza di metrature e cubature cresce a dismisura. Negli stessi spazi che in anni lontani ospitavano una famiglia numerosa ora i “single” si sentono stretti. Abbiamo bisogno di tanto spazio da riempire con i nostri troppi oggetti, e dopo che l’abbiamo riempito non ci basta più e ne vogliamo dell’altro.

Quindi, non paghi di ammucchiare ciarpame nelle città stiamo facendo la stessa cosa con le campagne. La terra coltivabile scompare sotto schiere di seconde case usate se va bene un mese l’anno e capannoni industriali spesso sfitti e già ora in numero sovrabbondante rispetto al necessario, con la prospettiva di una de-industrializzazione a breve conseguente all’esaurirsi progressivo di combustibili fossili e materie prime.

Il responso clinico è semplice quanto inevitabile: disposofobia collettiva. Quella che pare improbabile è la possibilità di una terapia. Servirebbe un team di psicologi a disposizione di ciascuno di noi per avere qualche speranza di guarire… o forse “solo una catastrofe ci salverà”. Auguri!

(anche questo è un post ripescato dal mio blog Mammifero Bipede, e si collega idealmente a Il plusvalore del caos urbano, dove invece si analizzano gli interessi economici che ci hanno spinto in questa direzione)

L’auto elettrica ha vinto? 1: Tesla, Marchionne e Gandhi.

auto.it
auto.it

Vi preannuncio che il tema si presenta variegato e succoso, per cui mettetevi comodi: non lo esaurirò in un solo post. Per intanto partiamo da marchionne e dal suo odio per le auto elettriche. Niente di speciale, direte voi,  Si sa che Marchionne è fatto così. Peccato che La Fiat, abbia un centro ricerca avanzatissimo e molto invidiato che, a parte rivoluzionare il settore dei motori endotermici, ha sempre avuto ampie capacità anche nel settore dei veicoli alternativi.

Peccato che in questo modo una casa automobilistica tradizionale e con una immagine ormai irrimediabilmente compromessa a livello internazionale, abbia perso una opportunità irripetibile, in quanto, probabilmente ultima. Anche perché l’unione con Chrysler ha ancora di più consolidato la sua immagine di auto economica ma non particolarmente affidabile.

Peccato che, quando fu proposto dall’On. Lulli, ormai MOLTI anni fa, un disegno di legge che voleva creare un plafond di oltre 100 milioni di euro da dedicare alla promozione della diffusione dei veicoli a zero emissioni, Marchionne fece quello che per lui doveva essere un enorme sacrificio: SI MISE LA CRAVATTA ( la cosa era tanto inconsueta da fare notizia) ed andò alla camera a spiegare che il suo piano industriale ESCLUDEVA i veicoli elettrici ( il che in una audizione su un progetto di legge che prevedeva aiuti per queste categorie era quantomeno singolare). Finì come doveva finire: i suddetti aiuti furono “rimodulati” in modo da comprendere anche le auto a metano…

Il confronto con Tesla, per quanto riguarda dedizione e capacità di analisi del futuro è illuminante. Serve a far comprendere la cecità ed ottusità di un management che sta cancellando, è inesorabile, la presenza italiana nel mercato dell’auto.

E spiega il riferimento a Gandhi ed alla sua famosa frase “Prima ti ignorano. Poi ti irridono. Poi ti combattono. Poi hai vinto.”

  1. PRIMA TI IGNORANO

Nel 2010 vengono vendute le prime 50 Tesla Roadster in Italia

Marchionne 2010:

“Gli esperti internazionali concordano sul fatto che la quota di vetture elettriche non potrà superare il 5% del totale neppure tra dieci anni. Gli ostacoli ad un’ampia diffusione dell’elettrico sono ancora molti. Il prezzo è ancora troppo elevato, sia a causa dei bassi numeri di produzione sia a causa del costo della batteria”

Marchionne 2011:

“L’anno prossimo lanceremo la 500 elettrica sul mercato americano, e perderemo 10mila dollari ogni auto prodotta e venduta lì. Figuratevi se dovessimo esportarla verso l’Europa. Negli Usa ci sono degli incentivi legati allo sviluppo di veicoli a emissioni zero [ed, inoltre], la 500 elettrica ci serve a sviluppare tutte quelle tecnologie che utilizzeremo sui modelli a propulsione ibrida.” ( auto ibride Fiat nel 2016? Nessuna. nda)

Marchionne 2012:

” Lo abbiamo visto nel mercato Usa – ha dichiarato – e lo vediamo qui. Il costo della tecnologia è altissimo, è inutile illuderci che salvi il mercato dell’auto”

2) POI TI IRRIDONO:

Marchionne 2012 ( in occasione dell’approvazione della modifica del codice della strada che ha permesso la realizzazione di conversioni elettriche delle auto esistenti)

“Capisco che entusiasti politici e amministratori pubblici vedano questa trazione come rimedio per tutti i mali di inquinamento e rumore ed emissioni, ma oggi si tratta di una tecnologia che non è alla portata delle tasche normali, è una mobilità poco sostenibile in termini di diffusione di massa. Non sto dicendo che sia una tecnologia da abbandonare, tutt’altro, ma indirizzare tutto lo sforzo normativo per promuovere questo tipo di trazione porterebbe solo ad un aumento di costi senza nessun beneficio immediato e concreto. Sembra più saggio concentrarsi su motori tradizionali e carburanti alternativi”

Tesla Gennaio 2013: Model S sbarca in Italia.

3) POI TI COMBATTONO.

Marchionne 2013:

“Non sto dicendo che l’auto elettrica sia un progetto da non considerare – spiega – in Fiat ci stiamo lavorando seriamente con Chrysler che ha sviluppato grandi competenze. Ma è bene sapere che per ogni 500 elettrica venduta perderemo circa 10.000 dollari, un affare al limite del masochismo”

Tesla Gennaio 2014: Nel 2013 vendute 22.000 Tesla.

Marchionne 2014 in inglese, ad un convegno USA):

“I hope you don’t buy it because every time I sell one it costs me $14,000,” he said to the audience at the Brookings Institution about the 500e. “I’m honest enough to tell you that.” “ci rimetto 14000 dollari per ogni fiat 500 e. Sono abbastanza sincero da dirvelo”

(The gasoline-powered Fiat 500 starts at almost $17,300 including delivery charges, while the 500e starts at $32,650 before federal tax credits. Consumers are not willing to pay a price that covers Fiat’s costs so it loses money on the 500e.)

Through April, the automaker sold 11,514 of the 500 cars in the United States this year, down about 15 percent from the same period last year. The company does not break out 500e sales.

“I will sell the (minimum) of what I need to sell and not one more,” Marchionne said of the 500e. “Ne venderò il minimo possibile e non una sola di più”

 

Marchionne 2015 (parlando di Tesla ed Elon Musk): “Sono rimasto incredibilmente impressionato da quello che è riuscito a fare quel ragazzo”

Gennaio 2016: vendute oltre 55.000 Tesla nel 2015.

Marchionne 2016:“Il know how sull’elettrico è parte del DNA di ogni azienda seria e capace come FCA: dateci tempo di dimostrare il nostro valore, ma quando sarà prodotta e sul mercato, non prima. La verità è che nessuno guadagna con le auto a zero emissioni. Nemmeno Elon Musk (ceo di Tesla, ndr) che pure considero il guru del settore. Se uno va a guardare gli ultimi 100 anni, prima le industrie producevano tutto internamente. Oggi è il contrario, produciamo internamente motori e trasmissione…L’introduzione dell’elettrico ha tolto anche quel campo di competenza. Non siamo produttori di batterie e non dobbiamo per forza produrre motori elettrici”. 

Marchionne Aprile 2016:

“Non mi vergogno di dirlo – ha spiegato il top manager – Se Musk mi dimostrerà che l’auto può essere redditizia a quel prezzo (35 mila dollari negli Usa, ndr) copierò la formula, aggiungerò il design italiano e la porterò sul mercato entro un anno”. (!!!!!?!! BUM!! nda)

“Le numerose prenotazioni non mi sorprendono – ha aggiunto il Ceo  ma poi bisogna vendere le auto e guadagnare”

“Meglio arrivare tardi che essere dispiaciuti”.

4) POI HAI VINTO

Tesla Aprile 2016: 400.000 ordini per la tesla 3 il singolo caso più grande nella storia del marketing

Marchionne Maggio 2016: si cerca un accordo con Google per sviluppare sistemi di guida autonoma. Disponibile nel futuro, ovviamente, prima ci vanno sperimentazioni etc etc etc.

peccato che un sistema del genere è stato reso disponibile da Tesla già da alcuni mesi, come un semplice aggiornamento del Sw dell’auto, che già è in grado di parcheggiare, evitare ostacoli improvvisi, incidenti etc etc.

Non è il futuro. E’ presente. I proprietari di Tesla stanno utilizzando questa tecnologia ORA.

Sintesi: L’auto elettrica ha vinto, il suo Napoleone si chiama TESLA ( perchè i meriti vanno allargati all’azienda e non solo al suo fondatore) Fiat e, se per quello, BMW, Audi, VW, VOLVO, GM, etc etc inseguono senza grandi speranze. La Guerra continua e continuerà vedrete, in modi sempre più feroci, ma la cosa è evidente.

Ne parleremo, insieme a qualche considerazione più generale sulla mobilità personale, in un prossimo post.

Per intanto:

Vediamo di capirci. Caro Marchionne: sono ALMENO sette anni che ci spieghi, con molta pazienza ed altrettanta ottusa ostinazione, che le auto elettriche non hanno un futuro.

Poi ti tocca ammettere, di fronte all’evidenza dei fatti, che questo futuro è qui, è qui per restare e sei stato volutamente fermo, perdendo sette anni.

POI, senza alcun sprezzo del pericolo, immemore delle proiezioni (che a me sembrano tout court balle) sesquipedali di cui hai infarcito i tuoi comunicati PER ANNI, mancandole tutte, dichiari che IN UN ANNO Potresti fare un’auto in grado di competere con una Tesla?

IN UN ANNO? Quando da alcuni anni non riesci ad azzeccare un modello che è uno, nemmeno per sbaglio?

Senso del pudore, mi pare evidente, non l’hai mai avuto.

Senso del ridicolo? No, eh?

 

 

Euroscettici

euroscetticiGli euroscettici vanno di moda, ma chi sono?    Secondo la vulgata sarebbero un variegato assemblaggio di movimenti sia di destra che di sinistra, nemici su tutto tranne che sul fatto che bisogna ridurre il potere degli organismi comunitari.   Anzi, per parecchi di loro sarebbe meglio abolirli proprio.
Ma sono davvero loro gli euroscettici?

Per discutere l’argomento, conviene cominciare con un ripassino-lampo di storia patria:

 

Un po’ di storia

All’inizio del XX secolo le potenze europee avevano, complessivamente, il mondo in pugno.   Una solida alleanza fra Inghilterra, Francia e Germania avrebbe avuto la forza di tenere incantonati Stati Uniti, Russia e Giappone, nonché di risolvere tutti i problemi interni di povertà continuando a sfruttare spudoratamente il resto del mondo.
Certo, non era etico, ma non fu per uno scrupolo morale, bensì per un desiderio folle di predominio che gli europei decisero di suicidarsi scatenando la più terribile guerra mai vista fino ad allora.

Anche i vincitori ne uscirono molto peggio di come ci erano entrati ed il fiume di sangue fu così impressionante che ne  scaturì il progetto della “Paneuropa”.   Un progetto che ebbe un notevole successo iniziale, ma che fu presto soffocato dall’arrivo in Europa della Grande Depressione degli anni’30, nata in USA.   Il precipitare della situazione economica riportò al governo partiti nazionalisti che tentarono di arginare i danni dei propri paesi a scapito dei vicini.   Particolarmente feroci furono i francesi a danno dei tedeschi, cosa che aiutò non poco la carriera politica di Adolf Hitler.

Fu così che gli europei si gettarono in un secondo ed ancor più devastante suicidio collettivo; il più grandioso dell’intera storia.   Come andò lo sappiamo e, scavalcando forse 50 milioni di morti, giungiamo al 1945, con noi ridotti ad un cumulo di macerie, mentre USA ed URSS si spartivano il mondo e quel che restava di noi.

Fu in questo desolante paesaggio che Robert Schuman ebbe l’idea geniale di sostituire lo sfruttamento dei vinti con la collaborazione economica.   Un processo che nelle sue intenzioni doveva gradualmente sanare le ferite reciproche e creare quel clima di fiducia e fratellanza che era indispensabile per giungere alla creazione di quegli Stati Uniti d’Europa, tante volte vagheggiati e mai realizzati.

Funzionò e così giungemmo al 1989: collasso dell’Impero Sovietico.   Occasione per gli europei per un nuovo suicidio.
Con la Russia a pezzi e l’America troppo ebbra di vittoria per preoccuparsi di noi, abbiamo avuto una finestra di buoni 10 anni per fare due cose:
– Guidare l’economia in uno stato il più possibile stazionario;
– Creare una EU politicamente molto coesa ed integrata da subito, diluendo invece l’integrazione economica nei decenni a venire.
In altre parole, politica e difesa comuni; economie tendenti all’unificazione, ma con i tempi e le protezioni di cui ognuno aveva bisogno.

Ancor più importante: basare l’integrazione dei paesi dell’est sulla necessità di fare fronte comune alle immense difficoltà che non avrebbero tardato ad arrivare, anziché sulla prosopopea dell’arricchito che “educa al benessere” il suo vicino di casa povero.

Esattamente il contrario di quanto fecero i partiti al potere allora (ed ora).

euro-crisisLo stesso progetto della moneta unica, nacque come grimaldello per costringere le oligarchie nazionali a cedere effettiva sovranità ad un livello federale.    L’idea era, infatti, che poiché una moneta unica non potrà mai funzionare senza un governo unico, l’adesione all’Euro avrebbe poi costretto i vari “ras” ad accettare almeno un embrione di federazione.
Sbagliato.    Non ci hanno pensato due volte a mandare ai pesci il più importante esperimento politico del secolo per non rinunciare ad una fetta del loro potere.    Signora Merkel in testa al corteo.

Quel che non capisco è perché proprio lei ora si lamenti del fatto che il corteo cui ha dato l’avvio sta avendo tanto successo.

Comunque, non ci bastò: perseguendo un sogno neocoloniale assolutamente folle, assieme agli USA abbiamo promosso e spinto la globalizzazione economica planetaria.

Il sogno era affascinante: un Europa faro di civiltà che gestisce buona parte dell’economia mondiale (a proprio vantaggio), mentre le fabbriche, l’inquinamento, il proletariato urbano e tutte le altre cose sgradevoli connesse con lo sviluppo se le prendevano gli altri che, per di più, ce ne sarebbero stati grati.
E’ andata un po’ diversamente ed ora che la realtà bussa alle porte dei nostri sogni possiamo scegliere fra molte opzioni, ma ancora una volta riemergono gli spettri di un nazionalismo che, evidentemente, non ci è ancora costato abbastanza.    Sembra che stiamo nuovamente scegliendo di scannarci fra di noi, anche se sul piano economico e commerciale, anziché su quello militare, probabilmente perché non abbiamo più forze armate in grado di combattere se non come supporto a quelle USA.

 

Chi sono gli euroscettici?

Fenomeni complessi come questo hanno sempre cause altrettanto complesse, ma una di queste è facile da identificare: i partiti che controllano i governi nazionali controllano anche il Consiglio Europeo che è il vero organo decisionale comunitario.   E da 30 anni questi partiti sono impegnati in un gioco di prestigio: far funzionare un’economia integrata, ma senza integrare le politiche; anzi, spesso tirando a farsi l’un l’altro le scarpe.
Non funziona e non può funzionare, ma questa semplice constatazione non riesce a scalfire i processi decisionali interni agli stati che poi, tramite il Consiglio, si riverberano a livello comunitario.

Il paradosso sta tutto qui: gli stessi partiti che nel Parlamento europeo spingono per una sempre maggiore integrazione, nelle rispettive capitali locali e nel Consiglio Europeo remano invece contro, chi più chi meno.
Del resto è sempre così: le comunità sono più forti dei singoli e danno quindi dei vantaggi, ma per farle funzionare occorre che ognuno sia disponibile a far passare l’interesse collettivo avanti a quello individuale.   E questo non sembra che nessun governo abbia voglia di farlo.

Dunque, se proprio coloro che da sempre stanno seduti nelle “stanze dei bottoni” hanno estrema cura che certe cose non funzionino, è ovvio che non funzioneranno.    Ed è altrettanto ovvio che questo provocherà problemi, scontento e la precisa sensazione di essere presi in giro.   Sentimenti più che giustificati su cui estrema destra e sinistra hanno facile presa.

Io visualizzo la situazione in questi termini: siamo in mezzo ad un mare in tempesta e l’occhio del ciclone si avvicina.   La nostra barca è apparentemente robusta, ma chi la ha governata finora ha smontato gran parte delle strutture portanti per farci delle sovrastrutture inutili e pesanti che fanno beccheggiare pericolosamente lo scafo, mentre imbarchiamo acqua da diverse falle.   Gli ufficiali si picchiano intorno al timone, mentre i membri dell’equipaggio vagano con grosse canne in bocca e bottiglie di whisky mezze vuote in mano.   A questo punto un certo numero di passeggeri si ribella ed ha un’idea: affondiamo la barca ed andiamocene ognuno per conto suo, vedrete come sarà bello nuotare!

In conclusione, chi sono gli euroscettici?

Quelli che per 30 anni si sono rifiutati di fare davvero l’Europa, o quelli che in questi giorni si stanno costruendo delle carriere politiche sugli errori commessi da altri?

Comunque, almeno una cosa nessun euroscettico potrà negare: tutti i popoli d’Europa sono accomunati da almeno due cose: la smisurata superbia ed una spiccata tendenza al masochismo.

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Io e il nucleare (ricordando Chernobyl)

(quella che segue è la storia lunga e personale di come il sogno nucleare partorito dagli anni ’50 si sia dapprima intrecciato alla mia vita, quindi lentamente trasformato in un incubo… ho cercato di evitare il solito post tutto dati ed informazioni, chi desideri approfondimenti li troverà nei link inseriti nel testo)

All’inizio degli anni ’70 ero uno spigliato, precoce e solitario bimbetto. Avevo iniziato a leggere intorno ai tre anni e non mi ci era voluto molto per bruciare le tappe fumettistiche più classiche. Al mondo Disney (Topolino) era seguita la fase western (Tex) e a sette anni (!) ero ormai pronto a catapultarmi nello sfolgorante mondo dei supereroi (Superman, L’Uomo Ragno ed innumerevoli altri).

In questi mondi di fantasia accadeva che dei tizi a caso venissero investiti dagli effetti delle radiazioni, e che queste radiazioni producessero abilità strabilianti: super forza, la capacità di volare, di camminare sui muri, invisibilità e molto altro ancora. “Queste radiazioni devono essere la cosa più figa dell’Universo!” pensò quel me stesso infante. Fu così che crescendo decisi di capirne di più.

L’arco didattico della scuola dell’obbligo non mi aiutò molto, in compenso a quattordici anni ero già un accanito lettore di narrativa fantascientifica, da cui traevo nozioni confuse e difficilmente verificabili. Nel tempo che Mondadori impiegava a mandare in edicola un nuovo volumetto di Urania io ne avevo già divorati quattro o cinque, spazzolati sulle bancarelle dei mercatini dell’usato. Il mio sogno era di fare lo scienziato, ma prudenza ed indicazioni familiari mi fecero optare per una scuola tecnica (che comunque non mi precludeva l’iscrizione all’università).

Fu credo intorno al primo anno di Istituto Tecnico che nella biblioteca dell’ITIS Galileo Galilei trovai un libro intitolato “Fisica delle particelle”, testo che cominciò a dare concretezza a materie che avevo fin lì approcciato solo sotto forma di narrativa ‘pulp’.
(ne trovai anche un altro della stessa collana: “Dalla Terra alla Luna” di Paolo Maffei, che avviò il mio percorso di astronomo dilettante, ma questa è un’altra storia…)
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“La Fisica delle Particelle” mi chiarì quello che volevo veramente diventar: non un generico ‘scienziato’, bensì un fisico. E quale opportunità migliore per approcciare la facoltà di Fisica che non il percorso di studi in ‘Energia Nucleare’? Finito il biennio a Roma mi iscrissi per la specializzazione all’ITIS E. Fermi di Frascati (patria del vino e casa del Sincrotrone italiano).

Il percorso di studio sostituì all’iniziale entusiasmo una sobria diffidenza. Compresi una volta per tutte che le radiazioni non danno i superpoteri, ma hanno invece tutta una serie di ricadute non esattamente positive che vanno dall’avvelenamento da radiazioni al cancro nelle sue varie forme. Scoprii che al personale delle centrali viene fornito un ‘dosimetro’ per misurare la quantità di radiazioni assorbite in modo che non ecceda i limiti di legge (limiti comunque arbitrari). Anche l’incidente alla centrale americana di Three Mile Island contribuì a gettare un’ombra lugubre sull’intera faccenda.

Nell’estate dell’83 mi diplomavo col pigro voto di 51/60, fermamente convinto a non cercare impiego in una centrale nucleare. Mi iscrissi a Fisica, dove tuttavia entrai ben presto in rotta di collisione con la trattazione formale. Nel frattempo la mia sfera d’interessi si era ampliata, e la fisica cominciava a starmi stretta. Passai un paio d’anni inconcludenti all’università dove la cosa che imparai meglio fu il freesbee, quindi nel dicembre dell’85 partii per il servizio di leva, all’epoca obbligatoria.

Il disastro di Chernobyl nella primavera dell’86 mi colse ‘in pieno’. Non solo ero stato spedito nella regione italiana che subì il peggior fallout della nube radioattiva (il Veneto), ma in quei giorni il Comando Brigata ebbe la brillante idea di organizzare un campo di addestramento NATO nel bel mezzo dei boschi friulani. Passai una settimana di full-immersion nella natura ad inalare cesio 137.
(potete trovare un’efficace e sintetica ricostruzione dell’incidente sul blog di ASPO-Italia)

Fu così che, quando un anno dopo venne indetto il referendum per l’uscita dell’Italia dal piano energetico nucleare votai convintamente per chiudere il discorso. Consideravo ormai il nucleare una tecnologia che a fronte di modesti vantaggi (produzione di elettricità a prezzi concorrenziali) esponeva la collettività a rischi enormi. Tuttavia continuai negli anni a documentarmi, integrando in parte la formazione scolastica con tutta una serie di nozioni che all’epoca il piano di studi non prevedeva mi fossero fornite.

In primis la questione delle scorie. Negli anni ’80 il problema delle scorie poteva dirsi ‘non ancora’ risolto. Quarant’anni dopo posso serenamente affermare che il problema dello stoccaggio delle scorie ‘non è risolvibile’, almeno all’interno delle forzanti economiche del libero mercato. Lo smaltimento finale delle scorie non è di per sé impossibile, è semplicemente troppo costoso ed incerto sulla scala di tempi geologica dettata dai tempi di dimezzamento degli isotopi. Costoso al punto da rendere già in partenza scarsamente profittevole l’energia prodotta.

Il discorso scorie porta con sé una questione che negli anni scolastici non fu mai affrontata, ovvero il fatto che, oltre al carburante nucleare esausto, a fine vita della centrale l’intero edificio è ormai radioattivo. In qualche caso talmente radioattivo da non consentire i margini di sicurezza per il lavoro degli operatori. Gli edifici diventano così ‘scorie nucleari a bassa intensità’. Da smaltire. Non si sa come.
(sempre su ASPO-Italia un’analisi dei costi correlati al ‘decommissioning’, per quelli che amano formule e numeri)

Ci si potrebbe a questo punto domandare il perché dell’avventura nucleare. Una delle tesi più attendibili, in base alle informazioni che sono riuscito a mettere insieme, è quella dell’impiego bellico dei sottoprodotti del nucleare civile. In sostanza la produzione energetica in sé sarebbe un ‘mascheramento’ del reale interesse, consistente nella produzione di plutonio per le testate atomiche, un materiale non più presente in natura perché interamente decaduto. Questa tesi è riemersa recentemente nel dibattito sul piano nucleare iraniano (un paese produttore di petrolio che non ha realmente bisogno di produrre energia da fonti nucleari). Non avendo l’Italia un proprio piano di armamenti nucleari è stato relativamente facile per noi fare a meno anche del nucleare civile.

Un’altra interpretazione chiama in causa il cosiddetto ‘capitalismo di rapina’, che consiste nello sfruttamento terminale delle risorse lasciando i danni in eredità ai posteri. È un sistema ben spiegato dal solito Jared Diamond (in “Collasso”) relativamente alle miniere aurifere del Montana. In teoria la legislazione prevede che le imprese minerarie si facciano carico della riconversione ecologica del sito al termine del lavoro estrattivo (spesso effettuato con prodotti chimici velenosi). In pratica le imprese dichiarano fallimento quando la vena non è più redditizia, senza aver provveduto ad alcun lavoro di riparazione.

Cosa resta, ad oggi, del ‘sogno atomico’? Poco o nulla. L’incidente di Fukushima in Giappone ha spazzato via gli ultimi onesti entusiasti, lasciando a difendere questa tecnologia dannosa ed obsoleta solo più i ‘portatori di interessi’. La rete ci ha poi portato in casa i video girati nei distretti abbandonati, scene di desolazione che nessuno vorrebbe filmare a casa propria. Non esiste un’altra modalità di produzione energetica in grado di causare disastri tanto estesi.

Il problema di fondo è che le radiazioni sono invisibili. Non abbiamo sensi in grado di individuarle semplicemente perché la vita non ha dovuto averci a che fare. Nell’arco dei tempi geologici gli elementi instabili presenti nella crosta terrestre all’epoca della sua formazione hanno avuto tutto il tempo di decadere e perdere la propria radioattività prima che gli esseri viventi reclamassero il pianeta. Esiste ugualmente un fondo di radiazione naturale, ma è estremamente basso.

Quello che ha fatto l’umanità, dagli anni ’50 ad oggi, è stato recuperare il poco materiale fissile diluito negli strati geologici, concentrarlo, farlo reagire per produrre altro materiale radioattivo irradiando atomi stabili, concentrare e moltiplicare la presenza di sostanze rare che in molti modi nuocciono ai processi vitali. Il tutto per produrre armi di distruzione di massa ed una minima frazione percentuale dell’elettricità che circola nelle nostre case.

L’apoteosi di questo sogno prometeico sono i reattori cosiddetti ‘autofertilizzanti’, nei quali uno dei sottoprodotti del processo è ulteriore materiale fissile, ottenuto esponendo isotopi non fissili agli intensi flussi di neutroni prodotti dalle reazioni nucleari. Anche in questo caso la pratica è apparsa differire molto dalla teoria: l’unico impianto di produzione autofertilizzante in Europa, il francese Superphenix, è stato chiuso nel 1997 a causa di una serie di incidenti minori con rilasci radioattivi nell’ambiente.

Da ultimo la fusione nucleare, tecnologia inseguita per decenni che, a detta dei suoi esegeti, avrebbe dovuto produrre energia illimitata e pulita per mezzo di un processo che non dovrebbe produrre isotopi pesanti. A cinquant’anni dai primi esperimenti gli esperimenti sui reattori a fusione continuano ad ingoiare fondi per la ricerca e a non raggiungere neppure il pareggio energetico (il punto nel quale la quantità di energia generata è pari a quella assorbita dal macchinario). Le analisi più recenti descrivono problemi di instabilità del fenomeno apparentemente non risolvibili che crescono di scala all’aumentare del dimensionamento dell’impianto.

In realtà disponiamo già di un reattore a fusione nucleare in grado di fornire enormi quantità di energia con estrema continuità, oltretutto collocato in una posizione dalla quale non rischiamo contaminazioni o rischi di processi esplosivi. È il Sole. Irradia energia da circa quattro miliardi di anni, è stato il motore primo della vita sul nostro pianeta e ad oggi abbiamo le tecnologie per trasformare tutta quest’energia che ci piove addosso ogni giorno in forme utilizzabili per le nostre esigenze: i pannelli fotovoltaici. Tecnologie semplici, economiche, non inquinanti, che hanno un solo grave difetto: non sono in grado di concentrare potere e ricchezza in poche mani. Se fossimo una specie realmente intelligente lo percepiremmo come un innegabile vantaggio.